Il commercio illegale dei minerali costituisce la linfa vitale del conflitto in corso, ormai da quasi vent’anni, nella Repubblica Democratica del Congo, ricchissima di diamanti, oro, coltan, rame, legname, piombo, manganese, cassiterite. Non a caso il Congo viene definito uno “scandalo geologico”. Le sue risorse naturali sono ambite dalle grandi multinazionali che le acquistano a costo irrisorio dai gruppi ribelli che affollano le regioni orientali del Paese, dove sono concentrati i giacimenti minerari. È quindi sbagliato parlare di guerra civile, si tratta di un conflitto per il possesso delle zone minerarie che coinvolgono anche le élite politiche, corrotte e avide di denaro. In particolare è il coltan, il minerale più ambito dalle multinazionali, ad alimentare il dramma congolese. Dalla “sabbia nera” si estrae il tantalio, indispensabile per l’industria elettronica, delle telecomunicazioni e aerospaziale. Ma nell’ultimo anno, forse a causadella crisi finanziaria mondiale, anche l’oro è tornato di moda. Secondo un’indagine realizzata dal Wall Street Journal, è stato soprattutto il commercio illegale del prezioso metallo a finanziare le ribellioni nel Nord Kivu. L’oro estratto nelle miniere controllate dai ribelli viene trasportato illegalmente nei Paesi vicini, Ruanda e Uganda, da dove poi riparte alla volta delle monarchie del Golfo Persico e dell’India. Secondo il giornale statunitense, il nuovo traffico illegale è esploso lo scorso anno in seguito all’impennata del prezzo del “petrolio giallo” e all’approvazione negli Stati Uniti della legge Dodd-Frank, che “impone” alle aziende operative negli Usa di dichiarare se i loro prodotti vengono fabbricati con metalli che possono essere usati per finanziare i conflitti in Congo. Una legge che serve a ben poco. Come ha dimostrato il processo di Kimberly, le grandi società del settore sono in grado di aggirare i controlli. Secondo l’inchiesta del Wall Street Journal, checita Enough Project, un organizzazione che ha realizzato a sua volta un’indagine sull’argomento, lo scorso anno sono state contrabbandate tra le 11 e 14 tonnellate di oro dal Congo, rispetto alle quattro tonnellate del 2010. Il commercio del prezioso metallo è stato più proficuo rispetto a quello di altri metalli con margini di guadagno anche fino al 30 % sulle vendite. Gran parte dell’oro, sottolinea il Wall Street Journal, finisce in Uganda, dove i contrabbandieri, con la collaborazione delle banche e delle società, acquistano certificati falsi in cui si afferma che il metallo arriva dall’Uganda, che dal 1994 è uno dei principali esportatori d’oro, insieme al Ruanda. Addirittura, il governo di Kampala, ma anche quello di Kigali, hanno censito che nel Paese ci sono tre miniere d’oro, ma esistono solo sulla carta perché in realtà non sono attive. Fin qui nulla di nuovo. L’elemento rilevante dell’indagine del Wall Street Journal è che dai Paesi africani, il metallo prezioso partealla volta di Dubai, dove la legge prevede che fino a circa 50 chilogrammi di oro possono superare la dogana se sui documenti compare il nome di un operatore dotato di licenza. “È così che si perdono le tracce dell’oro” ha dichiarato al Wsj Ruben de Koning, membro del gruppo di esperti Onu sul Congo, che ha aggiunto: “Può andare dovunque, una volta superato l’aeroporto”. Una volta che l’oro è arrivato a Dubai il gioco è fatto: il metallo viene mischiato con quello proveniente da altri Paesi, prima di rivenderlo a commercianti e gioiellieri. Da qui, il “petrolio giallo” parte per la volta dell’India, il più grande consumatore di oro. Il traffico illegale dei minerali congolesi avviene alla luce del sole. Le Nazioni Unite, che hanno più volte redatto rapporti sull’argomento, hanno più volte accusato l’Uganda, il Ruanda e il Burundi di finanziare e fomentare le ribellioni per saccheggiare il sottosuolo congolese, senza tuttavia mai prendere alcun provvedimento o sanzione. I tre Paesigodono infatti della protezione della Casa Bianca, che negli ultimi tempi sta ricevendo pesanti critiche dall’opinione pubblica per il suo doppio gioco. Da una parte Washington ha “richiamato” Kigali e Kampala, dall’altra fornisce aiuti militari e finanziari ai due governi. Sulla politica estera Usa in Africa si è soffermato anche il Washington Post che ha pubblicato ieri un articolo in cui si afferma che l’approccio di Barack Obama non si discosta molto da quello di George W. Bush. Come l’ex presidente Usa, anche Obama, che doveva essere l’uomo del cambiamento, “sacrifica” gli ideali di democrazia al “realismo” necessario per fronteggiare la minaccia di “al Qaida”. In Africa, scrive il giornale statunitense, gli Usa stano collaborando con “regimi autoritari” “chiudendo un occhio” di fronte alle denunce di violazioni dei diritti umani. Lo ha ammesso anche un funzionario dell’amministrazione Usa, che ha chiesto l’anonimato, secondo cui “i Paesi che collaborano con noi ottengono unvia libera. (…) Laddove mettiamo tutta la pressione possibile su altri Paesi che non collaborano”. Il funzionario ha sottolineato che la passata amministrazione Bush aveva in Africa lo stesso approccio: “Non c’è stato nessun cambiamento. Alla fine, da Bush a Obama c’è stata una transizione senza scosse”. Gli esempi sono tanti, oltre al Ruanda, “il fiore all’occhiello” di Washington, come lo definì Hillary Clinton, sono tanti i Paesi africani che godono della “tolleranza” Usa. Tra questi c’è Gibuti, dove il presidente Ismail Omar Guelleh governa incontrastato dal 1999, dopo aver messo all’angolo gli oppositori politici e imposto il bavaglio ai giornalisti. Ma la Casa Bianca considera Guelleh un “amico” perché il Pentagono ha ottenuto il permesso di impiantare nel Paese, che si trova nel Corno d’Africa, una strategica base militare. Poi c’è l’Uganda, dove da 27 anni regna il presidente Yoweri Museveni, accusato più volte di violare i diritti umani. Ma gli Usa continuano a tenereaperti i rubinetti affinché invii le truppe in Somalia contro gli al Shabaab e continui ad alimentare i conflitti in Congo. Ci sono altri casi, il più recente quello del Mali, dove gli Usa chiedono “elezioni a breve” e allo stesso tempo hanno inviato droni per appoggiare l’operazione militare francese. In questo caso, Washington sta puntando alle risorse naturali del Paese africano, ricco di uranio, petrolio e gas. Francesca Dessì
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