Gli accordi di Camp David del 1979 tra Tel Aviv e Il Cairo, i quali sancirono la demilitarizzazione del Sinai, non sembrerebbero in grado di garantire la sicurezza della penisola. L’anno scorso lo sceicco Khalaf al-Maniei, esponente della tribù beduina degli al-Sawarka che risiede nel Sinai del nord, aveva confessato all’agenzia palestinese Maan che da quando Hosni Mubarak ha lasciato la presidenza vige una situazione di anarchia nella quale i gruppi armati jihadisti possono addestrarsi liberamente, soprattutto nella parte settentrionale. Non a caso la regione egiziana è divenuta ieri teatro di violenze. Dopo alcuni mesi di tregua - gli ultimi episodi risalgono ad agosto e novembre dell’anno scorso - sono ripresi gli attacchi armati. Secondo quanto riporta la stampa locale, due poliziotti egiziani, fra cui un ufficiale, sono rimasti uccisi in un attacco armato nella zona di Nakhel compiuto da milizie salafite contro due pattuglie della polizia nelNord della penisola, come hanno riferito fonti mediche e della sicurezza. Inoltre nella stessa giornata, secondo fonti militari locali, quattro razzi sarebbero stati sparati dal Sinai senza causare vittime: uno è esploso in un cantiere di una casa a Eliat (Israele), un altro nella zona vicina la località turistica israeliana mentre altri due sarebbero caduti a Aqaba, sul Mar Rosso (in Giordania). Tuttavia poche ore dopo la pubblicazione della notizia sull’emittente televisiva Al Arabya, le autorità di Amman hanno immediatamente smentito la caduta di razzi sulla città giordana. Il dipartimento per la sicurezza ha affermato che ad Aqaba “la vita continua normalmente”. Ovviamente i primi sospetti e le prime valutazioni hanno puntato il dito contro gruppi legati ad Al Qaida. Dopo il lancio di razzi, il gruppo salafita, “Majlis Shura al Mujahidin” (dall’arabo: consiglio consultivo dei mujahidin nei dintorni di Gerusalemme) ha rivendicato in un comunicato l’attacco su Israele comerisposta alla morte di un prigioniero palestinese nel carcere israeliano e per l’uccisione di due adolescenti palestinesi in Cisgiordania. Lo stato di anarchia che vige nella penisola del Sinai crea un ulteriore problema al presidente egiziano Mohamed Morsi che deve già fare i conti con una crisi economica e politica estremamente delicata. La vendita al mercato nero di beni di prima necessità come farina e gasolio è all’ordine del giorno, l’import/export è bloccato, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 15 per cento, la liquidità a disposizione delle banche è scesa da 30 miliardi a 9, la sterlina egiziana è stata svalutata in pochi mesi dell’11 per cento e, le riserve in dollari (l’Egitto importa con valuta statunitense) che durante l’era Mubarak raggiungevano la somma di 36 miliardi di dollari, oggi superano di poco i 13 miliardi. Addirittura in Egitto stanno circolando con insistenza le indiscrezioni che annunciano un imminente rimpasto di governo e una probabile sostituzionedi alcuni governatori in diverse regioni del Paese. Il lassismo del governo sul Sinai potrebbe far sprofondare l’esponente dei Fratelli Musulmani in una situazione diplomatica catastrofica, soprattutto perché accanto c’è Israele. Sebastiano Caputo
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