Sì alle larghissime intese di Letta
 











Come Davide contro Golia. Così si sente Enrico Letta. Il quale, però, per il voto di fiducia alla Camera pronuncia un discorso in cui non manca nulla: ognuno dei partiti che lo sostengono potrà trovarci un buon motivo per dire sì. Soprattutto il Pdl, che in pratica esulta («Vittoria assoluta di Berlusconi», Santanché; «Da Letta musica per le nostre orecchie», Alfano). E infatti la Camera dà la fiducia, con 453 voti favorevoli, 153 contrari e 17 astenuti (Lega e alcuni deputati Pd come Pippo Civati).
Dunque, nel discorso di Letta c’è l’impegno a mettere in campo strategie per la crescita «senza compromettere il risanamento»; dunque in continuità con le politiche di Monti, rispettando gli impegni presi che ci permetteranno di «uscire dalle procedure di infrazione». Si impone il dovere di «dire la verità» e la verità è che «la situazione economica è ancora grave» a causa del debito pubblico. Ma il nostro è un governo «europeo ed europeista», tantoche, sicuro di ottenere la fiducia, Letta ha già in programma per i prossimi giorni visite a Bruxelles, Berlino e Parigi. Il che non significa che si chiederà all’Europa di modificare le proprie politiche economiche; casomai di allentarle un pochettino (perché «di solo risanamento l’Italia muore»). Più che altro bisognerà lavorare affinché da mera unione monetaria, l’Europa diventi anche unione politica, procedendo verso gli stati uniti d’Europa, verso l’elezione diretta del presidente della Commissione, verso partiti più europei; verso insomma una maggiore integrazione per una Europa federale: «Se l’Europa perde, siamo tutti perdenti».
Se questa è la cornice generale, è guardando agli equilibri interni che il discorso programmatico del premier si fa più concreto. Atteso che «la ripresa non può attendere», che «non c’è più tempo», che i cittadini sono alla «disperazione» e allo «scoramento» (come dimostra la sparatoria di ieri) e che «senza crescita e senza coesione l’Italia èperduta», Letta mette nero su bianco quello che ha promesso al Cavaliere: l’obiettivo «continuo» di ridurre le tasse (ma «senza indebitamento») sul lavoro (stabile e sui neo assunti), ma soprattutto riformulando la politica fiscale sulla prima casa (tra l’altro annunciando lo stop della rata di giugno in attesa di formulare una proposta complessiva per «superare l’Imu») e promettendo l’allentamento del patto stabilità interno, più risorse ai comuni, intervento sull’Iva. Dove troverà i soldi per fare tutto ciò, però, Letta non lo dice in nessuna parte del suo discorso (il che non depone bene per il premier, visto che ha esordito dicendo che di fronte ad una situazione di emergenza, per senso di responsabilità si impone di parlare un «linguaggio di verità»).
Per altro non lo dice nemmeno quando affronta il tema delle politiche del lavoro e del welfare, dove però le proposte concrete scarseggiano e si resta alle linee di principio. C’è «allarme sociale», il lavoro «è priorità delgoverno», «senza crescita le misure di emergenza (Cig, precariato della Pa, ndr) sono insufficienti» ecc. Dunque serve una sorta di vogliamoci tutti bene: «Imprese e lavoratori devono agire insieme e superare le contraddizioni»; «I sindacati – assicura Letta - saranno protagonisti»; occorre «sostenere le piccole e medie, pagare i debiti nei confronti delle imprese, rimuovere gli ostacoli burocratici». Cita anche il lavoro autonomo, ovviamente i giovani (c’è di tutto un po’:«E’ un suicidio non investire su di loro»; «Bisogna ridurre le restrizioni ai contratti a termine»; ma al contempo «aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo indeterminato in una politica generale di riduzione del costo del lavoro») e l’occupazione femminile («La carenza di servizi scarica sulle donne compiti insostenibili»). Tra i “buoni propositi” c’è poi la necessità di correggere il welfare troppo piegato sul «maschio adulto e sulle pensioni» per farlo diventare più «universalistico e meno corporativo»,più giovane e rosa. «Andranno migliorati gli ammortizzatori sociali, estendendoli a chi ne è privo». Il reddito minimo? Casomai solo per le «famiglie bisognose con figli». Per poi accennare ad un ritocco della riforma Fornero sulle pensioni (uno dei capitoli cari al Pd), prevedendo pensionamenti graduali (con meno soldi), part time, ecc.
Nel libro dei sogni (visto che dovendo «rispettare gli impegni presi» con l’Europa, le risorse economiche saranno ben poche), Letta ci mette anche il miglioramento delle politiche energetiche; le semplificazioni burocratiche e autorizzative; lo stimolo all’imprenditorialità giovanile; la lotta all’evasione («Non si possono chiedere sacrifici ai soliti noti»); il «piano pluriennale» per l’innovazione e la ricerca; la valorizzazione dell’ambiente, della cultura, del paesaggio e delle eccellenze enogastronomiche e dello sport; la questione del Mezzogiorno; la valorizzazione dei «nuovi italiani».
Di tutto, di più, insomma, quello che Pippo Civatidefinisce un «programma ambizioso e fragile». O per dirla con il Cinque Stelle «manca solo la pace nel mondo». Il che conferma quello che già si sospettava: il governo Letta nasce per durare. Nessuno si faccia illusioni: non è una parentesi, né un esecutivo di transizione; chi lo ha messo in piedi pensa ad una legislatura piena (sempre che ci riescano), non certo ad un governicchio che fa poche, essenziali cose.
La mission la spiega lo stesso premier: c’è una fase nuova da inaugurare; «non è un canto un del cigno, ma l’impegno per la ricostruzione della politica» (quando si dice avere poche ambizioni). Ovviamente, la situazione impone «sobrietà, decenza e scrupolo». Quindi Letta annuncia («A loro non l’ho ancora detto» che il primo atto sarà abolire la norma che impone il doppio stipendio ai ministri che sono anche parlamentari. E poi, visto che ormai «quello dell’astensione è il primo partito», via il finanziamento pubblico ai partiti, attuazione dell’articolo 49 dellaCostituzione, misure di controllo e sanzioni anche per i consigli regionali.
Infine, il pacchetto, assai delicato, delle riforme costituzionali. E qui è d’obbligo una premessa. Letta ammette di comprendere la difficoltà di dare la fiducia a un governo formato da forze così eterogenee. Ma la scelta di chi appoggia questo esecutivo «è tanto più da rispettare perché non riflette calcoli particolaristici ma mira a un interesse più alto che è quello della coesione nazionale». E’ un «patto di fiducia»; è il «senso di una missione comune»; «come italiani o si vince o si perde tutti». E dopo vent’anni, in cui è stato eroso il «capitale di fiducia tra partiti e opinione pubblica», è ora che i partiti mostrino grande senso di responsabilità. Come? Facendo le tanto attese riforme: fine del bicameralismo perfetto, titolo V, legge elettorale («Prendiamo l’impegno solenne che quelle di febbraio sono state le ultime elezioni con il Porcellum. La mia opinione personale? Si torni almeno alMattarellum»), abolizione delle province. Riforme alle quali Letta auspica partecipi un «fronte largo» (cioè, anche le forze che stanno all’opposizione, con le quali ci sarà una «continua interlocuzione»). Interlocuzione formale, però, perché il premier chiede che il parlamento semplicemente adotti le proposte che verranno avanzate dalla apposita Convenzione per le riforme, che Berlusconi si appresta a presiedere. Non sono ammessi tentennamenti, perché al successo dell’operazione, Letta lega il proseguimento o meno della sua esperienza di capo di governo: «Tra 18 mesi» se il processo di revisione sarà avviato verso il successo «andrò avanti»; altrimenti se si sarà impantanato, «non avrò esitazione a trarne le conseguenze». Romina Velchi









   
 



 
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