Lo Convenzione per le riforme fa già litigare Pd e Pdl, ma solo perché di mezzo c’è il nome di Berlusconi. Il Cavaliere non ha fatto mistero di voler essere lui a presiedere questa specie di Bicamerale che dovrebbe procedere a modificare la Costituzione nonché ad approvare una nuova legge elettorale. Nessuno, fino a qualche giorno, fa aveva avuto nulla da dire, ma solo perché erano tutti presi dall’elezione del nuovo governo di larghe intese (e non era il caso di creare problemi). Ora che, invece, il nodo sta venendo al pettine, le acque si agitano. Dopo la prima bocciatura da parte di Matteo Renzi, oggi un nuovo stop arriva da Stefano Fassina, scelto ieri sera dal premier Enrico Letta come viceministro all’Economia: per quel ruolo, ha spiegato Fassina intervistato dal Tg3 «dobbiamo trovare una figura in grado di dare garanzie a tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento e temo che il senatore Berlusconi non sia fra questi». Come a dire:il nome del leader del Pdl è inadatto e potrebbe essere un ostacolo. Il viceministro dell’economia si unisce al gruppo di politici del Pd che vogliono bruciare sul nascere la candidatura di Silvio Berlusconi a nuovo “padre costituente”. Oltre al sindaco di Firenze, anche Luciano Violante aveva sottolineato che l’ambizione del Cavaliere potrebbe essere un ostacolo per il funzionamento delle commissioni perché potrebbe essere causa di tensioni politiche quotidiane. Il Pdl, tanto per cambiare, insorge: «No a veti ad personam - dice Fabrizio Cicchitto - tutte le cariche di rilievo politico istituzionale sono state ricoperte da esponenti della sinistra e addirittura, per quanto riguarda la presidenza della Camera, da un esponente della formazione di sinistra». Questo dibattito, però, sembra quello di chi guarda il dito invece che la luna. La questione della convenzione, infatti, è ben più grave e va oltre il problema di chi sarà chiamato a presiederla. Non sarebbe più rassicurante sea capo della Convenzione fosse nominato, per dire, Roberto Calderoli, padre del famigerato Porcellum, il cui nome circola in queste ore. Già solo il fatto che a modificare la Carta fondamentale sia chiamato un gruppo di 75 parlamentari (cui potrebbero affiancarsi degli “esperti” non si capisce bene scelti da chi) dovrebbe far accapponare la pelle a chi si considera un sincero democratico. Un passo grave che, mentre certifica, ufficialmente, la volontà di procedere con una sorta di nuovo “patto della crostata” (cioè, con accordi tra pochi “eletti”), rischia «di avviare un improprio processo costituente suscettibile di travolgere l’insieme della Costituzione» come ha detto Stefano Rodotà citando, per altro, le parole del costituzionalista Valerio Onida (uno dei dieci saggi scelti da Napolitano). Perché sposta «in una sede extraparlamentare» un dibattito fondamentale come quello sulle regole e le forme del funzionamento istituzionale e democratico.
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