L’Italia è ferma e i politici non sanno cosa fare
 











L’Italia è un Paese che da 25 anni si è fermato. Un Paese che non è stato capace di rispondere agli “straordinari” cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici che si sono verificati sugli scenari globale ed europeo. L’impietosa analisi è stata fatta dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel corso della sua relazione, le tradizionali “Considerazioni finali”, all’assemblea degli azionisti di Via Nazionale. Non a caso Visco ha quantificato il periodo di inazione in 25 anni. E’ esattamente il periodo seguito alla caduta del Muro di Berlino, al crollo dell’Unione Sovietica e alla fine del Comunismo. Una svolta epocale che avrebbe dovuto mettere la classe politica italiana di fronte alle proprie responsabilità. Farle capire che, essendo morta e sepolta la variabile dell’anticomunismo che aveva fatto sì che la DC potesse vivere per oltre 40 anni, tutte le rendite di posizione della Prima Repubblica dovevano essere considerate morte esepolte. Un messaggio che, evidentemente, non venne raccolto dalla politica italiana che pensò di potersi baloccare ancora con le chiacchiere, invece di pensare a varare politiche miranti a rafforzare la struttura del sistema industriale italiano e creare un sistema bancario che lo sostenesse e non pensasse invece ad imitare il modello operativo delle banche tedesche, impegnate sia nell’attività commerciale come in quella di investimento, che troppo spesso sfocia nella speculazione vera e propria .
Questo il senso del discorso “politico” che Visco non ha completamente esplicitato ma che è apparso chiarissimo a chi volesse leggere tra le parole del suo intervento. Ci troviamo in una situazione di emergenza. L’Italia è di fronte ad un passaggio difficile ma non ci si deve fermare. Non sono possibili cali di tensione. L’azione di riforma ha perso vigore anche in conseguenza del progressivo deterioramento del clima politico. Un peggioramento della recessione rischia poi di ripercuotersisulla coesione sociale del Paese che già è stato messo a dura prova. L’intervento di Visco si è mosso così tra una linea liberista, in nome della quale il lavoro deve essere reso più precario e più flessibile, e meno pagato, per aiutare le imprese ad essere più competitive sui mercati internazionali, diminuendo i costi fissi. E un’altra linea, che è più sociale, perché presta attenzione alle conseguenze che l’adozione della linea “liberista” comporta per la maggioranza dei cittadini in termini di diminuzione dei diritti fondamentali e in termini dell’aumento della povertà. Ma al tempo stessa vuole essere punitiva per i cittadini proprietari di seconde case.
Una dicotomia anzi una tricotomia che sarebbe arduo da affrontare per chiunque. Figurarsi per un governatore che si trova obbligato a non pochi equilibrismi per sostenere un approccio, che gli deriva dal suo ruolo, e al tempo stesso un altro che va in direzione opposta. Si tratta semmai dell’ennesima presa d’atto da parte di unadelle massime autorità del nostro Paese che non è più possibile applicare le direttive della Commissione europea e della Bce ma che è necessario, quantomeno, identificare ed attuare misure ed interventi alternativi capaci di operare un’inversione di tendenza. Il ricordo delle rivolte di piazza in Grecia è ancora caldo. Gli assalti dei cittadini esasperati alle sedi dei Ministeri e delle principali banche sono ancora vivi nel ricordo delle nomenclature europee e anche Visco non può che lanciare l’allarme sui pericoli derivanti da una simile deriva sociale.
Il problema principale per l’Italia, ha insistito Visco, sta nel fatto che gli interventi per aggiustare la situazione di deficit strutturale che sono stati così a lungo rinviati sono di portata storica ed hanno implicazioni per le modalità di accumulazione del capitale materiale e immateriale, la specializzazione e l’organizzazione produttiva, il sistema di istruzione, le competenze, i percorsi occupazionali, le caratteristichedel modello di Stato sociale e la distribuzione dei redditi, il funzionamento dell’amministrazione pubblica. Ed hanno a che fare con quelle che Visco definisce “le rendite incompatibili con il nuovo contesto competitivo”. Affermazione quanto mai inquietante perché, nel significato che i banchieri ne danno, alla parola rendita si identifica quella immobiliare. Ossia tutte quelle case che i cittadini hanno comprato come investimento, preferendole ai titoli delle società dei cosiddetti “salotti buoni” della Padania (Pirelli, Fiat ed altri), titoli consigliati dai giornali di quel giro. Titoli raccomandati da quelle banche che di tali società erano e sono creditrici. Insomma, se il sistema industriale italiano è in crisi, è colpa degli italiani che non amano il rischio di impresa.
Una tesi incredibile che la dice lunga sulla mentalità della tecnocrazia che, con un atteggiamento che coincide nei fatti con una sorta di ideologia neo-marxiana, punta a punire la piccola proprietà edilizia.Una convergenza vergognosa tra sinistra politica ed alta finanza italiana ed internazionale che la dice lunga sul triste futuro che si prospetta per milioni di italiani. Ci si deve domandare poi per quale motivo gli italiani dovrebbero essere obbligati a comprare titoli delle società X e Y quando queste, da certi quotidiani di peso, venivano indicate come più che sane, quando al contrario si trovavano in una situazione catastrofica dal punto di vista patrimoniale e finanziario. Vedi Cirio e Parmalat.
Ma quello che vale per Pirelli e Fiat (che peraltro sta lasciando l’Italia) vale anche per le piccole imprese che hanno difficoltà a farsi dare finanziamenti dalle banche e che avrebbero maggiori possibilità di manovra se potessero contare su capitale proprio, ossia sulle azioni sottoscritte dai cittadini che in questo caso, perché è questo che voleva dire Visco, dovrebbero sostenere, a scatola chiusa, la possibile ripresa economica italiana. Una bella (si fa per dire) pretesa che si ècercato di innescare con l’introduzione dell’Imu che ha massacrato i risparmi del ceto medio, già messo con le spalle al muro dalla recessione, in molti casi sprofondato in una nuova povertà, a vendere la seconda casa di proprietà e versare i soldi in banca a disposizione delle imprese. Ma se la recessione è aumentata, questo si deve alla stretta creditizia che le banche, pur essendo gonfie di liquidità, hanno praticato alle piccole e medie imprese.
Quanto al resto, l’intervento di Visco ha riguardato cose già note. Il calo del Pil e il crollo del reddito delle famiglie, l’inadeguatezza della scuola e dell’università ad assicurare un posto di lavoro ai giovani, sempre più vittime della disoccupazione in un Paese senza prospettive. Resta il fatto che per Visco, implicitamente, l’Imu non si dovrebbe toccare. Le riduzioni di imposte, a suo dire, sono necessarie nel medio termine e sono pianificabili fin d’ora. Ma esse dovranno privilegiare il lavoro e la produzione per favorirel’occupazione e l’attività d’impresa. Andrea Angelini









   
 



 
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