Se pure ce ne fosse stato bisogno, l’ennesima conferma per gli inquirenti arriva al momento dell’irruzione nella masseria di Contrada Cavallo. E’ l’11 aprile del 2006, proprio il giorno in cui viene ufficializzata la vittoria del centrosinistra alle elezioni politiche. Mentre a Roma si sprecano i commenti politici, in Sicilia una trentina di agenti entrano armi alla mano nella cascina distante solo due chilometri da Corleone mettendo così fine, dopo 43 anni, alla latitanza di Bernardo Provenzano. E lì dentro, tra la pentola in cui bolle la cicoria e la macchina da scrivere utilizzata dal boss dei boss per mantenere i contatti con l’esterno, in mezzo a decine e decine di pizzini gli investigatori ne trovano uno a suo modo speciale. A scriverlo, tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo, cioè un mese abbondante prima delle elezioni, era stato un altro boss potente, anche lui latitante, come Salvatore Lo Piccolo. Dopo aver parlato di affari e salutato «conaffetto» Provenzano, Lo Piccolo fa un’aggiunta al pizzino: «Dimenticavo, zio, che ci sono le elezione mi faccia sapere a chi dobbiamo appoggiare e se ha in particolare qualche politico che lei ci tiene. Attendo sue notizie in merito». Anche Cosa nostra fa campagna elettorale e in queste settimane che precedono il voto del 13 aprile, mentre la lotta alla criminalità organizzata è scomparsa dai programmi di tutti gli schieramenti, la macchina elettorale della mafia è in movimento. Gli inquirenti ne sono convinti anche se, ci tengono a precisare, il voto influenzato dalle varie mafie non sarebbe così determinante come si crede. O, per lo meno, lo è certamente di più nelle tornate elettorali amministrative che in quelle politiche, anche se sarebbe un errore sottovalutare il peso che le cosche possono avere nel determinare l’orientamento del voto. Su una cosa sono tutti d’accordo: poco importa se il politico di turno è di centrodestra o di centrosinistra. Quello che per la mafia contadavvero è che alla fine il partito o il candidato prescelto faccia il suo dovere, cioè curi gli interessi delle cosche. Agli occhi di chi indaga quel pizzino ritrovato nella masseria di Contrada Cavallo rappresenta dunque la conferma a qualcosa di risaputo. Intanto che all’interno di Cosa nostra tutti, Lo Piccolo compreso, sanno che la «linea politica» dell’organizzazione criminale la decide il capo. Ma anche che non c’è un partito della mafia, altrimenti non ci sarebbe stato alcun motivo di porre quella domanda a Provenzano. Seppure in maniera non decisiva, la mafia è comunque attenta agli spostamenti elettorali. La campagna elettorale, specie nei piccoli centri, viene fatta porta a porta e se il boss locale decide che bisogna votare il tal candidato o la tale lista è difficile che qualcuno possa opporsi. Del resto non mancano neppure i sistemi per controllare che l’elettore abbia rispettato l’indicazione ricevuta. I metodi, come la fantasia, abbondano. Per un mafioso - ad esempio- è sufficiente mettersi in attesa davanti al seggio dopo essere riuscito ad avere una scheda elettorale pulita. Chi entra riceve la scheda già votata e consegna all’uscita quella bianca che a sua volta ha ricevuto al seggio. E così via. Oppure c’è il metodo della mina infilata sotto l’unghia. Per uno scrutatore vicino alle cosche è facile annullare con un semplice gesto della mano il voto dato a un partito non gradito. O, ancora, c’è sempre il vecchio metodo di fotografare il voto appena espresso con un videtelefonino, sistema reso di recente più facile da modelli sempre più silenziosi che evitano il rischio di essere scoperti. Ma c’è anche chi il voto lo compra direttamente. Come accaduto in passato in Campania, dove un voto può valere dai 50 ai 100 euro. «Se un candidato alle elezioni amministrative sa di poter contare ad esempio su 400 voti e gliene servono altri 200 per essere eletto, per lui non è certo un gran costo spendere 20 mila euro per garantirsi un posto in un entelocale», spiega Lorenzo Viana, ex membro Ds della commissione antimafia. Come la Calabria, anche la Campania è una regione in cui la collusione tra criminalità organizzata e politica è più forte. «Ora che la legge prevede collegi molto ampi - prosegue Viana - il voto organizzato incide molto meno, ma questo non significa che è scomparso. La camorra ha bisogno di contrastare quelle liste e quei candidati che le si oppongono». In un territorio ad alto tasso di criminalità come quello campano, l’interesse della camorra a penetrare nelle istituzioni locali è massimo. Avere un sindaco, un buon assessorato, o un proprio uomo nell’ufficio giusto, è infatti determinante per la gestione non solo degli appalti, ma anche delle forniture e delle assunzioni. «Per la camorra, così come per ’ndrangheta e mafia siciliana - spiega Viana - occupare i consigli comunali è un modo per controllare il territorio e gestire il consenso sociale». Il risultato di questa occupazione è sotto gli occhi ditutti. Nelle province di Napoli e Caserta sono stati circa 80 i comuni sciolti con l’accusa di essere stati infiltrati dalla camorra, e almeno 15 di questi si trovano in un raggio di meno di venti km da Casal di Principe, il paese-regno dei Casalesi, la famiglia più politicizzata della camorra. «La camorra ha bisogno di mostrare il suo dominio sui comuni», prosegue Viana. «Da anni ormai ha costruito un’economia che va dalle attività criminali ai colletti bianchi. E’ chiaro dunque che non può non infiltrarsi e tentare di gestire gli enti locali. E da questo punto di vista le elezioni sono un’occasione imperdibile».de Il Manifesto
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