La commistione degenerata tra il “pubblico” e il “privato”
 











C’è una distinzione che si va smarrendo in questo scorcio di post-modernità: quella tra pubblico e privato; e ne sono buoni sintomi idola, giudizi – e ancor più pregiudizi – convinzioni (diffuse?) che vengono riportate come verità rivelate e common sense nei media italiani. Che si tratti di giudicare la credibilità internazionale di un governo dal soprabito del Presidente del Consiglio (il loden, come anni fa dalla canottiera di Bossi) o dall’attivismo sessuale di un altro, o un governo locale dalle inclinazioni “diverse” di importanti politici (il caso Marrazzo), è sempre ad attività private che ci si riferisce. Quando eravamo goliardi, il sentire era diverso: ci sembrava una congrua penitenza data ad una matricola, di tenere una prolusione su “Mestruazioni della Regina Elisabetta e loro influenza sull’economia australiana”; ora – invece - non ci stupiremmo se dessero come argomento per tesi di laurea “Le tette di Ruby e loro conseguenze sullacrisi dell’euro-zona”. Magari con tanto di articolesse di plauso all’attualità delle intuizioni scientifiche e didattiche dell’accademia e profondi (?) elzeviri di qualche intellettuale di regime. Che poi alla resa dei fatti, il loden non ci abbia salvato da una pessima figura internazionale come quella dei marò – rilevatrice, di ben altro spessore, della scarsissima considerazione riscossa dall’Italia e dal governo “cappottato” (in tutti i sensi) - né dal pagare salatissimi tributi alla speculazione finanziaria , pare abbia poco rilievo. Una volta rispettato il bon ton, e il decoro, una soluzione sarà sicuramente trovata, dato che chi ha interessi in contrasto con quelli italiani, apprezza sicuramente l’abito e i modi forbiti ed eleganti di chi ci rappresenta. Ma regge una tale confusione, non solo alle verifiche fattuali (direbbe Machiavelli) ma a qualche millennio di pensiero occidentale?. Nel quale la suddetta distinzione ha supportato due morali (da Platone a Hegel e dopo) duediritti (da Ulpiano ad Hauriou e a (quasi) tutti i giuspubblicisti) – e molto altro. E la distinzione tra pubblico e privato non è solo uno dei “presupposti del politico” (Freund) ma una costante della condizione dell’uomo e delle comunità umane; per cui confonderli – o non distinguerli – ma anche alterarne le proporzioni significa distruggere la comunità, o quanto meno la forma politica della stessa. 2. Che all’uomo se pubblico o privato, si applichino distinte regole morali è cosa che risale a Platone e al dialogo Gorgia, dove espone le opposte concezioni di Socrate e Callicle. Socrate sostiene che è moralmente preferibile subire un torto piuttosto di farlo, mentre Callicle (e Polo), al contrario, ritengono che subirlo non sia degno di un uomo libero. Le tesi conseguono dai diversi presupposti (e contesti) da cui partono i contraddittori, in certo modo confusi dall’abilità dialettica di Socrate. Infatti questi, procedendo da un’impostazione morale, considera l’azione, avulsa dalleconseguenze che dalla stessa possono derivare, e dal contesto in cui si producono gli effetti. Trattandosi però di doveri di solidarietà politica e sociale il campo in cui va a incidere il giudizio etico di Socrate non è quello, individuale, della coscienza, ma l’assetto della comunità. In sostanza traspone norme etiche in un contesto ad esse non proprio. Callicle - che pure contrappone natura e legge, o meglio leggi di natura e leggi positive - si tiene fermo al campo politico (e giuridico). La sua tesi è che non “da vero uomo, ma da schiavo, è subire ingiustizie senza essere capaci di ricambiare, e meglio è morire che vivere se, maltrattati ed offesi, non si è capaci di aiutare se stessi e chi ci sta a cuore”. Il sofista si attiene, nelle sue argomentazioni, alla “realtà effettuale”, al contrario di Socrate: le argomentazioni del primo derivano dalla descrizione e valutazione dei fatti (dall’essere); quelle del secondo sono prescrittive, partono dal dover essere. Socrate prescindedal rapporto politico e dalla solidarietà “comunitaria”: gli esempi che porta sono tutti di relazioni private. Callicle lo nota, osservando “tu non hai in bocca che calzolai, cardatori, cuochi, medici; come se il nostro discorso avesse per argomento tale gente!” E chiarisce: “In primo luogo quando parlo dei più forti, non intendo calzolai o cuochi, ma quelle persone la cui intelligenza è volta agli affari dello Stato, che sanno come si debba amministrare la cosa pubblica, e che sono non intelligenti solamente, ma anche uomini di coraggio, capaci di portare a termine quello che pensano e che non indietreggiano nel loro compito per debolezza d’animo”. Quindi ne consegue logicamente che ad agire con intelligenza (e responsabilità) politiche devi osservare regole di condotta, che non sono le stesse dei rapporti privati. La stessa distinzione è seguita da Aristotele che distingue la virtù del cittadino da quella del privato, dell’idiotes. Anche la morale cristiana la manteneva, anche perchéa interpretare “alla pacifista” il precetto evangelico di amare i nemici, non si sarebbe potuto giustificare alcun potere politico coattivo (cioè tutti). Lutero lo scriveva1, Calvino la pensava allo stesso modo2. Chiaro, anche in tal senso, S. Roberto Bellarmino3. E quasi tutti i teologi concordavano. Ne consegue che la massima morale valida per il cristiano, di porgere l’altra guancia, non vale per il governante, anche cristiano, il quale operando per l’interesse dei governati non deve subire né, soprattutto, tollerare che i governati subiscano torti. Da ciò deriva che quel che per l’uomo “privato” è un peccato, per il governante privato è un dovere. E si potrebbe continuare a lungo. Basta tuttavia ricordare, saltando al XX secolo, Benedetto Croce e quanto scrive su Machiavelli. Nel ribadire che Machiavelli aveva notoriamente scoperto “l’autonomia della politica, della politica che è al di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi,che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta”; ricorda come il Segretario fiorentino leggendo degli orrori nella storia, scriveva «se sarà nato d’uomo si sbigottirà» (tale il sentimento che egli prova ed esprime fremendo) «da ogni imitazione dei tempi cattivi, e accenderassi d’uno immenso desiderio di seguire i buoni». Innanzi a così aperti segni di un’austera e dolorosa coscienza morale, desta stupore come si sia tanto ciarlato dell’immoralità del Machiavelli; senonché il volgo chiama morale solo l’unzione moralistica e l’ipocrisia bacchettona” (tuttavia, ancora non si era arrivati al loden e al bon ton).4. Per cui anche per Croce il politico ha un’etica, la quale è diversa da quella dell’uomo privato. 3. Lo stesso pensavano i giuristi distinguendo tra pubblico e privato. Proprio all’inizio del Digesto si legge il frammento di Ulpiano “publicum jus est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem”. La distinzione nasce da unadifferenza oggettiva, rispetto allo scopo di ciascun “settore” del diritto: l’esistenza e l’azione della comunità politica, il pubblico; la vita ordinata degli individui, il privato. È inutile ripetere tutto quello che è stato confermato e/o aggiunto dai giuristi, da Ulpiano ad oggi. Tra cui è bene ricordare che il diritto pubblico vede i soggetti in posizione non eguale, mentre quello privato è tra uguali. Il che dipende dalla natura delle cose: senza rapporto di gerarchia, di comando/ubbidienza, nessuna struttura politica (pubblica) si regge. Il diritto dell’istituzione (cioè pubblico) scriveva Hauriou, è disciplinaire, quello privato (commun) no; il giurista francese aggiungeva che la distinzione risaliva alla Grecia classica; che “impersonava” i due tipi di diritto rispettivamente nelle dee Themis e Dike. Questo breve excursus sulla distinzione pubblico/privato ci fa capire come la diversità delle regole dipende da quella dell’oggetto; è una necessità “fattuale” assai prima diessere una scelta di norme; come, parimenti, non c’è al mondo una comunità dove quella distinzione non esista: così anche laddove il pubblico si espande al massimo (come nei regimi totalitari) o dove sia ridotto al minimo (come nel medioevo feudale) c’è sempre qualcosa che è pubblico e qualcosa che è privato; e, pertanto, la distinzione tra l’uno e l’altro è una costante, una regolarità.. Quel che è pubblico si può definire come l’attività (e l’istituzione) che ha per scopo di proteggere l’esistenza comunitaria e individuale e conseguire l’interesse generale (o il bene comune); privato ciò che attiene alle relazioni sociali che hanno per fondamento la socievolezza umana. 4. Nella teoria dello Stato moderno la dicotomia pubblico/privato porta a differenziare sempre di più il regime giuridico applicabile ai due ambiti. E la principale base di tale progressiva dicotomia è proprio la situazione concreta, data, all’interno dello Stato, dalla necessità del comando “assoluto”, per garantirel’esistenza comunitaria, per cui i comandi di tale autorità sono irresistibili e la stessa non è oggetto di cognizione giudiziaria (justiciable). La massima che esprime concretamente al meglio tale concetto è quella del diritto inglese “The King can do no wrong” per cui non c’è Giudice (o altri) che possa giudicare (o comunque costringere) il sovrano. Con la rivoluzione francese la situazione mutava (in parte). Con la rivoluzione e la distinzione di Sieyès tra pouvoir constituant e pouvoir constitués, e l’attuazione dei principi dello Stato borghese il confine tra pubblico e privato viene garantito dalla costituzione da un lato, e dall’altro, si presenta il problema del rapporto tra poteri costituiti (nella specie giudiziario da un lato e governativo e legislativo dall’altro). Questo fu risolto con la giustizia politica, la quale, per sua natura è sempre più o meno derogatoria (nell’oggetto, delle procedure, negli organi) di quella comune. Proprio perché giudica di persone, atti erapporti pubblici (e al massimo livello) e non di affari privati. Si ha un bel protestare che la “legge è uguale per tutti” (v. art. 3 Costituzione); nella realtà sia dove l’uguaglianza è sancita dalle costituzioni, sia dove non lo è, l’oggetto del giudizio differenzia le regole: per convincersene basta chiedersi quale costituzione disponga regole uguali quando il rapporto è politico (cioè pubblico in sommo grado) e quando non lo è. La regola è l’inverso: basta leggere qualsiasi costituzione vigente (e anche quasi tutte quelle passate) per notare il carattere derogatorio della giustizia politica (rispetto all’ordinaria). E come vi siano degli affari neppure justiciables (cioè non sottoponibili al Giudice), per loro natura. Per ora ci è stato risparmiato, ad esempio, un processo sugli interventi militari all’estero (che sono vere e proprie guerre sia pure a “bassa intensità”, oltretutto difficilmente conciliabili con l’art. 11 della Costituzione), o sulla firma dei trattati. Ma non èdetto che non ne vedremo. 5. L’attivismo giudiziario – o meglio alcuni episodi dello stesso – è riconducibile (una delle manifestazioni) al fenomeno – a carattere generale – della mancata (o insufficiente) distinzione tra pubblico e privato. Proprio la decadenza e la mancata percezione della quale è un sicuro indice di decadenza politica e di (possibile) dissoluzione della comunità o (almeno) della forma politica che si è data. Scrive Schmitt, a proposito della distinzione tra amico e nemico (anch’essa “presupposto del politico”) che “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico… Ma il discorso vale anche in senso inverso: dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questadistinzione appare come sintomo della fine politica”5. Ma la stessa considerazione è applicabile a tutti i presupposti del politico (Freund) e non solo a quello dell’amico-nemico. Non distinguere più tra chi comanda e chi obbedisce significa dissolvere la sintesi politica perché questa esige un rapporto non paritario, e quindi un “quantum” di comando sul quale deve fondarsi per poter esistere ed agire; e lo stesso per quella tra pubblico e privato, tra ciò che è di pertinenza del potere comune e ciò che è affare privato. Thomas Hobbes negli “Elements” chiariva che oggetto del potere dell’unione è “qualcosa di comune a tutti” (e si noti che non determina quel “qualcosa”); d’altra parte pare possibile identificare il “comune”, al minimo, nella definizione dell’unità politica: “una moltitudine di uomini, uniti come una persona da un potere comune, per la loro comune pace, difesa, benessere”, dove in questi tre termini indica il minimo di “oggetti” pubblici su cui il potere comune devenecessariamente provvedere e decidere. Quando non si distingue più ciò che è “comune” a tutti e ciò che non lo è la decadenza arriva alle naturali e logiche conseguenze: la fine della sintesi politica. Non soltanto quando non sia percepito alcunché come pubblico (è ovvio), ma anche quando, all’inverso, non lo sia un (minimo) di “privato”. Tant’è che società dove anche attività privatissime come la sessualità, l’accoppiamento, la riproduzione e l’allevamento della prole sono affare pubblico si sono viste – grazie al cielo – solo in romanzi distopici: da Brave New Word ad Antifona. Ma l’incapacità di fare queste distinzioni nell’Italia odierna è il frutto (o forse la causa) più attossicato della cosiddetta antipolitica. Quella, come scrive Schmitt, che prelude alla scomparsa politica di un popolo o, più ottimisticamente, alla fine della forma che si è dato. Teodoro K. de la Grange









   
 



 
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