Una cruda e triste realtà
 











Non è la casta il problema più grande dell’Italia ma gli italiani.
Finite le vacanze, è tempo di estratti conti e bollettini da pagare.
Basta passeggiare per una qualsiasi città dello Stivale, anche solo per qualche minuto, per ascoltare lamenti che arrivano al cielo ed ammirare salici piangenti d’ogni sorta, in gonnella o in pantaloni.
Il solito copione settembrino, con quel “sole che si cerca ma non c’è”, per dirla alla PFM.
Si promettono fuoco e fiamme ma, giusto il tempo di gustare la colazione o di sorseggiare un aperitivo con il contorno sedativo della lettura dei fogli più in voga e si ritorna al torpore d’ordinanza ed al più consueto cerino (ben che vada...).
Di motivi per insorgere ve ne sarebbero a vagonate ma vuoi per la partita di cartello della propria squadra del cuore, vuoi per la cena già prenotata al ristorantino preferito, vuoi per l’uscita romantica in calendario con la gnoccona o il manzo di turno (ci adeguiamoanche noi per qualche attimo all’aulico lessico in voga nell’emiciclo che conta), le terga continuano ad albergare su poltrone e sedie.
Lo tsunami occupazionale all’Ilva, frutto di ricatti imprenditoriali, scelleratezze giudiziarie e dormite istituzionali, siamo pronti a scommetterci su, scalderà i cuori giusto per qualche ora, preferibilmente dopo il pisolino pomeridiano, poi travagli più grandi quali l’intimo da indossare e il miglior profumo in saldo, assorbiranno attenzioni ed energie.
Forse riuscirà la farsesca vicenda della decadenza non decadenza di Silvio da Arcore a smuovere qualcosa?
Ne dubitiamo seriamente. Una volta passata la tempesta (mercoledì in sede di giunta per le elezioni del Senato...), come scriverebbe il buon Giacomino da Recanati, si udiranno gli Augelli “far festa” e “le galline tornate in su la via” ripetere il loro verso.
La tragedia di Lamezia Terme con l’ennesimo rogo operaio, trova al massimo qualche spazietto tra una sciocchezza e l’altra edil nuovo stipendio d’oro del dottor sottile, al secolo Giuliano prelievoforzoso Amato, nominato giudice della Corte Costituzionale da Re Giorgio Napolitano, suscita, purtroppo, solo un bieco sdegno d’invidia per la moneta a disposizione del noto collezionista di incarichi e prebende invece di un più dignitoso moto di ribellione contro la vampiresca gerontocrazia d’apparato che ha dissanguato il paese.
E intanto Letta nipote e Saccomanni hanno rimesso su il disco dello spread montante e del pericolo di non agganciare la ripresina (che vedono solo loro...) se non la si smette di disturbare l’operato del governicchio multipiuma.
Lo spartito è quello preparato altrove e “lorsignori” non si pongono nemmeno più il problema di come far digerire certe polpette avvelenate ai sudditi appecoronati.
“Il debito è il primo problema di questo paese, ma per pagare i debiti bisogna essere credibili, perché nessuno ci compra il debito se non lo siamo. Ma se non ci comprano il debito, non ce lafacciamo”, ha affermato il premier intervenendo alla “Settimana Sociale” dei cattolici italiani a Torino.
Fatto salvo, sia chiaro, il rispetto degli impegni eurocratici, in particolare il mantenimento del rapporto deficit-Pil al di sotto del 3% a cui, a dire il vero, un certo mister Mario Draghi crede poco.
Il deragliamento è iniziato da tempo ma dato che i passeggeri non si fanno valere, i macchinisti continuano a procedere indisturbati.
Può piacere o meno ma è la cruda e triste realtà.
O ci si desta o non si ha neanche il diritto di mugugnare.
Immobilismo vuol dire complicità.
“Chi stende a te la mano, o borghesia, è un uomo indegno di guardare il sol...”  Pietro Walsh









   
 



 
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