Le grandi navi che trasportano merci dall’Oriente verso l’Europa passano dal Canale di Suez. Virano verso Cipro, affiancano l’isola di Malta e quando intravedono il tacco d’Italia fanno il giro largo, per stare il più lontano possibile dai nostri disorganizzati porti. Preferiscono navigare quattro giorni in più e attraccare ad Anversa, Rotterdam o Amburgo, piuttosto che incappare nella ragnatela della burocrazia italiana. Così, paradossalmente, un container che deve andare da Singapore a Milano, ci mette meno tempo se il suo trasporto marittimo si conclude in Olanda anziché a Genova. Un’assurdità che spinge un terzo degli imprenditori della pianura Padana a rivolgersi ai porti del Nord Europa anziché a quelli nazionali. Per una questione di tempi ma pure di quattrini. Infatti, in Italia, secondo i calcoli di Fedespedi, la federazione degli spedizionieri, il costo medio dei servizi portuali è di 1.006 euro. In Germania si scende a 872 euro.Ecco perché su 100 navi che transitano nel Mediterraneo, 80 proseguono oltre Gibilterra dirette in Nord Europa. Le restanti 20 si fermano in Turchia o sulle coste del Nord Africa, e solo in minima parte sbarcano in Italia. Un pessimo risultato nonostante tutte le risorse che i cittadini spendono, attraverso tasse di vario genere, per finanziare le autorità portuali, delegate a gestire gli scali nostrani. Le authority dei porti sono 24 e costano complessivamente 330 milioni di euro l’anno. Quasi 110 milioni se ne vanno in stipendi per il personale e 8,3 milioni foraggiano i costi delle 24 presidenze. Un costo salato. Non a caso, da sette anni in Parlamento si parla della riforma del settore, a partire dalla riduzione del numero delle authority. In realtà, si è discusso parecchio soprattutto di un argomento: la spartizione delle poltrone. Ma l’economia marittima italiana sprofonda. La candidatura del senatore Riccardo Villari al porto di Napoli (vedi riquadro a pagina 124), medico diprofessione, inadatto perché una legge dice che il presidente deve dimostrare «massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale», ricorda molto la storia di Piergiorgio Massidda, medico fisiatra che dopo cinque legislature in Parlamento nel 2011 è stato chiamato a presiedere il porto di Cagliari dall’allora ministro Altero Matteoli. Tre settimane fa il Consiglio di Stato l’ha destituito dall’incarico per totale mancanza di competenze. Un caso analogo è accaduto a Olbia, dove un mese e mezzo fa il senatore Fedele Sanciu del Pdl, che in tasca ha un diploma di licenza media inferiore, è stato nominato commissario dell’authority. Poiché di spartizioni politiche si tratta, anche il Pd vuole le sue poltrone. L’ex sottosegretario alla Difesa del primo governo Prodi, Lorenzo Forcieri, attende la riconferma come presidente dell’autorità portuale di La Spezia, incarico che ha avuto nel 2009 dopo essere rimasto fuori dal Parlamento alleelezioni del 2008. Secondo la legge, queste poltrone dovrebbero essere riservate a esperti del settore. Invece, sono spesso occupate dai politici. Facile capire il motivo: le authority sono ambitissimi centri di potere che gestiscono appalti e si spartiscono straripanti flussi di finanziamenti statali. Sono enti di “governance” che avrebbero la missione di promuovere il porto e coordinare gli interventi, svolgendo le stesse funzioni che fino a vent’anni fa ricoprivano, senza costi aggiuntivi, le capitanerie di porto. Alcuni enti faticano a riscuotere le tasse demaniali, altri contraggono mutui che finiscono per sommergerle. Sette authority sono commissariate, quasi tutte perché i loro bilanci non tornano. La Corte dei Conti fa il possibile per monitorare l’attività delle 24 autorità, ma il più delle volte interviene quando il danno è già stato fatto. Come è successo nel 2011 a Livorno, dove l’autorità ha usato 244 mila euro per spese legali, nonostante possa contare gratuitamentesull’avvocatura di Stato, oppure a Brindisi, Catania, Messina, Palermo e Taranto, dove sono state finanziate opere mai realizzate. Una norme fissa lo stipendio base del presidente del porto in 250 mila euro l’anno. Somma che può salire oltre i 300 mila giocando sui rimborsi spese. Come ha fatto Marina Monassi, presidente del porto di Trieste e compagna del senatore Pdl Giulio Camber. Dopo i tagli della “spending review” del governo Monti il suo stipendio era sceso a 200 mila euro. Però lei, ricorrendo alle “indennità di carica e rimborsi spese”, ha arrotondato a 320 mila. La legge infatti consente un rimborso nel caso il presidente non sia domiciliato nella città dove esercita la sua funzione e Monassi si è domiciliata a Roma, anche se possiede due appartamenti a Trieste. Quindi riscuote 120 mila euro d’indennità: cifra che basterebbe per fare 600 volte, andata e ritorno, la Roma-Trieste a bordo di un treno Frecciarossa. Non ha grossi problemi di salario nemmeno il commissario diCatania, Cosimo Aiello, che ha 53 anni ed è già in pensione da due. Oggi percepisce anche 300 mila euro dall’autorità portuale. A Brindisi, per uscire dal solito schema partitocratico, è stato chiamato un tecnico: Hercules Haralambides, professore di Economia marittima all’Università di Rotterdam. Un fior di tecnico, purtroppo apparentemente mal consigliato. Prima ha nominato come segretario generale (un posticino da 250 mila euro) Fernanda Prete, ex dirigente alle politiche giovanili della Provincia, che dopo due mesi è stata destituita perché di porti sapeva poco o nulla. Poi ha scelto Cosimo Casilli, farmacista leccese con due brevi esperienze parlamentari nel Pd. Decisamente più noto e meglio inserito nel Gotha della politica è l’uomo che realizzerà una piattaforma offshore da 2,5 miliardi di euro a pochi passi dalla mitica laguna di Venezia. È Paolo Costa, 70 anni, già ministro dei Lavori pubblici con Romano Prodi e commissario ai Trasporti dell’Unione europea. Oggi governail porto della Serenissima. Sta per costruire una piattaforma d’altura che potrà accogliere 3 milioni di container l’anno, pari a un terzo del traffico italiano. In soli due anni, Costa ha ottenuto approvazioni e finanziamenti dall’Italia e dall’Europa. Manca solo il via libera del Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, e tra due anni Venezia diventerà lo scalo più importante d’Italia, che farà concorrenza non tanto a Rotterdam, che di container ne trasporta 11 milioni, ma a Genova e Trieste. Molti ritengono assurdo il progetto: «Non è il momento di investire tanti soldi in nuove strutture che entreranno in funzione tra decenni», dice Angela Bergantino, professoressa di Economia dei trasporti all’Università di Bari. Oggi tutti i porti italiani perdono quote di mercato per colpa della crisi e della concorrenza nordeuropea e delle coste del Nord Africa. «Bisogna pensare all’immediato e completare la manutenzione ordinaria evitando che i porti s’insabbino.Ma manca una razionalizzazione degli investimenti, incentivando così la concorrenza fra le autorità italiane a spese dei cittadini», sostiene Bergantino. La Corte dei Conti rivela che il governo quest’anno ha stanziato 5 miliardi per migliorare gli scali italiani ma la gran parte dei fondi sono indirizzati a scali piccoli rispetto a quelli di Genova, La Spezia e Livorno, da cui passa il 60 per cento del traffico nazionale. Venezia, per esempio, ha ricevuto 1,06 miliardi, mentre per Genova sono previsti 114 milioni che non basteranno mai a rilanciare il porto. Il progetto della Laguna fa a pugni anche con il piano di ampliamento dello scalo triestino che vale 132 milioni. Costa è convito del contrario: «I porti italiani non sono in grado di operare a un livello di scala paragonabile a quello nordeuropeo. Solo se tutti i porti si daranno da fare per sviluppare nuove infrastrutture allora potremo convincere le navi a fermarsi qui». La sua idea, condivisa da molti esperti del settoremarittimo, è di ridurre a cinque le autorità portuali: due adriatiche, due tirreniche e una siciliana. Eppure i senatori Marco Filippi del Pd e Antonio D’Alì del Pdl si stanno battendo come leoni per ripristinare l’autorità portuale di Trapani, soppressa nel 2008. Mentre a Manfredonia, Foggia, la chiusura dell’authority è stata annunciata nel 2011 ma l’ente è ancora attivo e il commissario, Nico Falcone, guadagna ancora 360 mila euro l’anno. Piero Lazzeri, presidente di Fedespedi, da anni lamenta l’assenza di un coordinamento doganale. Ci sono 17 diversi controlli che possono essere effettuati in una procedura d’importazione e ben nove ministeri hanno il potere di intervenire per verificare il contenuto dei container. Addirittura capita che uno stesso container venga ispezionato due o tre volte e che la merce resti ferma nel porto più di dieci giorni. Chi si occupa di logistica queste cose le sa: e così aumentano i grossi gruppi, come Ikea e Pirelli, che sempre più spessopreferiscono affidarsi all’efficienza di Rotterdam. Un porto come La Spezia, il secondo più importante d’Italia, ha volumi di traffico in crescita (più 1,3 per cento quest’anno) perché ha creduto sullo spostamento dei container su rotaia, all’interno del porto: «Stiamo investendo per migliorare ulteriormente la ferrovia, su cui presto passerà il 50 per cento delle merci», dice Forcieri. Parte proprio da La Spezia il tentativo di anticipare l’invio dei documenti quando la nave è ancora in mare per sbrigare velocemente le pratiche, mentre a Ravenna si sta sperimentando un centro unico doganale per ridurre la burocrazia. Due esempi virtuosi ma non sufficienti a contrastare la concorrenza degli scali del Nord. Servirebbero coordinamento e innovazione, per rilanciare un settore che vale 2,6 punti di Pil: «Abbiamo proposto al ministro Lupi una serie di iniziative a costo zero per migliorare la logistica marittima», dice Lazzeri. Nessuna risposta. GloriaRiva,l’espresso
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