Tredici chilometri e duecento metri. Appena venti minuti di scooter, oppure mezz’ora tra metro e bus (crisi dei trasporti e buche, permettendo). È la distanza che separa il grigio piombo delle Vele di Scampia dall’orizzonte luminoso che avvolge chi va in bici o tira calci a un pallone sul cosiddetto lungomare Liberato di Napoli. La misura tra l’immutabile marginalità napoletana e i tentativi di un suo riscatto. Un solco che fotografa anche un’occasione mancata: era forse Scampia a dover essere "liberata", prima. E la promenade sulla costa, invece, a doversi riempire di decoro, iniziative e qualità di vita, anche al di là dell’episodica parata di vele (quelle tecnologiche) delle pre-selezioni di Coppa America che hanno infiammato l’orizzonte per le due ultime stagioni. E ora? La Napoli che affronta la coda più difficile del 2013 - con tensioni di piazza, disoccupati in aumento, con il sindaco Luigi de Magistris che non riesce daquattro mesi a nominare neanche un comandante della polizia municipale per le ristrettezze imposte dal decreto "salva Comuni" - sta stretta dentro questi tredici chilometri di contraddizione. Se il format Scampia continua a produrre rabbia per quanto lo Stato non è ancora riuscito a portare né a estirpare, e speranze per quanto l’associazionismo maturo riesca a costruire e far rinascere da solo, anche il resto della città deve fare i conti con prolungate assenze e operose presenze. Con il tempo bruciato (da buona parte delle istituzioni, o dalle camorre) e il tempo guadagnato (da associazioni, parrocchie e volontari), a favore dei più fragili, dei senza-garanzie, degli ultimi. Categorie che affollano anche le altre "periferie" invisibili: non solo ai bordi della metropoli, come il viale della Resistenza delle Vele, ma proprio dentro il cuore della metropoli. Sono trascorsi esattamente dieci anni da quando, a Scampia, fu demolita la Vela H: veniva giù in un’enorme nuvola dipolvere la terza delle costruzioni diventate alveari di crimine e degrado, vera e propria "architettura criminogena", come l’ha definita solo qualche giorno fa a Napoli, il capo della polizia Alessandro Pansa. Era il 2003 quando fecero crollare quel grattecielo, c’era il sindaco Rosa Russo Iervolino, ed erano già trascorsi sei anni da quando il predecessore ancora in auge, Antonio Bassolino, aveva cominciato a radere al suolo, con le bombe piazzate sotto le Vele F e G, l’idea stessa di uno skyline disperato e immodificabile. Dieci anni dopo, le residue Vele sono ancora in piedi su un territorio desolato, non c’è traccia né dell’Università, né del Policlinico con cui il sindaco de Magistris e il governatore Stefano Caldoro hanno ripetuto promesse e, come chi li ha preceduti, alimentato la sete di futuro. Appena due anni fa, la città sembrava aver trovato nuovo slancio con l’elezione di de Magistris, ex pm d’assalto eletto fuori da ogni partito e schieramento. Entusiasmo che sideclina al passato: c’era una volta la rivoluzione (arancione). Che avrebbe dovuto sfamare le attese di Napoli, far brillare il suo patrimonio, guadagnarle una nuova dignità sulla scena internazionale. Sono passati ventinove mesi e la stella di de Magistris appare offuscata, la città che ha creduto in un nuovo corso è sospesa e trasversalmente delusa. Priva di un’identità, orfana di una strategia, sostanzialmente lasciata a corto di visioni che ne trasformino anche in parte il percorso: fatta eccezione per quell’intuizione appunto, il Lungomare (semi) pedonalizzato, bell’idea poi ceduta o al legittimo impiego commerciale dei dehor di grandi alberghi e ristoranti, o alla selvaggia fruizione di venditori abusivi e carrozzoni da suk. E la volontà di incidere un vero cambiamento, nel quotidiano e anche nell’immaginario? La ripresa autunnale coglie una città che non guarda al mare ma alle sue eterne emergenze: poche settimane fa, meno di cento tra disoccupati, precari edipendenti di società regionali assaltano le sedi di Pd e Pdl, inscenano cortei, bloccano la città. E forse non basterà a impartire un’autentica svolta neanche l’arrivo graduale degli 890 milioni, fondi dello Stato legati all’approvazione dei decreti 35 e 174 per i comuni in pre-dissesto, anche se la liquidità servirà magari a riaprire qualche cantiere e a lenire i rapporti con fornitori e imprese per i debiti pregressi. E non c’è stato lo scatto sperato neanche sull’inestinguibile piaga dei rifiuti: apprezzabile lo sforzo messo in piedi, ma la raccolta differenziata cresciuta solo in alcuni quartieri oggi resta inchiodata su una media del 28 per cento, cioé lontanissima dal quel 70 per cento promesso in campagna elettorale dal sindaco addirittura , e tra l’altro non è andata di pari passo ad un salto di qualità nella tutela di spazi pubblici e di aiuole, nella conservazione di strade pulite. Senza dire che la mancanza di soluzioni strutturali fa sì che sulla cittàcontinui a pesare la mannaia di una crisi, che potrebbe tornare in qualsiasi momento. Bocciata definitivamente l’idea di un inceneritore a Napoli est, non c’è stata neanche la posa della prima pietra per un impianto di compostaggio (ma almeno sono pronti i bandi) e, per completare il quadro, la società provinciale Sapna che si occupa dello smaltimento dell’immondizia della metropoli e di tutta la provincia è ridotta allo stremo per i mancati versamenti da parte dei Comuni morosi (solo il Comune di Napoli deve a sapna ben 58 milioni di euro). Se la città, oggi, non si ritrova con i cumuli per strada lo deve, per ora, alle navi cariche di rifiuti che partono per l’Olanda, ai treni che vanno in Germania e ai soliti camion che, a costi alti, che viaggiano verso il sud o il nord Italia. Le altre delusioni della città si chiamano traffico, periferie e promozione culturale. Complici i cantieri infiniti delle stazioni del metrò e gli implacabili tagli al sistema dei trasporti pubblici,Napoli torna a vivere l’incubo di una viabilità confusa, imprevedibile, immobile. Paralizzati per interminabili pomeriggi, o mattinate feriali, solo per attraversare la porta d’ingresso in città, si torna ad alimentare l’aneddotica sugli ingorghi a croce uncinata, vecchio repertorio dei cittadini "emigrati". Né è servita la strategia delle Zone a traffico limitato, per il metodo rigido e ideologico con cui sono state calate sulla comunità, salvo disporre in extremis "mezze scelte" e parziali correttivi che però hanno aumentato la confusione. Una città sospesa, su cui pesa particolarmente l’assenza - trasversale - di una classe dirigente degna della missione. Ha scritto parole lapidarie il sociologo Domenico De Masi, in un recente atto d’accusa (apprezzatissimo sul web): "La Campania è la seconda regione d’ Italia per numero di abitanti. Il suo Pil pro capite (16.601 euro) è la metà di quello della Lombardia (33.483 euro), il più basso di tutto il Mezzogiorno e di tuttoil Paese. C’è dunque qualcosa che non funziona nella nostra classe dirigente, a cominciare dai politici e dagli intellettuali. E c’ è qualcosa di patologico nella mancanza di indignazione, che frena migliaia di giovani precari in una paralisi psicotica mentre a poche centinaia di chilometri, sull’altra sponda del Mediterraneo, i loro coetanei rischiano la vita per guadagnarsi uno straccio di libertà". Certo, la città che oggi accoglie un costante e ammirato pacchetto di turisti non trova più le montagne di rifiuti, e anzi incrocia un onesto cartellone natalizio di eventi, oltre alla costante seduzione dei vicoli dei presepi. Ma come avviene ormai da secoli, Napoli sopravvive ai difetti del presente con i lasciti del suo passato: cioè con un patrimonio culturale di formidabile complessità. Peccato che anche il Forum Universale delle Culture, che la città si era aggiudicata ben cinque anni fa come grande evento internazionale, dopo infinite polemiche e defaillance di direttori emanager, abbia avuto un debutto in sordina, l’altra sera al teatro San Carlo con un concerto, peraltro in mezzo a disordini per contestazioni contro la Regione. E fino al 2014 non si sa ancora come e quando seguiranno gli altri appuntamenti del Forum, che quindi per mancanza di programmazione ha perso qualunque efficacia nel traino di visitatori. Eppure, Napoli continua ad attrarre. Persino il complesso cinquecentesco dei Girolamini - la cui antica e prestigiosa biblioteca è stata letteralmente devastata dall’opera di saccheggio orchestrata dall’ex direttore Umberto Marino De Caro, l’amico dell’ex senatore Marcello Dell’Utri - sta riaprendo a centinaia di studiosi ed appassionati, ha accolto richieste di visite internazionali. Tutt’intorno, lungo i Decumani, il suo carnet di monumenti e chiese e segreti paesaggi è tale da compensare anche qualche ingorgo. Ma resta l’incapacità da parte del ceto politico-istituzionale a trasformare un tale movimento in unastabile economia cittadina. Ci sta riuscendo invece, micro-evento virtuoso finito al centro di reportage internazionali e saggi, il rione Sanità - quello di Totò e di Sant’Alfonso Maria de Liguori: ha costruito un suo autonomo flusso turistico di qualità grazie alle coop di ragazzi volenterosi, alla tigna di un parroco come don Antonio Loffredo e alle idee di un manager della solidarietà come Ernesto Albanese (una storia degna di stupore positivo, raccolta nel libro "Noi, del rione Sanità", appena edito) Su grande scala, la congiuntura economica sfavorevole e i veti incrociati nella città impediscono poi la realizzazione di progetti di sviluppo urbanistico. Il caso esemplare è Bagnoli, mai riqualificata, e tra l’altro funestata dal rogo doloso di Città della Scienza: la struttura ha riaperto a grandi e piccoli da qualche settimana almeno, ma dall’altro lato della città, anche la città est viene riqualificata con troppa lentezza. In fondo, a chi chiedevaun’altra Napoli, più moderna, più efficace nei servizi, più europea nella qualità di vita, non può bastare dare due calci a un pallone sul lungomare "liberato".Conchita Sannino,repubblica
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