Dirla. La prima cosa da fare a Roma è dirla, la mafia. Imparare a pronunciarla. Nello spirito indicato da Paolo Borsellino (“Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Ma parlatene”, diceva il magistrato), certo. Ma soprattutto perché finora la strategia maggioritaria e trasversale è stata sminuirne la forza, a volte persino negarne la presenza, in nome di un maldestro tentativo di difendere l’immagine della città o di una improbabile teoria della “piccola guerra tra bande”. Un’inerzia colpevole durata oltre un ventennio (almeno dal 1991, quando la commissione parlamentare antimafia di Gerardo Chiaromonte lanciò l’allarme: i clan si stanno prendendo la città) che ha avuto un solo risultato: fare diventare Roma una Capitale delle mafie, per di più impreparata ad affrontare la presenza dei clan. Una situazione grave e complessa, che si intreccia con il tema sicurezza e che va affrontata a partire da un’indispensabileimmersione nella realtà. LA SICUREZZA REALE E QUELLA PERCEPITA Anche nel 2012 Roma è stata la prima città italiana dei delitti: il ministero dell’Interno ne ha contati oltre 267mila. È l’eredità lasciata dal sindaco Gianni Alemanno affidata ai freddi numeri. Proprio l’ex primo cittadino infatti aveva incentrato sulla sicurezza la sua campagna elettorale (era il 2008) prima e la sua attività di amministratore dopo. Un concetto malinteso di sicurezza. Costruito manipolando i dati (che invece raccontavano di un calo dei reati dal 2004 ai primi mesi del 2008), giocando con la paura dei cittadini (un gioco di cui era rimasto vittima anche il centrosinistra, che aveva promosso demagogici provvedimenti nell’ultima stagione di Walter Veltroni come il pacchetto Sicurezza “imposto” al governo Prodi dopo l’omicidio Reggiani), stringendo un’alleanza perversa con alcuni media locali, realizzando campagne grottesche a bordo delle motociclette contro la prostituzione. Lastrategia di Alemanno ha pagato alle elezioni, ha affondato la città nei cinque anni successivi. Così, dopo la cura di destra, Roma è una città più insicura, con le periferie abbandonate, con maggiori sacche di illegalità. Alcuni dati lo dicono chiaramente: tra il 2010 e il 2011 c’è stata una crescita formidabile di furti (+ 9,6%) e rapine (addirittura +29,6%). È cresciuto anche del 34% il numero degli stupri e dell’8,4 quello dei maltrattamenti in famiglia. Sono cresciuti anche nel passaggio tra il 2011 e il 2012 i furti (oltre 163mila) e le estorsioni (sono 452 quelle denunciate). Un quadro desolante. E preoccupante. Percepito anche dai cittadini: secondo un sondaggio Swg di un anno fa, il 64% dei romani pensava che i problemi legati alla microcriminalità fossero aumentati con il sindaco sceriffo. Non c’è ragione di credere che la percezione sia cambiata leggendo le cronache che arrivano dal Pigneto o Tor Bella Monaca, da San Basilio o Ostia. Ma c’è di più: Alemanno ha condotto una(solo comunicativa, per la verità) battaglia “muscolare” e miope per la sicurezza considerando i fatti di sangue (omicidi e gambizzazioni) e il traffico di droga come reati dovuti a piccole bande. Non aveva capito che il quadro era quello di una città di mafie. LE MAFIE DENTRO CASA Finita la stagione di Alemanno, l’attenzione della politica – almeno negli atti concreti – non sembra però essere cambiata in maniera decisiva. Nessuno scatto in avanti è stato compiuto nella campagna elettorale, solo piccolo segnali sono avvenuti finora. Eppure, se ancora ce ne fosse il bisogno, le ultime operazioni, tra la Romanina e San Basilio, così come la maxioperazione di Ostia della scorsa estate (che riprende e sistematizza un sistema criminale che ha radici lontane e che anche la sinistra aveva negato), la confisca multimilionaria al romano in odore di ’ndrangheta Marcaccini (quanti professionisti, notai, commercialisti, avvocati, direttori di banca sono stati coinvolti nellecompravendite e hanno taciuto?) così come le mani della camorra sul gioco d’azzardo scoperte nei giorni scorsi dimostrano in maniera inequivocabile che la strategia della bassa intensità e dell’inabissamento non ha funzionato. Va allora immediatamente cambiato il paradigma analitico: le mafie non sono fenomeni residuali, legati a episodi di infiltrazione (come si legge giornalmente nelle dichiarazioni dei politici, anche di quelli apparentemente più attenti) o di violenza, sono invece un sistema di organizzazione del sistema economico, hanno e gestiscono consenso (seppure di pessima qualità). È così in Italia, è così anche a Roma. È evidente a un’attenta osservazione dei fenomeni sociali ed economici. Lo ribadiscono con nettezza i numeri, ancora una volta. Sono almeno 45, nelle carte dei magistrati, gli omicidi che dal 2005 al 31 marzo 2013 sono nati dentro il contesto delle mafie e della criminalità organizzata romana. Sono almeno 66 le gambizzazioni e i tentati omicidi maturatiper le stesse ragioni tra il 2010 e il marzo di quest’anno. I dati delle forze di polizia ci dicono che Roma è la prima città italiana nel mercato della droga (quasi 5500 chili sequestrati nel 2012, più del 12% della cocaina nazionale) ed è quinta per numero di beni confiscati ai clan (383, dati aggiornati alla scorsa primavera), sono uno su tre i commercianti a rischio usura (28mila i cittadini vittime stimate in tutto il Lazio) e almeno 6mila quelli che, secondo Sos Impresa, pagano il pizzo. Ma un numero, più di altri, spiega la situazione romana: sono state ben 7.877 le segnalazioni di operazioni bancarie sospette nel 2012 secondo l’Uif della Banca d’Italia (quasi 1500 in più rispetto al 2011). Una cifra impressionante, che assegna a Roma la maglia nera nazionale e che preoccupa ancora di più perché pochissime sono le segnalazioni di professionisti o direttori di banca: quasi sempre ha agito di sua iniziativa la Banca d’Italia. Non esistono numeri, ma stime (la presidente delprimo municipio Sabrina Alfonsi parla addirittura del 70%) per migliaia di casi invece i casi di negozi, ristoranti, hotel e imprese commerciali in mano ai prestanome dei clan. D’altra parte, spiega la Dna nella sua relazione 2012, “i settori in cui la mafia investe i suoi capitali sono soprattutto l’edilizia, le società finanziarie e immobiliari e, nell’ambito del commercio, l’abbigliamento, le concessionarie di auto e la ristorazione”. Dati e circostanze che, se incrociati anche al vorticoso giro di negozi “compro oro”, alla diffusione incredibile di locali per il gioco d’azzardo, danno la misura della forza criminale nel tessuto economico-finanziario della città. Tutto questo senza contare il ruolo svolto dalle mafie straniere, a partire dalla triade cinese, dalla mafia russa, dai clan dell’Est Europa. IL QUADRO UNICO Naturalmente non tutti i reati sono collegati tra loro in maniera diretta. Ma se davvero si vuole provare a capire quello che accade nella Romacriminale bisogna leggere tutti i fatti nello stesso quadro. Omicidi e racket, usura e riciclaggio del denaro sporco, droga e gioco d’azzardo, rapine e gambizzazioni: sono tutte tessere dello stesso mosaico. In cui operano i criminali, e anche imprenditori e commercianti, professionisti e politici. Un mosaico che va ricostruito pezzo per pezzo grazie al lavoro delle forze dell’ordine, ma che deve essere compreso e interpretato da chi amministra una città, da chi la vive. LA STRATEGIA L’azione di contrasto alle mafie e le politiche per la sicurezza sono di competenza nazionale e non bisogna commettere l’errore, come accaduto strumentalmente in passato, di attribuire agli enti locali compiti che non hanno. Tuttavia, se è vero che spetta agli investigatori fare le indagini, al governo compiere le scelte strategiche e al parlamento legiferare, è anche vero che le istituzioni politiche locali hanno compiti e responsabilità. Dentro questo contesto, il primo passo peruna vera politica antimafia è quello della verità: i romani devono conoscere la realtà e i poteri che si muovono dentro il Raccordo. Serve un processo di conoscenza e riconoscimento che non deve avere fare sconti a nessuno. E allora bisogna dire che finora i partiti e i sindacati non hanno considerato davvero la battaglia antimafia come una loro battaglia, che le istituzioni si attardano irresponsabilmente a parlare di infiltrazioni, che i professionisti non hanno sentito l’odore delle montagne di soldi arrivati in città, che i giornalisti continuano a usare informazioni di cinque anni fa, che i magistrati non hanno fatto abbastanza se è vero che finora solo una condanna per 416 bis è uscita dal tribunale di Roma che negli anni si era segnalato come il “porto delle nebbie”. Che persino le associazioni antimafia non sono state all’altezza: hanno utilizzato analisi antiche e pratiche rassicuranti invece che interrogare la città e se stesse di fronte alle proprie responsabilità. Untentativo di cambiare l’approccio nella lotta alle mafie in città l’ha messo in campo l’Associazione daSud. Dopo le due edizioni del dossier #romacittàdimafie, dopo il Roma Mafia tour di giugno, ha lanciato a novembre il primo protocollo contro i clan a Roma. Si chiama “Municipi Senza Mafie” ed è stato sottoscritto – evento storico – da tutti e 15 i presidenti romani (seppure con diversi gradi di convinzione). Non è stata attribuita, nessuna pagella, nessuna certificazione antimafia. Non è stata chiesta nessuna delega, come troppo spesso avviene ancora oggi. Tutt’altro. Sono stati sottoscritti degli impegni precisi e verificabili, a costo zero e a legislazione vigente, su alcuni temi strategici per il futuro della città: sugli appalti (a partire dalla buona ed efficace pratica adottata dal Comune di Lamezia Terme), sulla corruzione (investendo anche i municipi, cosa non prevista, delle norme previste per gli enti locali dalla legge nazionale), sui beni confiscati (nel tentativo digarantire, finalmente, una mappatura degli immobili e la trasparenza delle assegnazioni finora piuttosto nebulose), sul gioco d’azzardo (vera emergenza romana) e sulla formazione dei cittadini su mafie e trasparenza. Un primo passo, dal basso e partecipato. Che dovrà raggiungere innanzitutto i cittadini e del quale sarà investito presto anche il Campidoglio (il capogruppo di Sel Gianluca Peciola e il presidente della commissione Legalità e diritti Riccardo Magi hanno già assunto l’impegno ufficiale a portare in Comune una delibera che assuma il contenuto del protocollo), su cui c’è da augurarsi che voglia confrontarsi anche la Regione Lazio che in questi mesi ha approvato una legge sul gioco d’azzardo (interessante, ma non ancora applicata) e che ha istituito il suo Osservatorio regionale (utilizzando però un modello previsto da una legge di più di dieci anni fa e che infatti è sbilanciato su una una concezione “legge e ordine”) che sta muovendo i primi passi. TREDIRETTRICI Ma il Comune può svolgere un ruolo ancora più centrale ed essere protagonista di una nuova stagione antimafia, muovendo le giuste leve amministrative lungo tre direttrici. La prima è politica e culturale, la seconda burocratico-amministrativa, la terza riguarda invece le politiche sociali e di welfare. Direttrici che devono stare dentro una scelta precisa: assumere il contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata come obiettivo costituente di questa consiliatura e come azione unificante delle politiche di prevenzione e sicurezza, formazione e cultura, welfare e lavoro. Un cambio radicale di punto di vista che faccia di un’antimafia innovativa un prerequisito per l’agire politico e amministrativo. IL RUOLO POLITICO L’antimafia deve diventare centrale nell’esercizio politico, personale e istituzionale. Il sindaco, gli assessori, i consiglieri devono assumere la battaglia come centrale per la propria azione ed essere in fondo punto diriferimento dei cittadini. Non solo: il sindaco, o il vicesindaco, può prevedere tra le sue deleghe quella Antimafia perché questa impronta – politica, non tecnica – riguardi l’azione dell’intera giunta. Oggi invece esiste una delega alla Sicurezza in mano a un’ex poliziotta che svolge la sua funzione dentro l’ufficio di gabinetto. È inoltre assolutamente urgente convocare un consiglio comunale aperto sulle mafie a Roma: da celebrare subito in Campidoglio con una discussione pubblica e partecipata che deve coinvolgere innanzitutto realtà associative e sociali, professionisti, imprenditori, il mondo della scuola. Inoltre sulla scorta della riflessione in corso a proposito del rating antimafia delle aziende (che però è ancora da valutare) e nel rispetto dell’autonomia delle singole categorie, l’Amministrazione può promuovere (e valutare la possibilità di promuoverne il rapporto con la Pubblica amministrazione) la nascita di comitati di professionisti o imprenditori antimafia,antiracket o antiusura e sostenerne le attività e può valorizzare le esperienze ad alto contenuto etico nelle forniture della pubblica amministrazione. È quantomai necessaria poi l’applicazione di un sistema opendata per assicurare la trasparenza su tutti gli atti. Il Comune può inoltre promuovere attività di informazione e comunicazione, avviare accordi con enti, università e scuole, promuovere le attività di associazioni, gruppi purché avvenga superando vecchi e stanchi modelli, rendendo davvero popolare e partecipato l’impegno antimafia. LE SCELTE AMMINISTRATIVE Sugli appalti il modello è quello su cui si sono impegnati i municipi. A parte l’istituzione dell’Osservatorio (annunciata dall’assessore ai Lavori pubblici Paolo Masini), bisogna lavorare a un sistema di garanzie che – fermo restando l’attuale quadro normativo – permetta all’Amministrazione di avere le giuste leve per intervenire. In particolare, al di là della possibilità di attivare protocolliistituzionali (con Regione, Prefettura, ministeri, etc), l’Amministrazione può dotarsi di un sistema interno - già applicato con buoni risultati a Lamezia Terme - che prevede, tra l’altro, la possibilità per l’ente di chiedere le informazioni antimafia sulle imprese per appalti superiori a 150mila euro (anche se inferiore alla soglia comunitaria di 5 milioni) e la facoltà del Comune di escludere da tutte le gare in qualsiasi momento le imprese legate alle mafie, qualora il Comune acquisisca o sia ufficialmente informato circa provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Un’altra postilla sugli appalti è quella di prevedere – pena la nullità – l’obbligo di tracciabilità dei flussi finanziari anche per i subappalti. Il Comune deve applicare tutte le norme anticorruzione approvate nel 2012 e mettere in pratica il Piano Triennale di Prevenzione che deve contenere, tra l’altro, una valutazione del livello dei rischi e degli interventi organizzativi per affrontarli, la nomina di unResponsabile della Prevenzione della Corruzione e per la Trasparenza e la formazione del personale. L’Amministrazione comunale può prevedere l’obbligo e l’automatizzazione della propria costituzione di parte civile in tutti i processi per mafia, usura, droga, reati contro l’ente (è stata annunciata la costituzione nel processo Nuova Alba). Roma Capitale può dotarsi di uno strumento di coordinamento delle istituzioni territoriali che sia utile al contrasto al riciclaggio del denaro sporco. Per questo occorre potenziare gli strumenti di contrasto previsti dal D.Lgs. 231 del 2007 e favorire il coinvolgimento di una molteplicità di attori nelle attività di controllo: intermediari finanziari, Banca d’Italia, professionisti, istituzioni locali e parti sociali. In tal senso, vale la pena citare l’esempio del Comune di Milano che ha predisposto un piano che punta ad alimentare le «segnalazioni di operazioni sospette» attraverso l’analisi dei dati in possesso del Comune relativi adappalti, licenze, redditi, edilizia, con un intervento basato sull’analisi del rischio e sull’incrocio delle notizie contenute nelle diverse banche dati messe in rete. Roma Capitale deve provvedere a un’adeguata mappatura dei beni e dei terreni confiscati alle mafie in suo possesso (il vicesindaco Luigi Nieri sta per iniziare questo lavoro), a dare un’adeguata pubblicità dello status e della collocazione di ogni singolo bene, con l’obiettivo di garantire la trasparenza sull’effettivo riutilizzo per fini sociali. L’Amministrazione deve impegnarsi anche a utilizzare il bando pubblico come strumento per la destinazione finale (finora il sistema non ha funzionato a dovere) e prevedere anche un’azione di garanzia con gli istituti bancari per facilitare le ristrutturazioni dei beni assegnati. Il Comune di Roma deve dotarsi inoltre di un regolamento sul gioco d’azzardo che riconosca i rischi sociali e sanitari e quelli legati alla presenza dei clan. Deve pertanto mappare le sale dagioco presenti sul proprio territorio, stabilire distanza di sicurezza da luoghi sensibili, promuovere attività di prevenzione degli eccessi nel gioco d’azzardo attraverso l’educazione all’uso responsabile del denaro e alla promozione della consapevolezza dei rischi correlati e sostenere le attività commerciali che scelgono di non installare slot machine e apparecchi analoghi al proprio interno. L’Amministrazione – magari implementando la preziosa esperienza degli sportelli antiusura – può dotarsi di strutture che accolgano le vittime del gioco d’azzardo patologico. E una funzione importante di attenzione può svolgerla il Comune sui rifiuti, partita su cui si sta misurando l’assessore Estella Marino. IL WELFARE ORIENTATO Il Comune deve rafforzare la prevenzione. Che non significa promuovere una presenza maggiore di forze dell’ordine sui territori, ma – nel giusto rapporto di collaborazione con le forze dell’ordine e della magistratura – intervenire sulsociale. Bisogna lavorare sulle aree geografiche del disagio (fornendo infrastrutture, mezzi, servizi, assistenza) e sulle fasce sociali del disagio (dall’intervento di strada fino alle scuole o ai centri di accoglienza e di ritrovo, alle attività sportive e ricreative o culturali). Un discorso molto complesso e ampio, ma che rappresenta la vera chiave di volta per contrastare i clan: le mafie e la criminalità oltre a essere associazioni che terrorizzano i cittadini sono anche realtà che hanno consenso sociale e lo gestiscono perché riescono a garantire quelle opportunità che lo Stato e gli enti locali non sanno più dare (dal lavoro all’assistenza, fino alla casa o alla salute). Ecco perché non è un esercizio retorico quello della cultura antimafie e dell’intervento sociale come strumento di contrasto al crimine organizzato e non. In questo senso un lavoro fondamentale possono svolgerlo i laboratori territoriali, sportivi e artistico-culturali. Un formidabile strumento antimafia èpoi quello del reddito di minimo garantito: un mezzo concreto per rifuggire dal ricatto occupazionale (costruito dalle mafie e dalla malapolitica) e liberarsi dal bisogno. A questo fine Roma Capitale può dotarsi di un’Agenzia Antimafie, uno strumento operativo e di coordinamento che costruisca una strategia stabile e coerente di contrasto alle mafie e ai fenomeni criminali, di sostegno alle fasce di popolazione più esposte al rischio criminale e di interfaccia per le politiche della giunta e del consiglio regionale. L’antimafia politica e sociale va ripensata, insomma. A partire dalle proprie insufficienze. Mettendo in campo scelte concrete e credibili. Questi sono alcuni strumenti, forse insufficienti, eppure utili e innovativi per questa città. L’obiettivo è praticare una nuova antimafia, non più retorica e autocompiaciuta. Che non sia più considerata prerogativa delle forze dell’ordine o della magistratura (che pure svolgono un compito indispensabile), dei giornalisti, delleassociazioni antimafia o delle persone di buona volontà. Ma che diventi azione diffusa e popolare, che non cerca il consenso nei simboli, nella semplificazione autoassolutoria della distinzione tra buoni e cattivi o nel giustizialismo. Ma che promuova piuttosto l’esercizio di diritti e la pratica delle libertà, la capacità dei cittadini di guardare le cose in chiaroscuro e scegliere, assumendosi la responsabilità. Su questo a Roma, oggi più che mai, la politica, il giornalismo, l’associazionismo misureranno la propria credibilità. Non ci sono più alibi per nessuno. Danilo Chirico-presidente Associazione daSud
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