È il primo anno senza. Senza Silvio Berlusconi in Parlamento, senza la legge elettorale Porcellum, così come l’abbiamo conosciuta fin qui, senza il bipolarismo che ha segnato venti anni di vita politica. Il 2013 ha distrutto la Seconda Repubblica e i suoi protagonisti arrivati esausti alla fine della loro carriera politica, non sono neppure riusciti a lasciare uno straccio di eredità positiva su cui lavorare, solo macerie. «Uno degli anni più drammatici della storia repubblicana», l’ha definito Giorgio Napolitano nel suo messaggio di fine anno. Ma si potrebbe anche leggerlo in altro modo: fermenti, spinte di cambiamento, giocate in modo rabbioso o puramente distruttivo, ma pur sempre una reazione a una crisi economica e sociale e a una paralisi del sistema politico che dura da anni. Il 2014 è l’anno in cui tutto va ricostruito: un sistema istituzionale, partiti, coalizioni, leadership. Per venti anni il gioco, in fondo, è stato semplice:centrodestra contro centrosinistra, o, per meglio dire, berlusconiani contro anti-berlusconiani. Già alle elezioni dell’anno scorso il panorama si era scongelato: i due schieramenti si erano fatti in quattro, erano comparsi il polo di Mario Monti e soprattutto il movimento di Beppe Grillo a scompigliare uno schema ormai logoro. Ora il groviglio è ancora più complicato, a testimonianza di un sistema dei partiti in via di polverizzazione, alleanze antiche che si sfaldano, patti nuovi che faticano a ricomporsi. Le elezioni europee del 25 maggio sono il passaggio-chiave che stabilirà il fixing, la quotazione dei singoli partiti in vista del vero appuntamento, le elezioni per il nuovo Parlamento, sempre più vicine. Nel centro-destra non c’è più l’invicibile armata berlusconiana, in alleanza con la Lega, nel Carroccio il giovane Matteo Salvini ha sconfitto il vecchio Umberto Bossi, nel defunto Pdl il delfino Angelino Alfano ha osato, rispettosamente, affettuosamente, disobbedire al suoleader di sempre, l’uomo di Arcore, perfino le schegge derivate dal big bang di An faticano a ricomporsi in unità. Eppure se dovessero resistere le coalizioni tutte le anime del vecchio centrodestra sarebbero condannate a ritrovarsi sotto l’ala dell’unico che ancora è in grado di raccogliere i consensi di almeno un quinto dell’elettorato, nonostante sconfitte e condanne, l’eterno Cavaliere. Il 2014 sarà per lui l’anno dell’interdizione, dell’affidamento ai servizi sociali e forse di nuove, pesanti condanne. La ricerca della mitica agibilità politica, come sopravvivere a se stesso, e anche di una successione inevitabile: la soluzione dinastica è sempre la preferita, anche se intanto Marina è tramontata ed è in rapida ascesa l’altra figlia, Barbara, mediatica, aggressiva e irrequieta come il papà. Nel centrosinistra c’è il Segretario fiorentino Matteo Renzi atteso alle prime prove elettorali in cui deve dimostrare che il consenso personale di cui gode può trasferirsi senza eccessivitraumi sul partito che dirige. Mica facile, per venti anni Berlusconi ha fallito nell’obiettivo, quando mancava la sua candidatura il suo partito andava sotto nelle amministrative. Prima prova, il 16 febbraio, le elezioni regionali in Sardegna, l’ultima volta che si è votato ci fu il crollo delle ambizioni nazionali di Renato Soru, sconfitto dall’anonimo Ugo Cappellacci (ma in quell’occasione Berlusconi si era mobilitato, eccome: ogni fine settimana volava nell’isola per un tour elettorale e nei comizi parlava solo lui, senza mai far intervenire il candidato), e le improvvise dimissioni dalla segreteria del Pd di Walter Veltroni. Seguiranno le candidature per le amministrative di primavera (in ballo c’è anche il comune di Firenze dove dovrebbe ricandidarsi lo stesso Renzi), le elezioni regionali in Abruzzo, infine le europee. Anche senza voto politico anticipato per il nuovo Pd di Renzi è una corsa a ostacoli di test elettorali, sperimentazioni, laboratori, per stabilire se c’è uneffetto Matteo sul partito, superare la soglia del 30 per cento come non avviene dal 2008, oppure serve un cambio più radicale: un nuovo partito. Nel centrosinistra, poi, c’è l’area che si muove alla sinistra del Pd, da Sel di Nichi Vendola a Idv ai reduci della catastrofica operazione Ingroia di un anno fa, in attesa di un federatore. C’è l’idea in vista delle elezioni europee di una lista a sostegno della candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, il capo di Syriza, il partito della sinistra greca. E c’è chi vede in Maurizio Landini, il segretario della Fiom, il profilo del federatore in grado di rimettere insieme l’elettorato della sinistra radicale stufo dei suoi dirigenti storici, un rottamatore di sinistra, nella Cgil e nella politica. Ma c’è anche quel che resta del montismo, i superstiti di Scelta civica che non intendono partecipare a revival democristiani con il partito di Alfano e che guardano con simpatia al Pd renziano. Renzi al centro,Landini a sinistra e i post-montiani a coprire un’ala moderata: l’embrione di un nuovo centrosinistra. Resta fuori dagli schemi il Movimento 5 Stelle, il 25 per cento di un anno fa appare difficile da ripetere, ma in Parlamento i deputati e senatori grillini hanno imparato a fare l’opposizione, in fondo erano stati eletti per quello, e mettono in difficoltà il governo. Le elezioni europee sono un grande sondaggio di opinione dove conta chi sa presentarsi con un profilo molto netto, già in passato sono stati premiati partiti e movimenti che poi sono evaporati nel voto amministrativo e politico, ad esempio la lista Bonino nel 1999 conquistò l’8,5 per cento, sembrano fatte apposta per rilanciare il peso elettorale del movimento grillino. In una campagna elettorale in cui Grillo ha già conquistato la parte dell’antagonista dell’Europa di Bruxelles a trazione tedesca: in tanti vorrebbero inseguirlo, da Berlusconi alla Lega alle liste di estrema destra, ma come no-Euro nessuno ha lacredibilità di Grillo, la sua capacità di affabulazione e un grado crescente di influenza su economisti e intellettuali apocalittici. Conta, più di tutto, la cornice in cui si andrà a votare per il Parlamento europeo. Tra sei mesi può esserci un sistema in movimento verso l’auto-riforma, sempre evocata e mai realizzata, con un governo in grado di mantenere la promessa di una timida crescita economica. Oppure una paralisi totale, una palude ancora più profonda di quella in cui siamo affondati negli ultimi anni, il fallimento dell’esperimento delle larghe intese, versione tecnica alla Monti o politica alla Letta, che significherebbe una probabile fine anticipata della legislatura ma anche le dimissioni del presidente Giorgio Napolitano. Il 2014 si apre più nel segno della minaccia che della speranza: la paura di un default politico da evitare a ogni costo se non si vuole spingere il sistema verso l’impazzimento finale. Così l’anno di transizione, l’anno “senza”, ci consegnerebbe a unadrammatica prospettiva: un’Italia senza riforme, una crisi senza fine. E senza via d’uscita. Marco Damilano,l’espresso
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