"Le Province? Sono enti utili, meglio cancellare le Regioni"
 











Ma quali province, gli enti inutili da abolire sono le regioni! “Gusci vuoti” riempiti di soldi che non hanno saputo gestire il territorio né far altro che esplodere il debito pubblico. A dare un giudizio così drastico non è qualche consigliere locale inviperito per aver perso la poltrona ma la Società geografica italiana (Sgi), una delle principali e più antiche istituzioni culturali del nostro Paese.
Nei mesi scorsi - mentre il governo Letta proclamava l’intenzione di cancellare la parola “province” dalla Costituzione - la Sgi ha realizzato uno studio (“Per un riordino territoriale dell’Italia” il titolo) volto a disegnare un nuovo assetto territoriale. Il risultato è un documento che va in senso diametralmente opposto a quello seguito dalla politica, destinato probabilmente a restare chiuso nei cassetti (un paradosso, se si pensa che l’input ad approfondire il lavoro è venuto dal ministero per gli Affari regionali). E del quale si possonocondividere o meno le conclusioni ma che ha quanto meno il merito di analizzare l’articolazione amministrativa italiana da un punto di vista scientifico, proponendo un riassetto del territorio basato su un approccio funzionale.
Il succo è questo: le province sono innegabilmente troppe, ma non sono enti inutili. Semmai lo sono le regioni, che sono ripartizioni recenti e spesso artificiose. Considerata la natura profondamente cittadina dell’assetto geografico italiano, sarebbe quindi meglio dare vita a 31 o 36 macro-province simili per cultura e tessuto produttivo, collegate fra loro e caratterizzate dagli stessi flussi di mobilità.
ADDIO AL CAMPANILE
Esempio pratico: che senso ha dividere due territori affini come il Polesine e il circondario di Ferrara solo perché in mezzo scorre il Po? Oppure considerare Piacenza emiliana se da decenni l’attrazione più forte è quella di Milano? E, allo stesso tempo, ritenere Cremona lombarda se la città gravita verso sud,sull’asse padano?
La soluzione indicata dai geografi è quello di un “rimescolamento” delle carte in cui, ad esempio, La Spezia sarebbe unita con Livorno e Pisa, visto che la città ha più legami con la Lunigiana che con l’area genovese. Stesso discorso per Brescia (più orientata verso Verona), Rieti (da unire all’Umbria, come nel Risorgimento) e Viterbo, troppo lontana da Roma e assai più attinente alla Maremma. Mentre al centro, vista la rete viaria esistente, andrebbe considerata la possibilità di unire il Molise con Foggia e Benevento.
NO AI CONFINI A TAVOLINO
Negli ultimi anni, invece, ogni volta che la politica ha cercato di intervenire, ha ragionato unicamente in termini di “soglie”. Il governo Berlusconi nel 2011 propose come limite minimo per sopravvivere all’accorpamento una superficie di almeno tremila kmq o una popolazione di 300 mila abitanti. Risultato: l’abolizione di 29 province con una distribuzione del tutto casuale. Stessa filosofia seguitadal governo Monti, che nel 2012 fissò come limiti 2.500 kmq e 350 mila abitanti, in modo da tagliare altre 35 province.
«La politica si lascia fuorviare dalle convenienze di parte» afferma Tullio D’Aponte, emerito di Geopolitica economica alla Federico II di Napoli e uno degli autori del lavoro, che ha visto impegnati per sei mesi un gruppo di lavoro di una ventina di specialisti. «Si può non essere d’accordo coi parametri adottati nello studio ma è indubbio che ci sia una visione organica della questione». Al contrario, ad esempio, delle varie proposte pensate a tavolino. Come la macro-regione del Nord vagheggiata dalla Lega, che dovrebbe includere Piemonte, Lombardia e Veneto. «Tre regioni», osserva D’Aponte, «che hanno un sistemi produttivi e gravitano verso aree totalmente diverse fra loro». Senza contare che la riforma proposte dalla Società geografica è assai più radicale di tutte quelle presentate, dal momento che i nuovi enti dovrebbero anche avere la facoltà di legiferarein completa autonomia.
«Il problema è che non si è mai adeguata la maglia amministrativa a quella economica e territoriale del Paese», rincara Piergiorgio Landini, docente di Geografia economica all’università di Chieti-Pescara. «Nel corso dei decenni sono avvenuti cambiamenti enormi: alcune zone sono emerse, altre sono del tutto depresse. E invece noi ancora siamo fermi all’Unità, quando fu effettuato il primo censimento, o al massimo al fascismo». Una suddivisione che, a un secolo di distanza, mostra ormai tutti i segni del tempo. Paolo Fantauzzi,l’espresso









   
 



 
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