Perché Internet ha bisogno di una propria Costituzione
 











Stefano Rodotà

Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano. Nel 1996, John Perry Barlow apriva così la sua Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio.
Questa affermazione orgogliosa riflette il sentire di un mondo, di una sterminata platea in continua crescita fino agli attuali oltre due miliardi di persone, che si identifica con una invincibile natura di Internet, libertaria fino all’anarchia, coerente con il progetto di dar vita a una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare. Ma è pure un’affermazione che ha dovuto subire le dure repliche da una realtà nella quale non solo Internet è variamente oggetto di regolazione, ma soprattutto conosce violazioni continue di quello statuto di libertà che si riteneva poter essere affidato alla propria, esclusiva virtù salvifica.
Perciò è venuto il tempo non di regole costrittive, ma dell’opposto, di garanziecostituzionali per i diritti della rete e in rete. Ma il rafforzamento istituzionale della libertà in questa sua nuova dimensione non può valere solo contro l’invadenza degli Stati. Deve proiettarsi anche verso i nuovi «signori dell’informazione » che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. Proprio il modo d’essere di questi soggetti – si chiamino Amazon o Apple, Google o Microsoft, Facebook o Yahoo! – ci racconta una compresenza di opportunità per la libertà e la democrazia e di potere sovrano esercitato senza controllo sulle vite di tutti. Non un Giano bifronte, però, ma un intreccio che può essere sciolto solo da una iniziativa «costituzionale » anch’essa nuova, che trovi proprio nella rete le sue modalità di costruzione.
Un esempio può essere ritrovato nella vicenda dell’Internet Bill of Rights, una proposta maturata all’interno delle iniziative dell’Onu sulla società dell’informazione e che si è venuta consolidando attraverso il lavoro di diversigruppi, dynamic coalitions
spontanee e informali che hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni, che si sono manifestati negli Internet Governance Forum promossi in questi anni proprio dall’Onu. La scelta dell’antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie «costituzionali». Ma, conformemente alla natura della rete, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall’alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che possono intervenire in modo attivo, grazie soprattutto a una tecnologia che mette tutti e ciascuno in grado di formulare progetti, di metterli a confronto, di modificarli, in definitiva di sottoporli a un controllo e a una elaborazione comuni, di trasferire nel settore della regolazione giuridica forme eprocedure tipiche del «metodo wiki», dunque con progressivi aggiustamenti e messe a punto dei testi proposti. Siamo così al di là di un altro schema tradizionale, che contrappone percorsi bottom- up a quelli top- down. Si instaurano relazioni tra pari, la costruzione diviene orizzontale.
Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all’integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina; a normative comuni per singole aree del mondo, come dimostra l’Unione europea, la regione del pianeta dove più intensa è la tutela di questi diritti; e come potrebbe avvenire per materie dove già è stata raggiunta una maturità culturale e istituzionale, come quella della protezione dei dati personali. Le obiezioni tradizionali – chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? – appartengono al passato, non si rendono conto che «la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale», comeha scritto Antonio Cassese.
Tutto questo accade in un contesto in cui le istituzioni tradizionali non vengono tagliate fuori, ma contribuiscono a una impresa di rinnovamento che, al tempo stesso, può mutare e rafforzare il loro ruolo. L’Onu si presenta come punto di riferimento per un mondo che si struttura proprio per cogliere una occasione da essa offerta. Il Parlamento europeo prende atto di una iniziativa non istituzionalizzata, e fa esplicito riferimento all’Internet Bill of Rights in una risoluzione del 2011.
Stiamo entrando in una dimensione difficilmente descrivibile con i tradizionali concetti della modernità politica, a cominciare appunto da quelli di Stato e di democrazia rappresentativa. Ma questa transizione non ci assicura che il suo esito sia quello dell’entrata nella postdemocrazia. Entriamo nella dimensione dell’inedito, e proprio perché si tratta di un processo inedito, non si può valutarlo con i criteri del passato, né attribuire una sorta di autoevidenza aqualsiasi vicenda che ci accada di registrare.
Cimentarsi con il problema del modo complessivo in cui la tecnologia incontra il tema delle libertà e istituisce lo spazio politico, significa proprio fare i conti con processi reali. E proprio riflettendo su Internet possono essere individuate le vie di un costituzionalismo globale possibile, non affidato a norme sovrastatuali incorporate nei diritti statuali. Vale a dire, una costruzione del diritto per espansione, orizzontale, un insieme di ordini giuridici correlati, non punto d’arrivo, ma strutturati in modo da sostenere la sfida di un tempo sempre mutevole, quasi una costituzione infinita.  Stefano Rodotà,repubblica

 

 









   
 



 
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