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Il dialogo ad personam: sulla giustizia decido io
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di Matteo Bartocci
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Da Silvio Berlusconi un uno-due sulla giustizia che rovescia il tavolo istituzionale, cancella il fantomatico «dolce stil novo» col Pd e prova a vincere, forse definitivamente, il braccio di ferro con la magistratura che lo insegue da quasi quindici anni. Prima un doppio emendamento al decreto sicurezza che sospende per un anno in tutta Italia i processi per i reati «meno gravi» (incluso il «caso Mills» contro di lui a Milano). Poi una lettera ufficiale dello stesso Berlusconi al presidente del senato Renato Schifani in cui si critica ad alzo zero la magistratura «di estrema sinistra» che intenta processi «fantasiosi» a fini «esclusivi di lotta politica». Un affondo che toglie il velo a una lunga serie di indiscrezioni e annuncia la presentazione entro luglio di una immunità permanente modellata su quel «lodo Schifani» già approvato nel 2003 agli stessi scopi (all’epoca c’era il processo Sme) ma bocciato nel gennaio 2004 dalla Consulta perché incostituzionale. Adifferenza di allora, stavolta il Cavaliere vuole procedere con tutti i crismi. Forte di un consenso senza precedenti presso l’opinione pubblica e di una sintonia totale della sua maggioranza non concede nessuno spazio alle mediazioni. «Eravamo favorevoli allora al lodo Schifani e lo siamo anche oggi», assicura il viceré di An Ignazio La Russa. Mentre la Lega mugugna sulle forme ma nella sostanza difende, con il capogruppo in senato Federico Bricolo, i due emendamenti «blocca processi» presentati a palazzo Madama al decreto sicurezza dai presidenti delle commissioni Affari costituzionali Carlo Vizzini (Fi) e giustizia Filippo Berselli (An). Per il Carroccio Roberto Maroni si sarebbe limitato a insistere solo sulla necessità di fare «tutto alla luce del sole». Berlusconi lo prende alla lettera e scrive a Schifani. Più che pronto a entrare in rotta di collisione non solo con i giudici ma anche con un Quirinale quasi esterrefatto di fronte a escamotage legislativi che oltraggiano ilsuo potere preventivo di controllo sui decreti del governo e sugli atti del parlamento. Per Napolitano però la strada di intervento è fin dall’inizio molto stretta. Poco dopo la presentazione degli emendamenti, il senatore del Pd Stefano Ceccanti ventilava una manovra a metà tra la moral suasion e l’avvertimento: «C’è un problema serissimo di correttezza verso il capo dello stato. Il governo ha il dovere di opporsi a modifiche che probabilmente avrebbero posto seri problemi alla firma del presidente della Repubblica in sede di emanazione del decreto». In altre parole, senza ripensamenti e se alla fine non fosse convinto delle modifiche fatte al decreto sicurezza, a Napolitano non resterebbe altro che rispedirlo alle camere facendolo decadere per intero. Simili speranze di mediazione però vengono seppellite definitivamente dalla lettera serale di Berlusconi. Un intervento irrituale nella forma - la lettera al presidente del senato viene diffusa da palazzo Chigi - ed esplosivo nelmerito. Berlusconi come sempre mescola pubblico e privato: si assume la totale responsabilità politica della «norma salva-processi» e in poche righe annuncia alla seconda carica dello stato che nel processo dove è indagato per corruzione in atti giudiziari insieme all’avvocato inglese David Mills ricuserà la presidente della decima sezione penale del tribunale di Milano Elisabetta Gandus. Il motivo è quello di sempre: «I miei legali - scrive il premier - mi hanno appena informato che la norma proposta (in senato, ndr) si applicherebbe a uno fra i molti fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato contro di me a fini di lotta politica in un tribunale politicizzato». Per Berlusconi è «una situazione che non ha eguali nel mondo occidentale», che rende «indispensabile introdurre anche nel nostro paese una tutela per le alte cariche istituzionali» per tutta la durata del loro mandato, cioè il vecchio lodo Schifani rivisitato. La chiusa guarda indirettamente alColle: «Proporrò al consiglio dei ministri - conclude il premier - di dare parere favorevole all’emendamento presentato in senato». Una formazione a testuggine che se non è una dichiarazione di guerra è uno schiaffo che infastidisce non poco il Quirinale, dove non risulta peraltro «nessun atto formale» su un’immunità che riguarda, tra l’altro, anche il capo dello stato.de Il Manifesto
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