Il problema di come affrontare il programma nucleare iraniano è un enigma politico fondamentale per gli Stati Uniti e per il mondo intero. È anche il segnale di un punto di svolta nella storia del nucleare, che esige un nuovo modo di concepire lo sviluppo del rischio atomico, le strategie più appropriate per gestirlo e persino, più in generale, le origini e la natura del dilemma che ruota attorno agli armamenti nucleari. Da quando, alla fine di marzo, il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu ha lasciato le sponde statunitensi, sembrava probabile che almeno per qualche tempo – forse fino alla conclusione della stagione elettorale americana attualmente in corso – non ci sarebbero stati attacchi contro gli impianti nucleari in Iran, né da parte degli Stati Uniti né da parte di Israele. L’Iran ha accettato di incontrare il gruppo di contatto europeo [costituito dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu – Usa, Russia, Regno Unito,Francia, Cina – e dalla Germania] per discutere una soluzione diplomatica alla disputa, e ora l’attenzione si sposta su questi colloqui, che si svolgono all’ombra delle severe sanzioni imposte all’Iran dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel frattempo in Israele si alzano voci illustri, tra cui quella dell’ex primo ministro Ehud Barak, che mettono in guardia contro un attacco. «Parlando troppo, e a voce troppo alta», ha detto Barak riferendosi al governo Netanyahu, «stanno creando un’atmosfera e un’escalation che rischia di diventare incontrollabile». E Yuval Diskin, che fino a poco tempo fa era a capo dello Shin Bet, l’Agenzia per la sicurezza nazionale, ha accusato il governo di «ingannare la popolazione» in merito alle possibilità di successo di un’eventuale aggressione israeliana ai danni dell’Iran. Infine Netanyahu, con una mossa che potrebbe rafforzarlo quale che sia la decisione che intenderà adottare sull’Iran, ha fatto entrare nel governo il partito Kadima cheera all’opposizione. Ma i colloqui israelo-americani hanno sortito anche un altro risultato, non meno importante. A quanto pare la democrazia ha guadagnato tempo, ma a caro prezzo. Il presidente Obama ha approvato senza equivoci l’uso della forza militare, in caso di fallimento di altri mezzi, come estrema risorsa per impedire che l’Iran utilizzi il suo programma di arricchimento dell’uranio a scopi energetici come piattaforma di lancio per la costruzione di un arsenale nucleare. Il presidente non ha lasciato spazio ad alcuna ambiguità. In primo luogo ha escluso qualsiasi modus vivendi con un Iran dotato di armamenti nucleari. Un Iran che disponga di armi atomiche sarebbe «inaccettabile», ha detto, impegnando tutto il prestigio degli Stati Uniti per impedire un esito di questo genere. «I leader iraniani devono comprendere che io non sostengo una politica di contenimento», ha detto all’Aipac, la lobby di destra che difende gli interessi di Israele, «la mia politica è quella diimpedire che l’Iran si doti di un’arma nucleare». Questa dichiarazione bellicosa è stata fatale. Ha spazzato via in un sol colpo ogni ipotesi di ritorno a quel «vivi e lascia vivere» in materia che era stato messo in atto dagli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica e di altre potenze nucleari, Cina compresa. In secondo luogo, Obama ha precisato che tra i mezzi per impedire che l’Iran acquisisca gli armamenti nucleari, intende includere anche la guerra. «Come ho già chiarito in più occasioni nel corso della mia presidenza», ha dichiarato all’Aipac, «non esiterò a usare la forza, se necessario, per difendere gli Stati Uniti e i loro interessi». E per maggiore chiarezza ha aggiunto: «Io non faccio bluff». Quel che colpisce immediatamente nella forma assunta da questo sviluppo politico è il restringimento nella scelta delle «opzioni». Obama ha ripetuto più volte che «tutte le opzioni restano in tavola». Volendo dire che è contemplato anche l’uso della forza. Nel frattempoperò altre opzioni, a partire dal contenimento ma senza limitarsi a questo, sono scomparse dal tavolo in questione una dopo l’altra. Obama ha le mani legate, o se le è legate da solo, al punto che ormai le scelte sembrano ridotte a due: gli Usa dovranno attaccare l’Iran adesso o aspettare più tardi? Devono colpire dopo che l’Iran avrà attraversato quale «linea rossa»? Come si è arrivati a questa restrizione delle possibilità? Come è accaduto che il presidente si sia trovato ridotto, nel caso di fallimento dei negoziati, a variazioni sul tema di chi dovrebbe lanciare l’attacco e quando? Una delle ragioni va cercata nella politica interna. La scelta dell’Aipac come sede delle dichiarazioni di Obama è rivelatrice. Prima della visita ufficiale di Netanyahu, altri uomini politici israeliani si erano serviti di interviste rilasciate a giornalisti americani per trasmettere un messaggio minaccioso. Tra le righe si leggeva che se gli Stati Uniti non avessero attaccato l’Iran lo avrebbe fattoIsraele – e lo avrebbe fatto molto presto, anche in assenza di una compartecipazione americana. I politici in questione avevano addirittura lasciato intendere di avere una scadenza per l’attacco. Il ministro della Difesa Ehud Barak, ha dichiarato al New York Times di temere, entro circa un anno, l’ingresso dell’Iran in una «zona di immunità» che priverebbe di efficacia un eventuale attacco israeliano volto a bloccare il programma nucleare. Con il sottinteso che, per prevenire un attacco unilaterale israeliano con le drammatiche conseguenze che questo comporterebbe per la regione e per il mondo intero, gli Stati Uniti dovrebbero attaccare entro i prossimi dodici mesi. C’erano, è vero, buoni motivi per dubitare della fermezza della decisione israeliana in merito a un’aggressione unilaterale. Alcuni di quegli stessi uomini politici non sono nuovi a queste minacce. Per esempio, nel 2010 avevano indicato al giornalista di The Atlantic Jeffrey Goldberg il maggio 2011 come scadenza di unpossibile attacco. Una sfida che naturalmente non si è concretizzata. E più di recente lo stesso Goldberg ha fatto capire di considerare le minacce israeliane un puro flatus vocis. Sembra dunque possibile che la politica israeliana non abbia intenzione di spingere per un attacco contro l’Iran da parte di Israele, bensì da parte degli Stati Uniti, e che le minacce di un’aggressione israeliana siano finalizzate a questo: attirare di fatto gli Stati Uniti in una strada a senso unico verso la guerra, su un veicolo privo di retromarcia. Come dimostrano gli ultimi eventi, il peso dell’influenza israeliana sugli Usa è sufficiente a rendere realistica quest’ambizione, soprattutto perché tale influenza è amplificata dall’appoggio repubblicano a una politica di tipo militarista. Da oltre mezzo secolo vige negli Usa la regola che i presidenti democratici, per quanto guerrafondai possano essere, sono eternamente sospettati di essere troppo «morbidi» nei confronti di questo o quel nemico. Lalobby israeliana e i suoi alleati, alcuni dei quali fanno parte del comitato elettorale del presidente, si sono fatti portavoce di quest’accusa. La rielezione è chiaramente una delle poste in gioco sul tavolo della crisi iraniana. Da una parte, Obama ci tiene a evitare di dare un’impressione di «debolezza»; dall’altra, vuole scongiurare una guerra in prossimità della scadenza del mandato, perché potrebbe avere conseguenze disastrose per la sua rielezione. Il compromesso raggiunto – niente guerra per adesso ma con l’impegno di una guerra in seguito, nel caso di fallimento dei negoziati – è servito per ora a portare a casa il risultato. Eppure all’opera ci sono anche correnti più profonde dei meri calcoli politici. Un indizio per capirle si può cercare nella cospicua e sorprendente analogia, già sottolineata da molti osservatori, tra la politica di Obama nei confronti dell’Iran e quella, dieci anni orsono, di George W. Bush verso l’Iraq. Come Bush, Obama sospetta che il paese sviluppiarmi nucleari. Come Bush, lo ritiene inaccettabile. Come Bush, esclude una soluzione di contenimento ispirata al vivi e lascia vivere. E soprattutto, come Bush considera la crisi particolare in questione (l’Iraq per Bush, l’Iran per Obama) come una schermaglia all’interno della causa globale e storica per contrastare la proliferazione degli armamenti nucleari e di distruzione di massa. Come ha sottolineato Tom Engelhardt nel suo Tomdispatch.com, Obama è un esponente ancora più puro, rispetto a Bush, di questa politica. Bush infatti si era affannato, seppure con scarsa plausibilità, per trovare una connessione tra il paese reo (nel suo caso l’Iraq) e la difesa diretta degli Stati Uniti (ricorrendo addirittura alla stravagante affermazione che i missili teleguidati iracheni avrebbero potuto colpire il territorio americano). Obama invece non evoca alcuna minaccia concreta, e fonda senza riserve le sue argomentazioni in favore della guerra esclusivamente sulla causa della nonproliferazione. Lo sentiamo battere su questo tasto in un’intervista concessa di recente al solito Goldberg, il quale gli aveva chiesto se ritenesse necessario muovere guerra all’Iran anche nel caso in cui Israele «non facesse parte del quadro». La sua risposta è affermativa. Gli obiettivi della non proliferazione sono più che sufficienti. Come ha spiegato nel discorso all’Aipac, «un Iran dotato di armi nucleari minerebbe alla base quel regime di non proliferazione per costruire il quale ci siamo spesi in tanti». Bush ha accompagnato la sua politica con badilate di retorica neoimperialista, elemento che in Obama è assente, ma i fondamenti delle loro politiche sono simili: una militarizzazione del disarmo, che porta a una strategia che potremmo sintetizzare nell’espressione «guerre di disarmo». Le guerre di disarmo si profilano o si verificano quando la forza diventa lo strumento elettivo nell’azione preventiva contro la proliferazione di armi di distruzione di massa. Ciònonostante sarebbe troppo semplicistico concludere che Obama non ha fatto altro che ereditare la politica di Bush. Oltretutto, non è in realtà Bush l’inventore di questa strategia. Si tratta di una distinzione risalente a Bill Clinton che nel 1993, in un’occasione ampiamente dimenticata, arrivò sull’orlo di una guerra per impedire che la Corea del Nord si dotasse di armi atomiche. In quel caso erano già presenti tutti gli elementi ormai familiari nelle crisi irachena e iraniana: un paese che minacciava di dotarsi di armi nucleari (cosa che fece, nel 2006), sanzioni internazionali in conformità alle risoluzioni delle Nazioni Unite, scontri con gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), pressioni crescenti da parte di una «comunità internazionale» a guida americana, rischio di una guerra su larga scala e, per finire, disperati sforzi diplomatici dell’ultima ora. Un analogo tentativo in extremis, che nel 1993 si dimostrò efficace, fu intrapreso dall’expresidente Jimmy Carter, il quale all’ultimo momento intervenne come mediatore per trovare un accordo con la Corea del Nord. Ma prima di questo tentativo, l’amministrazione Clinton aveva seriamente considerato l’ipotesi di una serie di attacchi militari su larga scala. Quella strategia fu denominata «Opzione Osirak», nome ispirato all’attacco israeliano del 1981 contro un reattore nucleare iracheno. Malgrado nessuno all’epoca potesse dire con certezza se la Corea del Nord avesse o meno le armi atomiche, la guerra in questione aveva il potenziale per trasformarsi in una guerra nucleare. In altre parole, le guerre di disarmo non sono un’invenzione di Barak Obama e neanche di George Bush; sono «sul tavolo» della politica americana da almeno due decenni. Il fatto è che – attraverso un processo di accumulazione passato quasi inosservato e iniziato subito dopo la fine della guerra fredda – gli Stati Uniti sono passati, per la prima volta nell’era del nucleare, a una politica di ricorsoalla forza per arrestare la proliferazione. Una svolta, notata da pochi, che ha bruscamente invertito la rotta di una politica generale diametralmente opposta in vigore da lungo tempo. Tutti gli sforzi per la non proliferazione compiuti non solo dagli Stati Uniti ma anche da altri paesi (l’eccezione che conferma la regola è quella dell’aggressione israeliana a Osirak) sono stati condotti unicamente con armi politiche, nella gran parte dei casi mediante gli sforzi della diplomazia. Nessun presidente aveva mai fatto ricorso alla forza per fermare la proliferazione. Il trionfo globale di questa politica universale è stato il Trattato di non proliferazione nucleare proposto alla firma nel 1968, in base al quale cinque nazioni (Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito, Francia e Cina) ottenevano temporaneamente il permesso di possedere armi atomiche mentre tutti gli altri Stati firmatari, che oggi assommano a 184, vi rinunciavano volontariamente. Il doppio standard era tollerato perchéle cinque potenze nucleari si impegnavano a sbarazzarsi, nel tempo, dei loro arsenali. Questo importante consolidamento della politica di non proliferazione mediante strumenti diplomatici fu di fatto sollecitato soprattutto da una crisi della proliferazione che sotto molti aspetti ricorda quelle più recenti dell’Iran e della Corea del Nord: il primo test atomico cinese nell’ottobre del 1964. In quegli anni il capo di Stato cinese Mao Zedong era, agli occhi dell’Occidente, il Saddam Hussein o il Mahmud Ahmadi-Nejad del suo tempo. Era il capo di Stato temuto, irresponsabile ed estremista di cui non ci si poteva fidare e che non doveva dotarsi di armi nucleari, e lo si riteneva completamente diverso dai leader sovietici, ormai considerati ragionevoli e responsabili. Mao, che era effettivamente un leader piuttosto radicale, aveva scioccato il mondo accennando con disinvoltura alla possibilità di uno sterminio nucleare. Aveva per esempio dichiarato: «Quanto alla Cina, se gli imperialistidovessero farci la guerra, potremmo perdere 300 milioni di persone. E con ciò?» (Tuttavia, appena avuta la bomba adottò una politica nucleare estremamente conservatrice e improntata alla massima cautela, a cui si attiene tuttora la Cina. Come ha spiegato lo studioso Francis Gavin, i test cinesi spinsero l’amministrazione americana a riconsiderare in toto le politiche per la non proliferazione. Fu presa in esame – e respinta – anche la guerra di disarmo, cioè la strategia politica di oggi. L’America scelse invece di adottare una linea che finì per portare al Trattato in questione, e che fu perseguita ininterrottamente fino alla fine della guerra fredda. Da allora, come del resto anche prima, gli Stati Uniti esclusero il ricorso al conflitto armato come risposta alla proliferazione. Perché dunque è stata abbandonata una politica dimostratasi così efficace? Perché un’epoca universalmente riconosciuta come un periodo di fortissime tensioni (la guerra fredda) fu accompagnata da politichedi disarmo pacifiche, mentre un periodo fondamentalmente rilassato (il dopo-guerra fredda) è stato accompagnato dal ricorso a strategie bellicose? Una ragione è sicuramente un’idea quasi universalmente accettata: dopo il crollo sovietico, gli Stati Uniti si sono trovati, in quanto «unica superpotenza» dotata di una insuperabile potenza militare, nella posizione di imporre al mondo la propria volontà. Non si è voluto capire che c’era un mondo post-coloniale capace di opporre resistenza alla potenza militare americana, anzi alle soperchierie di qualsiasi grande potenza. Ma c’è un altro motivo, più importante, che riguarda lo sviluppo del pericolo nucleare in quanto tale. Fin dai primissimi tempi dell’era nucleare, i più avvertiti – e in particolare gli scienziati atomici del Manhattan Project – avevano compreso che la proliferazione non era un aspetto accessorio del nucleare ma ne costituiva di fatto l’essenza. Bastava guardare i numeri dei partecipanti al progetto, che comprendevanorifugiati da una mezza dozzina di nazioni, per capire che quello che potevano fare loro nel New Mexico poteva essere fatto ovunque da altri. Questa convinzione trovò la prima conferma con il test sovietico del 1949. L’origine del pericolo nucleare infatti è frutto delle conquiste scientifiche; e la tendenza alla propagazione, insita nella natura stessa delle scoperte della scienza, non può essere arginata. Con il passare del tempo è destinata ad estendersi a tutte le nazioni. Quello che è stato vero per la valvola termoionica, il radar e gli antibiotici è vero anche per la bomba atomica. È il suo destino. Come la pioggia delle Beatitudini, anche il know-how del nucleare scende sui giusti e sugli iniqui. Ciò non significa che tutti i paesi della terra si costruiranno armi atomiche. Ma significa che a lungo andare qualsiasi nazione (e alcuni gruppi che non rappresentano una nazione), volendo, potrebbe farlo. Oggi si calcola che più di cinquanta Stati ne avrebbero la possibilità, ed èun numero in continuo aumento. La conclusione che ne consegue è chiara: nell’era nucleare, la sicurezza non può essere garantita dal fatto che alcuni paesi non possono costruire la bomba (prima o poi potranno farlo tutti), ma dalla loro scelta di non farlo, quella che in effetti hanno compiuto sottoscrivendo il Tnp. Per di più, essendo una scelta che non può essere fatta una volta per tutte, dev’essere costante nel tempo e restare valida nel lungo periodo. Nei primi decenni dell’era nucleare tuttavia queste verità elementari sembravano offuscate. In parte perché, per quanto inarrestabile, la proliferazione delle conoscenze scientifiche necessarie era molto lenta. Per diversi decenni la tecnologia nucleare rimase alla portata solo delle grandi potenze, le quali coltivarono l’illusione che il «club del nucleare» come avevano finito per chiamarlo, potesse restare a numero chiuso. In una certa misura, anche la divisione del Trattato di non proliferazione in due categorie di nazioni –gli Stati con l’atomica e gli Stati senza atomica – rifletteva questa illusione. Ma il fattore più importante fu l’avvento della guerra fredda, che scatenò la colossale corsa di americani e sovietici verso armamenti in grado di distruggere il mondo intero. Il dilemma nucleare finì quindi per indossare quella che potremmo definire la maschera bipolare, che ne occultò l’essenza multipolare. Di fronte allo smisurato pericolo rappresentato dalle due superpotenze, la proliferazione – un termine che finì per indicare soltanto le potenze minori che avrebbero potuto aspirare a entrare nel circolo – sembrava una preoccupazione secondaria. Anzi, il rischio nucleare sembrava così intrinsecamente associato alla guerra fredda che quando questa finì molti commisero l’errore di pensare che con essa finisse anche il pericolo atomico. Non riuscivano a rendersi conto che in realtà solo allora tale rischio cominciava a raggiungere quella forma matura a cui era destinato fin dalla nascita, per estendersia tutte le latitudini; e che l’emergere di questo fatto esigeva un netto ripensamento della politica nucleare, una riflessione profonda quanto e più di quella intrapresa in precedenza. Perciò gli statisti si sono accorti con una certa sorpresa, dopo il 1989, che il rischio nucleare non apparteneva affatto al passato. La questione fu riportata bruscamente alla loro attenzione dalle decisioni prese in posti come P’yôngyang, Delhi, Islamabad e Teheran. Per qualche tempo la bomba era stata una specie di accessorio delle superpotenze, riservata all’élite del pianeta. Adesso invece si diffondeva nei vicoli più oscuri del mondo, come era stato predetto molto tempo prima, e qualsiasi delinquente avrebbe potuto metterci le mani sopra. Eppure la verità è che il problema della proliferazione non è un elemento andato ad aggiungersi al dilemma nucleare nel 1990, tanto per dire una data. È stato al centro di questa sfida fin dalla nascita, ed è anzi il cuore stesso del rischio nucleare. Laproliferazione è il pericolo nucleare, e in realtà lo è sempre stata: dai primi passi del Manhattan Project, quando il primo dei proliferatori, gli Stati Uniti, ha cominciato ad attrezzarsi per preparare e utilizzare la bomba, fino al presente, con l’Iran che bussa alla porta dei paesi dotati di risorse nucleari. È in questa atmosfera che la lunga e feconda tradizione del disarmo per vie diplomatiche è stata messa da parte, per adottare in modo sconsiderato quella del disarmo con la forza. Era la scelta sbagliata – almeno quanto era stata giusta, invece, la scelta del Trattato di non proliferazione negli anni Sessanta. La nuova politica si adattava malissimo alle nuove realtà in via di sviluppo. La nuova era esigeva che gli Stati sottoscrivessero volontariamente un impegno duraturo a rinunciare alle armi nucleari. Ma la forza, per sua stessa natura, non può che imporre una soluzione di breve durata e a volte nemmeno quella. Gli argomenti in favore dell’uso della forza in Iranillustrano benissimo il problema. I raid aerei potranno tutt’al più ritardare il programma nucleare iraniano di un paio d’anni. In compenso, il giorno dopo l’esplosione delle prime bombe sul suo territorio, con ogni probabilità l’Iran si ritirerebbe dal Trattato di non proliferazione, espellerebbe gli ispettori dell’Aiea per avviare un programma di armamenti nucleari disperso sul territorio in modo da eludere ulteriori distruzioni dal cielo. E a quel punto? La guerra con l’Iran è stata presentata come una possibile soluzione a un problema di proliferazione. È molto più probabile che si trasformi in un’immediata catastrofe. Il presidente Obama ha raccontato il suo incubo: un Iran dotato di armi nucleari innescherebbe una disordinata corsa al nucleare in tutto il Medio Oriente. Eppure, questo sembra essere esattamente l’esito più probabile e immediato di un’aggressione militare. Se l’Iran avviasse un programma accelerato per costruire la bomba in fretta e furia, perché gli altri paesidel Medio Oriente dovrebbero aspettare la sua riuscita? In altri termini, una guerra di disarmo – qui o altrove – ha ottime probabilità di provocare proprio l’esito che si prefigge di prevenire. In questa situazione, una politica militare seria dovrebbe puntare al rovesciamento del governo iraniano e a una duratura occupazione del paese, l’unico obiettivo in grado di garantire un risultato più permanente. Un cambiamento di regime è il corollario indispensabile di qualsiasi guerra di disarmo che si rispetti. Ma anche solo prendere in esame un’idea così strampalata, sconsiderata, devastante e autodistruttiva come l’occupazione permanente dell’Iran da parte degli Stati Uniti, specie all’indomani del fiasco iracheno, significa respingerla immediatamente. Ed è ancora più certo che una follia di tal genere, improponibile anche in un caso simile, non potrebbe mai costituire la base di quella politica globale per la non proliferazione di cui abbiamo bisogno. Il presidente Obama, bisognadirlo, ha lasciato intendere di essere consapevole della futilità della sua recente politica militarista. Come ha dichiarato a Goldberg, «voglio mettere in chiaro quanto sia importante per noi capire se questa faccenda si può risolvere in permanenza, anziché in modo temporaneo. Storicamente, le uniche occasioni in cui un paese alla fine ha deciso di non dotarsi di armi nucleari anche in assenza di un continuo intervento militare, sono quelle in cui il paese in questione ha deciso spontaneamente di rinunciare all’opzione». Per fortuna abbiamo a portata di mano una politica alternativa di non proliferazione. Consiste nel tornare – lavorando per ampliarla, approfondirla e portarla alla sua logica destinazione – alla precedente strategia di non proliferazione e di controllo degli armamenti per via diplomatica e con altri strumenti politici. La logica destinazione, che è essenziale perseguire se si vogliono davvero fare dei passi avanti, è quella non a caso abbracciata dallo stesso Obama– per quanto come obiettivo a lungo termine – nel discorso tenuto a Praga nell’aprile del 2009: un mondo privo di armi nucleari. Questa politica dovrebbe procedere a tre livelli: locale, regionale e globale. La sua applicazione più saliente sarebbe, com’è ovvio, la crisi iraniana. Gli elementi chiave di un accordo imperfetto ma del tutto accettabile dovrebbero essere: consentire all’Iran l’arricchimento del combustibile nucleare in cambio dell’assoluta trasparenza dei programmi nucleari anche del passato e dell’accettazione di ispezioni e controlli severissimi per impedire che l’arricchimento dell’uranio raggiunga un livello compatibile con l’arma atomica. Si tratta di un accordo imperfetto, perché ignora le molte frodi ai danni dell’Aiea, e accetta programmi di arricchimento che, qualsiasi altra cosa un paese decida di fare o non fare, portano a compiere molti passi in direzione della capacità di costruire armamenti nucleari. Ma è accettabile perché raggiunge l’obiettivo diprevenire la costruzione della bomba iraniana. A livello regionale, si tratta di perseguire l’obiettivo di un Medio Oriente privo di armi nucleari, rispondendo alla richiesta della Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione del 2010. Se siamo fortunati, l’accordo con l’Iran potrebbe risolvere la crisi attualmente in corso, ma nel lungo periodo il monopolio nucleare di Israele è insostenibile. Prima o poi ci sarà una nazione che cercherà di sfidarlo, e a quel punto torneranno in gioco tutte le scelte della disperazione – quella gamma ristretta di alternative che portano tutte al disastro. E la prossima volta potrebbe non esserci alcuna possibilità di accordo. A livello globale l’obiettivo non può che essere un mondo privo di armi nucleari. Un tale obiettivo è sempre stato un imperativo morale fin dai primi giorni dell’era atomica, quando il presidente Harry Truman propose alle Nazioni Unite l’abolizione del nucleare, sotto forma del piano Baruch. Oggi però èdiventato una necessità assoluta, per una serie di ragioni. Perseguire attivamente questo scopo – non come «sogno» ma come progetto – apre la via a un vasto campo di azioni indispensabili per bloccare la proliferazione e avviare il rientro. Attualmente, quando si tratta di fermare la proliferazione, la «comunità internazionale» si divide. Gli Stati Uniti e l’Europa non vedono l’ora, mentre Cina e Russia recalcitrano. L’America vuole impedire l’arricchimento dell’uranio in Iran ma i centoquindici paesi del movimento non allineato, volendo preservare il loro diritto all’arricchimento, sono cordialmente contrari. Tutti sanno che il cosiddetto «controllo degli armamenti», cioè la riduzione degli arsenali russi e americani, è essenziale ai fini della non proliferazione, ma gli sforzi diplomatici nel primo ambito avvengono in un universo separato e distinto rispetto a quelli di questo secondo obiettivo. Questi tentativi impacciati e divisi non possono che portare a risultati esigui. Laprima esigenza oggi è riunire queste due strategie in un unico impegno comune, per dar vita a uno sforzo concertato che si ponga come obiettivo lo smantellamento di tutte le armi atomiche. Si possono immaginare diverse forme. Il passo più importante sarebbe la decisione negoziale, da parte delle potenze nucleari attuali, di rinunciare ai propri arsenali atomici. Il secondo consisterebbe nel trasformare gli sforzi per la non proliferazione, che oggi si riducono a una partita improvvisata tra quelli che hanno voglia di giocare, in un impegno concertato per realizzare un obiettivo comune. Il controllo degli armamenti e la non proliferazione dovrebbero rinforzarsi a vicenda. In questo modo gli Stati che non hanno l’atomica, vedendo profilarsi la fine dei due pesi e due misure, agirebbero in accordo con le nazioni che attualmente ne sono dotate. Questa politica, pur non comportando più l’arroccamento in difesa del doppio criterio, non sarebbe priva di una certa «forza»: la forza dellavolontà comune di tutti i popoli della terra, finalmente allineati al loro governi, di vivere liberi dall’ombra del pericolo nucleare, che sia nelle mani dei possessori o dei proliferatori. Il presidente Obama ha detto che sul tavolo ci sono ancora tutte le opzioni, sia nei negoziati con l’Iran in particolare, sia per quanto riguarda la proliferazione nucleare in generale. Queste opzioni sono davvero ancora disponibili? di Jonathan Schell, da MicroMega 4/2012 -traduzione di Anna Tagliavini
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