La vicenda della cosiddetta abolizione del Senato necessita di alcune precisazioni. Innanzi tutto è da contestare in radice l’argomento in virtù del quale il superamento della camera alta del Parlamento italiano trovi giustificazione nelle ragioni economiche: soltanto un quinto circa dei 540 milioni annui di costi totali di Palazzo Madama è infatti imputabile al costo “vivo” dei senatori; i restanti 400/450 milioni non verrebbero scalfiti dalla riforma. Per ottenere risparmi di pari o maggiore entità sarebbe sufficiente non assegnare la quota di seggi corrispondente alla percentuale di astensionismo registrato nelle consultazioni elettorali di ogni livello istituzionale. Considerando che nel 2013 gli elettori astenuti raggiunsero il 25% e che lo stesso principio potrebbe essere applicato, quindi, anche alla Camera è facile comprendere quale sarebbe la ben più consistente entità del risparmio per il contribuente. Maggiori economie che,peraltro, non verrebbero conseguite a detrimento della partecipazione democratica – cioè, come insiste l’attuale governo, con l’abolizione di una camera elettiva – ma con uno straordinario recupero di passione etico-civile ottenuto grazie alla proiezione istituzionale (i seggi vuoti) dell’astensionismo. Il fatto che non si sia voluto seguire questa strada è la prova più evidente di quanto la ratio della furia riformista governativa non siano i risparmi per le casse pubbliche o il taglio (anche a fini demagogici) dei privilegi della casta, bensì lo smantellamento progressivo della partecipazione democratica alla vita politica. La sottrazione di fette consistenti di sovranità al popolo è il vero obiettivo di questo esecutivo e dei suoi mandanti. La previsione, nella già varata riforma elettorale, di liste bloccate e di soglie di sbarramento proibitive per le liste portatrici di programmi e progetti dal forte contenuto identitario od ideologico si inserisce in un coerente pianodelle oligarchie burocratiche – delle quali l’esecutivo è diretta derivazione – di mortificazione del coinvolgimento emotivo degli strati più critici e meno permeabili ai richiami degli ormai indistinguibili grossi contenitori elettorali. Un preoccupante quadro completato, sul versante istituzionale, dalla altrettanto demagogica abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, di un altro organismo di rilievo costituzionale che tra i suoi compiti ha quello – evidentemente intollerabile per un governo allergico alla dialettica sociale e ai tavoli negoziali – di promuovere l’elaborazione della legislazione economica e sociale. Invece di modificarne le funzioni, prevedendo pareri vincolanti per i destinatari delle sue attività, si è deciso di adottare la soluzione più comoda, banale e mediaticamente più redditizia, che tuttavia denota l’imbarazzante incapacità di produrre soluzioni politiche e di dimostrare di saper curare il paziente e non ucciderlo. L’abilitàcomunicativa (leggasi offesa all’intelligenza) in cui l’attuale inquilino di Palazzo Chigi eccelle deve essere combattuta a partire, ad esempio, dall’utilizzo distorto e propagandistico che della parola “democrazia” costui ne fa. L’apparato partitico di provenienza del nuovo “segretario fiorentino” ha sempre avuto il suo punto di forza nella dialettica e nelle norme che ne regolano il funzionamento. Gli stessi stucchevoli espedienti – a venticinque anni dalla “svolta” della Bolognina – vengono ancora utilizzati per veicolare surrettiziamente l’inscindibilità del binomio riforme-democrazia o quello speculare opposizione alle riforme-conservazione. Chiunque osi opporsi con qualsiasi argomento, sia esso politico, giuridico, sociale od economico, al bluff del riformismo “democratico” viene tacciato di ostacolare il processo ineluttabile delle riforme e quindi di attentare alla democrazia. Un riformismo compulsivo applicato – e non poteva essere diversamente – anche al mondo del lavoro,dove il cosiddetto Jobs Act sembra improntato al nuovo slogan “lavorare a meno, lavorare tutti”. A questo si riducono, in sintesi, le innovazioni (più flessibilità, più precarietà, più produttività, più dividendi, meno diritti, meno retribuzioni) in tema socio-lavorista di un personaggio inquietante, il quale, se non contrastato politicamente, rischia di sacrificare la democrazia, il lavoro ed i diritti che ne costituiscono i retroterra etici sull’altare allestito da quegli stessi poteri che lo hanno innalzato agli onori del premierato e che una volta terminato il lavoro sporco, ma ben retribuito, lo riconsegneranno a quel destino di anonimato dal quale proviene. Stefano De Rosa Il Piccione Viaggiatore ed altre amenità “Siamo alla follia”. «Aiutano i clandestini, cancellando il reato di clandestinità, liberano migliaia di delinquenti con lo svuota-carceri, e arrestano chisalvini e grillovuole l’indipendenza. Siamo alla follia. Se lo Stato pensa di fare paura a qualcuno, sbaglia»,così Matteo Salvini commenta la giornata surreale vissuta nei Palazzi e dagli agenti di commercio della cosiddetta politica italiana. E Beppe Grillo, nel suo giro “Te la do io l’Europa” iniziato a Catania, ha chiosato: "Renzi continua a parlare di me ed io di lui. Ma non siamo due antagonisti. Io non sono l’antagonista di Renzi. I suoi antagonisti sono tre: la democrazia, l’intelligenza e l’onestà. È facile per la gente votare Renzi. Se non siete intelligenti, onesti e democratici votate lui. E’ molto comodo in questo Paese essere disonesti". Intanto lo Spacciatore di riforme e di sonno, appunto il Matteo da Firenze, continua imperterrito nelle sue vacanze europee. Da Londra, dove ha predicato “più flessibilità”nel lavoro italiano (come se in Italia esistesse, il lavo…) e ha chiesto ai vampiri della City di “investire in Italia” (dove ormai anche Pompei si potrà vendere in saldo), è andato a Bruxelles per partecipare, udite udite, al vertice Ue-Africa, chiamato tra l’altro adarrestare la penetrazione della Cina nel continente meridionale. Chissà. Forse nessuno ha informato Renzi che la Cina – come lui stesso peraltro ha chiesto appunto a Londra - è già parte magna negli investimenti esteri che vuole attrarre in Italia. banca cineseUltimo atto: l’acquisto di oltre il 2 per cento sia di Eni che di Enel da parte della “Banca del Popolo”, di Pechino. (E poi qualcuno se la prendeva, al tempo, con Tremonti, fautore dell’imposizione di dazi per frenare l’avanzata dell’economia gialla…). Naturalmente, per di più, nessuno ha informato il flessibile Renzi che dal 1 gennaio 2015 sarà legge in Germania una paga oraria minima pari a 8,5 euro. Mr. Job, è evidente, pensa piuttosto a livellare tutti gli stipendi italiani al livello dei raccoglitori di frutta immigrati e schiavizzati a meno di 3 euro l’ora dopo aver pagato il nostro "paradiso" almeno 6 mila dollari ai negrieri traghettatori. Se Renzi, tuttavia, fa il piccione viaggiatore extraconfini, c’è chicontinua a lavorare per lui. La sua legge per la flessibilità e il precariato, il "Jobs act" va avanti. Il sottosegretario all’Interno Cosimo Ferri, propugnatore della legge che cancella il reato di immigrazione clandestina e depenalizza la coltivazione di droghe leggere, i ministri signore Madia e Boschi, propugnatrici di “riforme fondamentali” rispettivamente quella della pubblica amministrazione (con la cosiddetta “staffetta generazionale”, altro riformemodo per allargare il buco di bilancio) e quella di un inutile Senato delle autonomie (148 signor nessuno pilotati dalle segreterie di partito e dal “cartello” dei senatori di nomina presidenziale). Insomma: è sempre più evidente che l’attuale è un governo a termine, inventato soltanto per traghettare il sistema oltre le elezioni europee, per poi gridare al boicottaggio delle "riforme" (sic) annunciate e andare al voto tra destra e sinistra del partito unico liberaldemocratico e incassare il consenso di un popolo teledipendente ecloroformizzato.m.l.
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