Un Senato delle categorie (o... corporativo)?
 











Il fervore riformistico che, nella “crisi” in cui è impantanato il Paese, sembra accomunare al momento (quali che siano le rispettive intenzioni nascoste) buona parte delle forze politiche, solitamente conflittuali, di centrodestra e centrosinistra, ha investito con particolare energia il Senato, del quale si vorrebbe radicalmente cambiare fisionomia quanto a composizione, prerogative e funzioni, in modo da superare quello che viene chiamato il “bicameralismo perfetto” (ammesso che effettivamente lo sia) del sistema rappresentativo italiano. Se tale in pratica è diventato, infatti, esso originariamente non lo era, dal momento che il primo dettato costituzionale, pur prevedendo due camere con compiti uguali, per la diversa durata dei mandati (6 anni per il Senato e 5 per la Camera) e per la diversa età minima prevista per elettorato attivo e passivo (25 e 40 per l’uno, 21 e 25 per l’altra) finiva per configurare una camera seniore di controllo. Ma èpur vero che lo sfalsamento della durata delle Camere non ebbe mai a verificarsi e fu formalmente cancellato nel 1963.
Ad ogni modo, comunque si consideri quest’aspetto della cosa, in altri tempi il progetto di riforma oggi concepito, per le importanti novità che apporta nel quadro istituzionale, sarebbe stato sicuramente accompagnato da un intenso impegno intellettuale da parte del mondo della cultura (tale da aiutare e orientare quello della politica, la quale d’altro canto lo avrebbe esplicitamente richiesto); da un impegno non limitato, cioè, come sta invece avvenendo, alle argomentazioni (accolte con disappunto e sufficienza dai frettolosi “riformisti”) di pochi noti studiosi che, per la loro risaputa “devozione” alla carta costituzionale, ritengono di doverla difendere da possibili pericoli e addirittura da tentazioni autoritarie che i cambiamenti annunciati, a loro dire, favorirebbero. Mancano, cioè, oggi (al di fuori delle rumorose voci dei giovani politici del “fare”guidati dall’attuale pimpante Presidente del Consiglio e di quelle ad esse contrapposte, che quotidianamente si esibiscono, moderate da solerti “conduttori” dell’informazione, sulle varie scene mediatiche), contributi intellettuali rigorosi sotto il profilo teorico, sostenuti da opportuni riferimenti storici, immuni da faziosità, capaci quindi di dare alla riforma del Senato il significato di un evento inscritto in una vera e propria ristrutturazione dei rapporti oggi tanto degradati tra politica e società.
Una carenza culturale, questa denunciata, che non permette tra l’altro ciò che altrimenti sarebbe possibile, ovvero un originale apporto, almeno in termini di inventiva e originalità, in seno ad una Europa da cui passivamente l’Italia recepisce, in ogni campo, qualsiasi modello e ordinamento, dal più perspicace al più ottuso. D’altronde, non solo in merito all’argomento qui trattato, bensì in termini molto più generali, è costatabile, come qualcuno ha opportunamente evidenziato,come sia pressochè assente nel mondo occidentale (sebbene interessato da fenomeni di decadenza persino più seri della perturbazione economica in cui da tempo si trova) una profonda “cultura della crisi” che, non fermandosi alle superficiali e timide analisi incapaci di scalfire, nella sostanza, il quadro del “politicamente corretto” e del paradigma economicistico dominante, faccia intravedere nuove prospettive.
Quale meraviglia, perciò, se, in piena crisi anche della cultura (invertendo la precedente espressione), qui in Italia non si sa dare ad una riforma importante e significativa come quella del Senato il senso di un’operazione di ben più ampio respiro rispetto alle solite piccole, miopi e strumentali  operazioni partitiche?
L’assenza di un dibattito alto, consapevole dei nessi tra il tema della riforma del Senato e quelli della democrazia, della partecipazione, della competenza, del rapporto tra rappresentanza e società civile, eccetera, è dunque essa stessa il segno diuna condizione in cui il “riformismo” di cui tanto si parla resta molto al di qua di un serio progetto rivolto al futuro di una comunità sempre più lacerata, mentre svanisce la sovranità dello stato nazionale ed istituzioni comunitarie dedite esclusivamente a logiche burocratiche ed economicistiche (e forse anche prone a giganteschi interessi finanziari) mettono a rischio lo stesso originario nobilissimo progetto europeo. Così, la perdita di sovranità, anziché essere un processo positivo, coordinato con la progressiva costruzione di una realtà sovranazionale in cui essere attori creativi, è invece divenuta per l’Italia condizione mortificante in cui si evidenzia il suo stato di passiva dipendenza; per cui è inevitabile che una riforma portante come quella del Senato sia presentata solo come un’opportunità per snellire l’attività legislativa o per ridimensionare (quasi essa avesse davvero un’incidenza significativa in tal senso) i costi della politica.
Certamente ben altro lavoroteorico sarebbe stato espresso, si diceva, in anni ormai lontani, quando il dogma dell’economia liberista, da un certo momento nella sua forma globalizzata, non si era ancora imposto, con la forza che oggi lo distingue, sulle società dei paesi europei, sino a spegnere, insieme alle vituperate ideologie novecentesche, l’appassionato impegno teorico e pratico di tanti acuti ingegni capaci, pur dai rispettivi angoli visuali, di un quadro d’insieme della realtà socioeconomica, politica, culturale. Ciò in costante riferimento dialettico ad una Costituzione segnata anche essa (pur nella sua connotazione antifascista, quindi antiorganicista, e nonostante il suo composito retroterra culturale) da un disegno abbastanza coerente sul piano ideale ed etico oltre che politico, lacerando il quale, a danno della stessa e dell’intera nazione, si sarebbero però progressivamente affermate tutte le peggiori espressioni della partitocrazia, da cui oggi, nella drammatica condizione in cui versa il Paese,si tenta faticosamente (con quanta sincerità non è dato sapere) di uscire.
Esempio di penetrante analisi, di sicuro interesse, al di là delle contingenze storiche che lo segnano, per i suggerimenti che ancora può dare riguardo all’annunciata riforma istituzionale, appare, sia pure a distanza di decenni (è del 1971, in «Nuovi Studi Politici»), un confronto di grande rilievo scientifico tra tre studiosi del calibro di Ugo Spirito, Salvatore Valitutti, Antimo Negri in merito al concetto stesso di democrazia: quale la più autentica e idonea forma di rappresentanza? Una domanda di grande attualità oggi che, di fronte a partiti profondamente trasformati rispetto a quelli novecenteschi e per giunta in crisi di credibilità, si fa sempre più sentire, in forme nuove e con gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie di comunicazione, la società civile.
Secondo Ugo Spirito (al quale il tradizionale conflitto tra scienza ed opinione tanto più sembrava riproporsi nella frattura tra competenzae politica quanto più spiccata rispetto ad oggi era, ai suoi tempi, la connotazione ideologica del partito) era necessario individuare ed esaminare organismi e istituti diversi da quelli dell’ordinario bicameralismo parlamentare, capaci di favorire l’instaurazione di una società organizzata sulla base delle conoscenze. In un mondo sempre più caratterizzato da problemi richiedenti soluzioni di carattere scientifico e tecnico, lo stesso suffragio universale da parte di un elettorato non differenziato (nell’ottimistico presupposto che vi sia un campo, quello dei programmi corrispondenti ai vari orientamenti ideologici, sul quale tutti abbiano la possibilità di scegliere e di decidere, indipendentemente da preparazione e capacità) appariva al filosofo una formula di democrazia inadeguata. Paradossale, per di più, gli sembrava il fatto che anche i rappresentanti eletti sulla base della loro “competenza ideologica” non dovessero invece avere obbligatoriamente quelle altre particolaricompetenze tecnico-scientifiche per la soluzione dei problemi alla risoluzione dei quali sarebbero stati chiamati. In tale quadro l’incompetenza trionfa a tal punto sulla competenza da produrre una classe burocratica di partito caratterizzata dalla mancanza assoluta di ogni qualificazione, il punto d’arrivo di ciò essendo una politica autoreferenziale, la demagogia, la parificazione dei meriti e l’appiattimento dei valori.
Ora, la trasformazione più idonea dell’assetto parlamentare voluto dalla costituzione repubblicana sarebbe, secondo lo studioso, quella che utilizzasse quali organi rappresentativi il sindacato e la corporazione, nella convinzione che il deliberato silenzio fatto cadere sull’intensa attività di elaborazione di questi istituti giuridici durante tutto il Fascismo, in special modo dal 1926 al 1935, avesse avuto il significato di una involuzione: “In nome della democrazia, il potere legislativo è ritornato alle camere elette dal popolo. Camera dei deputati e Senatosono stati posti sullo stesso piano e il carattere competenziale del vecchio senato è stato completamente abolito. Si parla di doppioni, ma nessuno vi fa caso... Ma un ulteriore processo di degenerazione è stato segnato dall’avvento della partitocrazia, che ha dato luogo, per un verso, all’arbitrio di dirigenti non rappresentativi e, per un altro verso, a un professionalismo politico sempre più discosto da ogni vera competenza”.
E a proposito della differenza tra la rappresentatività del parlamento e quella del sindacato egli aggiungeva: “La differenza fondamentale è data da due fattori... Il primo fattore è rappresentato dalla specifica attività dell’elettore, il quale non è più un essere naturale privo di qualsiasi competenza, ma è un lavoratore impegnato in un compito che vale a qualificarlo. È elettore in quanto lavoratore e non soltanto in quanto uomo. Il secondo fattore riguarda il contenuto della scelta che non ha più come oggetto una ideologia o una concezione del mondo, mal’interesse concreto della difesa della propria attività di lavoratore... L’elettore politico può non sapere e nella massima parte dei casi non sa quello che è chiamato a fare; l’elettore sindacale, invece, non può non sapere il significato di ciò che gli si domanda e che risponde ai suoi interessi espliciti”.
In definitiva, allora, il suffragio universale, in una prospettiva del genere, verrebbe modificato nel senso del principio: «democraticamente ognuno sovrano, ma sovrano nel posto che gli compete per le sue particolari capacità ». Partendo da qui, nel momento in cui si tentasse di risolvere il problema del rapporto tra datori di lavoro e lavoratori superando la contrapposizione delle loro organizzazioni, per Spirito necessariamente si delineerebbero istituti diretti a conciliare gli interessi delle diverse categorie produttive in un quadro di collaborazione, come appunto la corporazione.
Egli, poi, tendendo a dimostrare l’attualità del principio corporativo anche in seguitoad una eventuale “revisione del concetto di proprietà”, riprendeva le riflessioni da lui e da altri condotte nel periodo fascista sul rapporto capitalismo-corporativismo, il cui fine era quello di “forme di proprietà in cui il lavoro assumesse una fisionomia diversa dalla tradizionale e si riavvicinasse alla gestione del capitale, al di fuori del dualismo di datore di lavoro e di lavoratore”. Una delle proposte più drastiche in questo senso era senz’altro quella, già da Spirito prospettata nel Convegno di Studi corporativi di Ferrara del 1932, della corporazione proprietaria, che, con la eliminazione del dualismo classista, qualificava il corporativismo in senso nettamente anticapitalistico e comunista.
Salvatore Valitutti, pur riconoscendo le condizioni in cui il parlamento opera che pongono in crisi “la sua autolegittimazione come organo fedelmente espressivo della volontà popolare” e pur ammettendo la sempre crescente incompetenza dei suoi esponenti, si chiedeva tuttavia serealmente le argomentazioni dei corporativisti possano colpire «le ragioni morali e politiche per cui storicamente il parlamento è sorto e in base alle quali si giustifica». Dopo avere spiegato, inoltre, sulla base di ragioni pratiche, i limiti inevitabili dell’istituto parlamentare, e cioè la sostituzione del principio di maggioranza al principio di unanimità e della democrazia indiretta alla democrazia diretta, egli difende ciò che il neo-corporativismo contesta all’istituto parlamentare, cioè l’astrazione del puro cittadino al di là delle qualificazioni sociali e professionali. Secondo lo studioso: “… il concetto moderno di cittadino ha redento il produttore, perché tutti i membri della società, quale che sia il loro lavoro, sono cittadini di pieno e uguale diritto... Perciò non il cittadino è astratto rispetto al produttore, ma il produttore è astratto rispetto al cittadino, come una parte è astratta rispetto alla totalità... Perciò è una considerazione che si sofferma sullaesteriorità... quella che pretende di identificare l’uomo reale nell’uomo professionalmente qualificato avulso dalla totalità della sua umanità”.
Inoltre, proprio perché gli interessi del soggetto socioprofessionale non esauriscono quelli più ampi, etici e politici, dello Stato, i problemi di tale natura che i gruppi professionali sono incompetenti ad affrontare portano inevitabilmente la rappresentanza corporativa alla fede nell’autorità di capi carismatici i quali essi stessi non attuano il principio della competenza. Dubbi molto seri esprimeva ancora Valitutti sulla volontà di riduzione della vita umana e sociale a vita regolabile con criteri scientifici da parte del neo-corporativismo: “Occorre avvertire che questa tendenza al totalitarismo scientifico minaccia la stessa scienza in quanto scienza esatta, la quale, trasportata fuori del campo in cui è applicabile, e che è il campo della natura, può diventare e diventa sommamente inesatta”.
La necessità per lo studioso liberaledi ribadire l’efficacia dell’istituto parlamentare implicava tuttavia che si dovessero tenere ben presenti le esigenze fatte valere dai corporativisti, nel senso di una rivitalizzazione del parlamento attraverso una radicale rigenerazione dei partiti. Presa ugualmente in considerazione era la possibilità dì trasformare il Senato, da doppione della Camera dei deputati in Camera corporativa, realizzando in questo modo una via di mezzo tra la sua proposta e quella di Ugo Spirito.
Antimo Negri, ammettendo che la democrazia avesse bisogno di un “correttivo” in senso corporativistico riteneva però realmente innovatrice non già la corporazione di tipo fascista, bensì la tesi di
Spirito della “corporazione proprietaria”, volta a superare il dualismo tra privato e pubblico tipico dello Stato moderno borghese e liberale fondato sul principio parlamentare. Riprendeva perciò l’idea di un “corporativismo comunista in concorrenza teorica con il comunismo leninista e con il liberalismo, all’unoobiettando la statolatria e all’altro, invece, l’antropolatria individualistica”.
Nel prendere poi in esame le tesi di Valitutti, Negri riconosceva che «la conquista della dignità politica dell’uomo sia legata alla concezione, decisamente anticorporativistica, dello Stato così come esce fuori dalle riflessioni illuministiche e dalla Rivoluzione francese», alla distinzione cioè tra il citoyen, come uomo di natura, e il bourgeois, come uomo civile addetto ad un lavoro determinato ed inserito in uno stato o in una classe. Ma tale impostazione è chiaramente dualistica dal momento che scava un profondo solco tra vita privata e vita comunitaria e, per trovare una soluzione, Negri andava ad affrontare il problema nella stessa filosofia hegeliana del diritto pubblico in cui il dualismo sopra citato si configura nei due momenti della Società civile e dello Stato; momenti astratti se manca il legame dialettico tra “uomo di mestiere” e “uomo di natura”, tra “uomo frazionario” ed “uomo intero”,ovvero tra “mondo del lavoro” e “mondo politico”.
Con le parole di Marx egli poneva quindi in evidenza il fatto che l’uomo, “per comportarsi come reale cittadino dello Stato, e attingere significato e attività politica, è costretto a uscire fuori della sua realtà civile, ad astrarsi da essa, a ritirarsi da tutta questa organizzazione nella sua individualità; ché l’unica esistenza che esso trova per la sua qualità di cittadino dello Stato è la sua pura, nuda individualità”. Di conseguenza non ha ragione Valitutti, Negri aggiungeva, nel considerare la “totalità del cittadino” opposta alla “parzialità del produttore”: “La “totalità” dell’uomo può, se mai, derivare dall’unità in lui del bourgeois e del citoyen… la conseguenza più importante dell’affermazione di questa unità... può misurarsi da una energica presa di posizione antindividualistica, altro dall’individuo essendo l’uomo che la sua dignità politica se la guadagna attraverso il ruolo civile che svolge nella città degliuomini”.
Insomma, mentre Valitutti lasciava in piedi la differenza tra Società civile e Stato, Negri pensava che fosse la stessa società civile a dover diventare Stato, tanto che, a proposito del mondo medioevale, rivalutava quella che Valitutti aveva chiamato “democrazia della illibertà” (volendo intendere che l’individuo allora non era libero nei gruppi a base professionale). Non si dovrebbe usare come metro, in altri termini, “una libertà che può sollevarsi sugli altari unicamente quando vige la contraddizione, ormai più volte sottolineata, dello Stato moderno”.
Era condiviso, in tal modo, sulla base di considerazioni fondamentalmente filosofiche, il corporativismo di Spirito, visto come punto di arrivo delle critiche sempre più decise all’individualismo settecentesco che da Kant avevano portato a Hegel e Marx; oltre il quale, il filosofo italiano già allievo di Gentile aveva delineato un cammino teorico che dall’idealismo porta ad un nuovo positivismo e da questo alla scienzacontemporanea. L’impostazione spiritiana poteva essere invalidata quindi, secondo Antimo Negri, non già dal discorso anticorporativistico e filoparlamentare, bensì dai motivi nuovi in seno alla scienza stessa. Riteneva egli, in altri termini, che la scienza di cui parlava Spirito, modello della forma di rappresentatività corporativa, fosse palesemente di estrazione positivistica e tardo-ottocentesca e che andassero al contrario considerate le radicali trasformazioni e la conseguente instabilità delle scienze del Novecento, viste come quelle che, invece di trasmettere la loro caratteristica di precisione, di universalità, di certezza alle scienze umane, sarebbero state da queste ultime al contrario influenzate. Ecco quindi che allora “l’ipostasi individualistica ritorna in primo piano e, con essa, la possibilità... del “litigio” tra i cultori delle scienze, naturali e umane che siano”. Conclusioni che sembravano riproporre allora, quasi come “male necessario”, per Antimo Negri, lo Statodemocratico-parlamentare.
Una discussione di alto livello culturale, quella qui condensata in forma estremamente divulgativa, che, com’è evidente, anche se complessivamente “datata”, offre ancora molti importanti argomenti in merito all’interessante questione della riforma dell’assetto rappresentativo italiano.
Escludendo dalle argomentazioni dei tre studiosi, in quanto improponibile nella realtà attuale, quanto attiene al disegno, in diversa misura e con diverse modalità, di una rappresentanza parlamentare di tipo sindacale (con sindacati che non hanno mai accettato nemmeno il loro riconoscimento giuridico previsto dall’articolo 39 della Costituzione!) e corporativo in senso stretto (se si considera lo stravolgimento, in funzione antifascista effettuato nel corso dei decenni, persino del significato della “corporazione”); a maggior ragione è da ritenere oggi una pura esercitazione teorica il vagheggiato superamento in senso anticapitalistico della rappresentanza corporativastessa da parte di Negri. Molto sofisticate, nell’ambito delle non elevate discussioni odierne, anche le riflessioni dei tre autori sulla scienza quale modello o meno della competenza in ambito parlamentare.
Nonostante tutto questo resta il fatto che al fondo delle loro argomentazioni, sia pure di matrice ideologica diversa, c’è la comune consapevolezza che un assetto parlamentare che chiami in causa come elettorato attivo e passivo, o anche come personale nominato, soltanto individui astratti dalle loro concrete funzioni lavorative e professionali (che non siano quelle legate al mestiere della politica) non basta a rappresentare la società civile, di cui pure tanto si ama parlare. La quale sempre più stenta oggi a riconoscere quali interpreti della sua fisionomia sociale e culturale, delle sue dinamiche economiche, partiti che se non offrono più i coerenti ma forse troppo rigidi modelli politici su base ideologica di una volta non sanno tuttavia operare nell’interesse dellacomunità nazionale con una più empirica progettualità che non sia caotica, contraddittoria, conflittuale o comunque sottomessa, al di là delle diverse etichette in campo, ad un’idea liberista piegata alle logiche dei poteri finanziari globali e a poteri burocratici sovranazionali privi di qualsiasi legittimazione democratica.
In tale contesto, le forze di effettiva opposizione sicuramente intercetterebbero bisogni reali della società civile se, almeno in senso lato e magari con un linguaggio nuovo, facessero propri motivi dell’idea corporativa (abbracciati, come si è visto, non solo da “comunisti” gentiliani come Spirito e Negri, ma anche dal liberalissimo Valitutti) capaci di tradursi nella proposta di una trasformazione del Senato in una camera di rappresentanza della società civile nelle sue diverse articolazioni economico- sociali e culturali. Anche qualora non elettivo (così come si configura la nuova assemblea dei senatori nell’attuale progetto dei “riformisti”) e investito disole funzioni consultive, un tale organo avrebbe sicuramente più senso di quello che viene oggi concepito quale sede dei rappresentanti delle autonomie locali, ovvero quale espressione, pur sempre politica, del “partitismo” comunale e regionale. Tra l’altro, anche il progetto di abolizione dell’inefficiente Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, di cui si parla, renderebbe assolutamente plausibile un Senato istituzionalmente chiamato anche a compiti di studio, di coordinamento e armonizzazione di quanto attiene all’economia e alla vita sociale. In tale consesso potrebbero figurare anche i rappresentanti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali; ma forse è osare troppo, dal momento che così era… nel Consiglio Nazionale delle Corporazioni, e del fascismo, per definizione, tutto è male assoluto!Alberto Figliuzzi
 

 









   
 



 
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