Renzinomics: un disastro annunciato
 











L’idillio fra Renzi e i mercati finanziari internazionali è durato davvero poco. Non sappiamo ancora se è vera rottura, ma certamente, dopo la stima negativa della crescita del Pil nel primo trimestre dell’anno in corso, le passioni si sono raggelate. Non c’è da stupirsi. Nulla è stato fatto per invertire le cause profonde della crisi italiana, che si sommano a quelle della crisi economica internazionale ed europea.
L’inconsistenza delle promesse di Renzi è stata messa a nudo. Gli atti rilevanti dal punto di vista normativo in campo economico si riducono solo a due, anche se di notevole peso e significato: il Documento di economia e finanza (Def) e il decreto 34/2014 presentato dal ministro del lavoro Poletti.
Guardando soprattutto al secondo, che cronologicamente è giunto prima, si ha una buona visione del cambio di passo che contraddistingue il governo Renzi da quelli postberlusconiani che l’hanno preceduto. E si comprende anche la ragioneper cui quel provvedimento è stato bene accolto dalle cancellerie dei maggiori paesi europei visitati da Matteo Renzi.
Le elites dominanti nella Ue, delle quali Renzi aspira con buone possibilità fare parte, si sono infatti accorte da tempo che la finzione della “austerità espansiva” era diventata uno slogan molto logoro e niente affatto convincente. Ci hanno pensato le varie statistiche ufficiali a seppellirlo. Sono cresciute disoccupazione, precarietà e diseguaglianze e contemporaneamente il debito pubblico. Per questo dal cilindro hanno estratto una nuova illusionistica parola d’ordine, quella della “precarietà espansiva”. Si tratterebbe di dare un colpo definitivo a ciò che resta dei diritti e dei vincoli - a seconda del punto di vista dal quale li si guarda - esistenti e resistenti sul mercato del lavoro e questo darebbe per incanto forza a quei borbottii di fondo che alcuni economisti compiacenti scambiano per segnali di un’imminente ripresa. Gli “spiriti animali” delcapitalismo imprenditoriale tornerebbero ad animarsi e una nuova “distruzione creatrice” sarebbe alle porte. Questa sarebbe la riforma strutturale che più o meno direttamente ci chiede l’Europa e su cui indubbiamente il governo Renzi ha mostrato di porsi con spavalderia alla avanguardia.
Il decreto Poletti interviene sia sui contratti a termine sia su quelli di apprendistato. In entrambi i casi in modo devastante. Nella sostanza, nel primo caso viene fatta sparire ogni causale per l’assunzione a tempo determinato, malgrado quest’ultima fosse già alquanto generica. Si permette invece “l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe”, cinque per l’esattezza, norma che viene estesa anche ai contratti interinali.
Ma i trentasei mesi qui previsti sono piuttosto il limite minimo anziché quello massimo, dal momento che tale limite è superabile per alcune categorie di lavoratori e pertutti qualora intervengano esplicite deroghe all’interno di “contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale”. La famosa contrattazione in peius. Ma non è finita. Il testo del decreto stabilisce che si possono assumere lavoratori con contratto a termine solo entro un tetto del 20% sul complesso dei lavoratori occupati in azienda. La norma in questo caso interviene peggiorando l’esito della contrattazione che già prevedeva un tetto ma in misura inferiore (in media il 10-15% dell’organico) e che peraltro non ha funzionato per la mancanza assoluta di trasparenza sui dati e quindi per l’assenza di controlli. Siamo fuori dalla stessa normativa europea. Da qui la giusta denuncia per inadempienza e violazione di quelle norme lanciata da diversi giuristi.
Il governo finge di non rendersi conto che in Italia da diversi anni la crescita del Pil è assai più bassa della media europea, mentre le ore lavorate per ogni singolo lavoratore sono altissime. Ad esempio inGermania sono 1400 all’anno, in Italia 1800. L’intensificazione dello sfruttamento di pochi e la disoccupazione e la precarizzazione di molti non fa ripartire l’economia. Il tasso di variazione del lavoro temporaneo in Italia, tra il 1990 e il 2012, è del 164%, contro una media europea del 34,5%. La stessa Irlanda, un altro dei paesi Piigs, ha avuto un tasso di crescita del 19.7%. Si può e si deve osservare che in Italia nel 1990 la presenza di lavoro temporaneo era inferiore che in altri paesi - anche se eravamo nel momento del boom dei contratti di formazione-lavoro - e quindi il tasso di variazione è più alto perché parte da livelli inferiori, ma ciò non toglie che ha fatto balzi da gigante, mentre la nostra economia ha continuato a deperire, non malgrado, ma anche grazie, seppure non esclusivamente, alla liberalizzazione e alla precarizzazione nel mercato del lavoro.
La stessa logica distruttiva di ogni garanzia pervade anche la parte del decreto dedicata all’apprendistato. Insostanza il contenuto specifico del rapporto di lavoro di apprendistato viene svuotato. Il datore di lavoro vede invece accresciute le sue convenienze, dal momento che può retribuire il lavoratore con solo il 65% dello stipendio dovuto e nello stesso tempo continua a scaricare quasi l’intero peso della contribuzione previdenziale ed assicurativa sulle spalle dello Stato. Anche questa nuova norma è del tutto al di fuori della normativa comunitaria, poiché non si presenta come finalizzata alla creazione netta di nuovi posti di lavoro, ma casomai allo scambio tra occupazione stabile e occupazione precaria.
Ma la linea di Renzi non si rifà al semplice neoliberismo, ma piuttosto andrebbe definita come social-liberista, ovvero più liberista del liberismo per quanto riguarda il mito della concorrenza e delle privatizzazioni, ma con una certa sensibilità sociale, per evitare ribellioni popolari. Così, mentre si calca la mano sulle controriforme strutturali, si cerca di recuperare consensogiocando la carta della redistribuzione. Ecco quindi comparire la mossa degli 80 euro in busta paga. Una “quattordicesima preelettorale” si è giustamente detto, dal momento che questa non è ancora – né si sa se mai lo sarà - una misura strutturale, ma pur sempre una cifra che nemmeno un rinnovo contrattuale è riuscito a dare da tempo immemorabile.
Sarebbe del tutto sbagliato però limitare la critica al provvedimento renziano - al fatto che esso lascia scoperti i precari, i disoccupati che non ricevono indennità, gli anziani, gli incapienti. Tutte cose indubbiamente vere. Ma c’è dell’altro. Da dove vengono le risorse per garantire questi 80 euro in busta paga? Ed è qui che l’“anima sociale” del social-liberismo renziano torna ad essere più evanescente che reale.
Già a un primo esame del Documento di economia e finanza (Def) la propaganda renziana risulta assai vacillante. Il costo dell’operazione degli 80 euro è per ora stimato in 6,6 miliardi. Se calcolati lungo un intero anno sitratta di 10 miliardi. Le coperture sono previste solo per la parte dell’anno che manca. Si conta di ricavare dalla spending review del commissario Cottarelli 4,5 miliardi, in base a tagli presentati come definitivi; un altro miliardo dovrebbe giungere dall’incremento dell’aliquota al 26% sulle plusvalenze che le banche realizzeranno a seguito della rivalutazione delle loro quote gentilmente concessa in Bankitalia dal precedente governo Letta; il resto è legato ai maggiori introiti dell’Iva generati dal pagamento di circa 40 miliardi di debiti commerciali della Pubblica amministrazione.
Il punto dolente in questo questo quadro è ovviamente rappresentato dalla spending review. Come verrà fatta? Come e da dove verranno estratti i 4,5 miliardi previsti? Qui spesso Renzi è intervenuto per tacitare le imprudenti dichiarazioni di Cottarelli sul taglio di ben 85mila posti di lavoro nella Pubblica amministrazione nel giro di tre anni. “Decido io!” ha ripetuto Renzi, ma simile esternazionedi decisionismo, pur coerente con il profilo del personaggio, non ha tranquillizzato proprio nessuno, neppure i troppo placidi sindacati. In ogni caso, per l’immediato, saranno il pubblico impiego e la sanità ad offrire il maggiore contributo. Il Servizio sanitario nazionale verrà taglieggiato per cifre che oscillano fra uno o due miliardi. Il pubblico impiego, oltre alla misura del tetto dei manager (che riproduce in modo più generoso quella già decisa dal secondo governo Prodi, con eccezione delle società quotate in Borsa, e che venne elusa dai governi successivi), subirà tagli negli stipendi per almeno un altro miliardo. Va ricordato che in questo settore i contratti non vengono rinnovati dal 2010 e che il numero dei dipendenti, come dice il Def, è già in sensibile diminuzione negli ultimi anni; altri 800 milioni deriveranno da tagli lineari di acquisti in tutte le amministrazioni; infine 600 milioni di risparmi dovrebbero giungere dalla Difesa, ma più in termini di riduzione dinuovi arruolamenti che non di acquisti di sistemi d’arma.
Conviene ora guardare anche alla questione Irap, punto nodale della strategia renziana volta ad accontentare tutti, padroni e operai, in modo da fare sparire nei fatti ogni discriminante fra destra e sinistra. Il Presidente del Consiglio conferma un taglio del 10% dell’Irap, probabilmente finanziata con l’aumento dell’aliquota della tassazione delle rendite finanziarie, esclusi i titoli di Stato. Ma qui i conti davvero non tornano: la previsione governativa del costo del taglio della tassa si aggira sui 2,4 miliardi, ma la Ragioneria stima che il gettito della prevista copertura non supererà 1,4 miliardi. Un miliardo che balla dunque e che si aggiunge ad altri che muovono la stampa più informata a prevedere una nuova manovra correttiva del governo nei prossimi mesi attorno ai 4-5 miliardi.
Certo, il governo rilancia alla grande la politica delle privatizzazioni, quindi della vendita delle partecipazioni del Tesoro nellesocietà che contano, come Fincantieri o Eni, con la conseguenza prevedibile che ciò che si incassa oggi, lo si perde moltiplicato per molte volte poi, in termini di diversi milioni di euro all’anno di mancati o minori dividendi. La classica operazione a perdere della vendita dei gioielli di famiglia. Intanto nel Def viene scritto che queste frutteranno 12 miliardi di euro l’anno dal 2014 al 2018, previsione del tutto opinabile poiché non si fonda su alcuna base neppure probabilistica dotata di un minimo di attendibilità.
Del resto, per tornare sulla questione degli 80 euro, non bisogna dimenticare gli effetti prodotti dalle nuove forme di tassazione introdotte dal passato governo Letta. Queste probabilmente si mangeranno nei prossimi otto mesi oltre il 40 per cento del bonus degli 80 euro previsti dal governo Renzi. Se con una mano il contribuente beneficerà dell’aumento mensile con l’altra dovrà tirare fuori 35 euro in più al mese rispetto allo scorso anno, tra l’introduzione dellaTasi e le addizionali Irpef regionali.
Circola uno studio della Uil - malgrado l’entusiasmo filogovernativo del suo segretario generale - che prende in esame il lavoratore medio dipendente, quello insomma che beneficerà del bonus, che guadagna 18 mila euro lordi l’anno e ha una casa di proprietà in una zona semiperiferica. Una condizione modesta e alquanto diffusa, che gli consente di entrare in pieno nel target del governo e di beneficiare del bonus, che con ogni probabilità verrà esposto alle voracità dei Comuni, molti dei quali stanno mettendo in atto aumenti della Tasi e addizionali e delle Regioni che sono costrette a ricorrere al rincaro delle aliquote. Calcolando la spesa sull’intero anno si scopre che il lavoratore dipendente medio si troverà in tasca 640 euro in più ai quali però dovrà sottrarre 278 euro (Tasi più addizionali comunali Irpef) per un totale di 362 euro. Ciò significa la riduzione al 56% dei benefici. Il guadagno in busta paga, dunque, in realtà sidimezzerebbe.
Insomma effetti espansivi non se ne vedono dalla manovra del governo. Anzi. Non c’è da stupirsi, poiché la buona teoria economica ci insegna che le riduzioni della pressione fiscale finanziate da tagli di pari importo della spesa pubblica hanno di norma effetti recessivi. Del resto vi è uno studio del Fmi risalente al luglio 2012 che dice, facendo riferimento esplicito al caso italiano, che un taglio ipotetico della spesa pubblica per 10 miliardi di euro determinerebbe una contrazione del Pil di ben 15 miliardi, mentre una riduzione della pressione fiscale di 10 miliardi non porterebbe ad un aumento del Pil superiore ai 2 miliardi. In altre parole gli effetti espansivi dell’aumento della spesa pubblica, ovviamente fatta con criteri mirati ed innovativi, sono comunque sensibilmente superiori dal punto di vista degli stimoli all’economia di quanto non lo siano le riduzioni della pressione fiscale, che non si traduce mai interamente in nuovi consumi, eviceversa.
Quindi il governo avrebbe dovuto finanziare la misura degli 80 euro in deficit, se avesse voluto compiere una vera manovra anticiclica e dare un autentico sollievo sociale ai redditi più bassi. Ma così non può avvenire per mancanza di cultura economica e per i vincoli imposti dalla Ue e pedissequamente accettati.
Ma tutto ciò non significa ancora che lo stellone di Renzi ne esca del tutto sfocato. Il suo consenso permane se perdura l’insipienza e la debolezza della sinistra d’opposizione. Quella che oggi si raccoglie attorno alla lista L’altra Europa con Tsipra potrebbe diventare finalmente un punto di ricostruzione di una sinistra degna di questo nome nel nostro paese, oltre che portare il suo contributo in Europa. La condizione è che comprenda fino in fondo che la partita non si gioca solo sul terreno della redistribuzione per via fiscale della ricchezza prodotta - sul quale il governo Renzi comanda il gioco e distribuisce le carte - quanto su quello dei rapporti fracapitale e lavoro, ovvero di quanto va al profitto e quanto al salario.
E’ evidente che un simile compito non può essere assunto solo da una forza politica, anche se fosse consistente, estesa e ramificata. Ci vuole un sindacato che riacquisti autorità e potere sulla questione salariale, su quelle della prestazione lavorativa, sulle normative in termini di assunzioni e di mercato del lavoro. L’investimento di speranza fatto sulla Fiom è esattamente questo. Infatti il ruolo politico del sindacato - di cui si è tanto parlato negli anni settanta e che è stato tanta parte del “caso italiano” - privato di questa forza contrattuale si rovescia nel suo contrario. Da elemento di contestazione delle politiche economiche dominanti a elemento subordinato nel governo allargato dell’economia. Paradossalmente il decisionismo renziano che scavalca da destra ogni pratica concertativa, potrebbe essere l’occasione affinché il sindacato ricostruisca le sue ragioni d’essere, la sua mission, e rilanciuna propria capacità di conflittualità, sul terreno europeo e non solo nazionale. Alfonso Gianni

 


 









   
 



 
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