Gianna non è schizofrenica, è fortunata. Ha tanti amici che vanno spesso a trovarla e si intrattengono con lei per ore a parlare di letteratura e poesia, come Pablo Neruda o Cesare Pavese. Giordano Bruno all’inizio era diffidente, si ritraeva perché aveva paura di spaventarla. Alberto Sordi invece non ci ha pensato due volte e la notte stessa in cui è morto era lì, a casa sua, a farsi grosse risate con questa bella signora di 70 anni dal sorriso contagioso, gli accesi occhi azzurri e qualche ciocca ancora bionda. Il problema di Gianna, il suo assillo, è un altro: si chiama psichiatria e contro di essa ha ingaggiato una guerra senza quartiere. Una lotta che in qualche modo è stata anche la sua guarigione. Ma Gianna è fortunata pure per un altro motivo, anche se lei non lo sa: vive a Mantova, una delle città italiane più avanzate nella cura e nel reinserimento sociale dei malati psichici. Qui, trent’anni dopo l’entrata in vigore della legge 180 che chiuse i manicomi eportò la rivoluzione psichiatrica italiana all’avanguardia nel mondo, si può toccare con mano la realizzazione di quell’intuizione visionaria che ebbe negli anni ’70 il veneziano Franco Basaglia: reparti psichiatrici ospedalieri completamente aperti; rifiuto totale e senza eccezioni della contenzione fisica e dell’uso aggressivo degli psicofarmaci; una rete capillare di ambulatori, reparti, centri diurni e riabilitativi distribuiti sul territorio della provincia, al servizio del cittadino, e perfettamente collaboranti tra loro. Non si tratta del regno di una qualche clinica «eccellente» della psichiatria, meta di inutili «viaggi della speranza», ma di «un gioco di squadra di tutta la comunità mantovana, un progetto condiviso cui partecipano operatori, forze dell’ordine, pazienti con le loro famiglie, e l’intera cittadinanza», come racconta il professor Giovanni Rossi, primario del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda ospedaliera "Carlo Poma". Tutto rigorosamente pubblico, nonc’è posto a Mantova per le case di cura private. E in un momento in cui la Lombardia finisce nell’occhio del ciclone per l’opaca gestione della sanità regionale, l’aver invece contribuito al finanziamento di questo «modello ideale» costituisce senza dubbio un punto a favore dell’amministrazione regionale. È qui che Gianna ha subito negli ultimi quindici anni ben 33 Trattamenti sanitari obbligatori (Tso), quelli che in genere segnano l’insuccesso dell’alleanza terapeutica tra paziente e struttura socio-sanitaria. Eppure per Gianna, da due anni, sono solo un ricordo. Oggi trascorre più volentieri la sua vita negli studi di Rete 180, «la voce di chi sente le voci», una radio edita dal professor Rossi e autogestita dai malati psichici in cura nel Centro psicosociale dell’ospedale. La sua rubrica, «Curarsi da soli, psichiatri permettendo», è nota in città malgrado la radio sia attualmente ascoltabile solo su internet. È anche grazie al lavoro in questi studi che qualcosa nella sua vita,come in quella degli altri pazienti, sta finalmente cambiando. «La schizofrenia non esiste, sono gli psicofarmaci che te la fanno venire. Quelle medicine cambiano perfino i lineamenti dei malati, per questo si assomigliano un po’ tutti. Eppoi gli psichiatri la chiamano malattia, ma non è una malattia, è un arricchimento». Ne è talmente convinta Gianna Schiavetti da aver intitolato così - «La schizofrenia non esiste e se esistesse io vorrei averla» - il libro autobiografico che uscirà in luglio per i tipi di Stampa Alternativa. Ad introdurre il volume è il suo medico psichiatra, Enrico Baraldi, responsabile del Centro psicosociale e direttore artistico di Radio 180, l’unico che sia riuscito in tanti anni a superare il «muro» e che si sia meritato l’appellativo di «ochino», la mascotte preferita di Gianna nella quale lei stessa si identifica: una piccola oca smarrita, scacciata dalle galline che l’avevano allevata nel cortile della casa di riposo dove sua madre passò gli ultimi annidi vita. «La sigla Tso non significa niente per la maggior parte delle persone - scrive il dottor Baraldi nella prefazione del libro - Per alcuni, tuttavia, e l’autrice di questo diario ne è la testimonianza, rappresenta il problema più importante della vita». «Un Tso tira l’altro perché nei reparti non si guarisce. Più ti agiti e più ti portano in psichiatria; se denunci gli psichiatri, giù con i Tso». La signora Gianna la vede così, e si capisce che ancora brucia il ricordo di quei 33 ricoveri obbligatori, di quella volta in cui è stata rincorsa dai vigili tra gli scaffali di un supermercato dove si era rifugiata, e di quando uscendo pensava che ci fosse stata una rapina, tanti erano i poliziotti, gli agenti della municipale, gli infermieri, tutti in attesa di lei. Ride, mentre si muove nella sua accogliente casa a due piani dal bel giardino curato, appena fuori il centro di Mantova. Alle pareti quadri d’autore fino al soffitto. Altri, i suoi, alcuni ancora in fase di pittura,poggiati a terra. Soprammobili, statuine, vasi e ninnoli dappertutto, sparsi in un armonico disordine. Distesa sul divano, una statua della Madonna «dorme» sotto le coperte rimboccate ad arte. In bella vista una lettera inviatale dalla Segreteria di stato vaticana con i saluti di papa Wojtyla. Non è l’unica, ne ha ricevute tante da tutti coloro a cui inviava spasmodicamente le sue poesie. Mostra, felice, le missive di Carlo d’Inghilterra, di Jacques Chirac e di Albano Carrisi. Gianna era molto giovane quando suo marito l’ha lasciata con una bambina piccola, e aveva 47 anni e un tumore alla mammella quando lui è morto. Col suo lavoro da sarta ha retto finché sua figlia non è andata a studiare all’università, poi «si è rotta», come dicono gli psichiatri. La prima volta che è stata ricoverata, 15 anni fa, l’ha fatto volontariamente. «Mi hanno detto che avrei dovuto rimanere due giorni, sono uscita 22 giorni dopo». Non avrebbe voluto prendere farmaci, né varcare per altre 32 volte lasoglia del Servizio psichiatrico diagnosi e cura (Spdc) dove vengono curati gli «acuti». Però da lì non è mai scappata. Eppure il reparto, allestito in un’ala dell’ospedale cittadino, è totalmente aperto: niente sbarre alle finestre, né porte chiuse. Tanto che quasi tutti i diciassette pazienti attualmente ricoverati preferiscono passare le loro giornate fuori, tra i viali alberati della struttura sanitaria. Solo i ricoverati in Tso vengono controllati a vista. «A volte qualcuno è fuggito, ma la maggior parte preferisce rimanere», racconta il dottor Baraldi. Segno che la relazione curativa funziona. Gianna lo sa, anche se mette in luce un altro aspetto: «Mi facevo ricoverare per difendere gli altri pazienti dagli psichiatri, per aiutarli a rifiutare le medicine. Ma l’ultima volta che mi hanno fatto un Tso ho deciso di entrare da sola perché volevo evitare che mi togliessero soldi e cellulare». E ogni volta che usciva, come prevede il protocollo, la signora doveva presentarsi tre volteal giorno al centro psicosociale perché le venissero somministrate le medicine. Tra una protesta e l’altra così Gianna ha cominciato a frequentare anche gli ambulatori di viale della Repubblica, sistemati al primo piano di una struttura tutto sommato molto accogliente che comprende il Centro riabilitativo ad alta protezione (Cra), con quindici posti letto assistiti 24 ore su 24, il Centro psicosociale con assistenza diurna, lo sportello lavoro per il collocamento e gli studi di Radio 180. «C’è una guarigione clinica che si realizza con la scomparsa dei sintomi, ma c’è anche una guarigione sociale - raccontano Rossi e Baraldi - la vecchia psichiatria voleva normalizzare le persone mentre per noi quello che va ricercato è il giusto equilibrio tra le due guarigioni: la parte malata può convivere con la parte sana di una persona, l’importante è che conduca un buon livello di vita». «Qui dentro, nel centro di viale della Repubblica, l’aspetto medico-psichiatrico è il meno rilevante»,puntualizza il professor Rossi, che ha cominciato a lavorare nel ’78 dentro i manicomi. A testimoniare che il loro modello funziona sono i numeri. Su 400 mila abitanti della provincia di Mantova, passano ogni anno nei centri di questa rete di servizi circa 5 mila persone, «cioè il 70% di quella parte di adulti che ci si aspetta possano aver bisogno di cure psichiche, calcolata dal sistema sanitario nel 2% della popolazione», aggiunge Rossi. E dagli indici di attività ospedaliera se ne deduce che c’è un’alta rotazione di pazienti nelle corsie, con un alto numero di persone ricoverate per la prima volta e quindi poca cronicizzazione della malattia. «Nessuno è inguaribile, nemmeno quelli che stanno negli Ospedali psichiatrici giudiziari», assicura Baraldi che ricorda come questo tipo di modello sanitario «non costa più degli altri, anzi». «Siamo 250 tra infermieri, medici e opertori, in tutta la provincia di Mantova, al di sotto quindi dei parametri richiesti negli obiettivi nazionali»,ci tiene a sottolineare. Le persone in cura sono più donne che uomini, tra i 30 e i 50 anni. «Le donne arrivano più tardi, in genere dopo almeno 5 anni che hanno sviluppato la malattia, gli uomini arrivano prima ma in genere soffrono di patologie più gravi. E questo è un problema su cui dobbiamo lavorare, perché lo stile di accoglienza dei servizi, le proposte avanzate, le risposte fornite sono a misura di uomini ma non di donne. Anche il dosaggio dei farmaci, uguale per uomo e donna, non considera le differenze ormonali». Altro neo: «I servizi che si sono sviluppati con la legge 180 si rivolgono agli adulti, non ai ragazzi né agli anziani. E questo è gravissimo». Per loro bisognerebbe incrementare l’assistenza a domicilio che qui, dove è ai massimi livelli italiani, raggiunge il 4,9% del totale degli interventi. «I casi difficili non sono in ospedale ma fuori, dove c’è la complessità della vita. L’esito positivo è dovuto al lavoro fatto prima e dopo il ricovero». Per questo sonofondamentali i progetti di reinserimento abitativo e lo sportello per il collocamento al lavoro che a Mantova, come spiega il responsabile Paolo Tortorella, ha scelto di rivolgersi ad aziende private e non alle cooperative sociali per soddisfare i bisogni dei pazienti con alto profilo culturale, sempre più numerosi.Ma non è solo Gianna ad essere fortunata. Lo sono anche i medici e gli infermieri del Dipartimento di salute mentale di Mantova, almeno così raccontano: «Siamo fortunati perché siamo riusciti a crescere insieme ai cittadini che non ci fanno pesare eccessivamente i nostri insuccessi, che pure ci sono e ci sono stati. Sbagliare è fisiologico, oltre che umano». Come ammalarsi.de Il Manifesto
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