Che fine farà quello sfregio sulla roccia VICO EQUENSE (NA) - Il mostro di Alimuri giace sotto la falesia, mentre le onde rumoreggiano e lo coprono di schizzi. Doveva diventare un albergo. Ma ora, cinquant’anni dopo che fu autorizzata la sua costruzione - era il 9 marzo del 1964 - rimasto uno scheletro senza tramezzi né infissi, solo piloni di cemento bucherellati, potrebbe avere i giorni contati. "Abbatteremo il mostro sulla roccia", tuona Gennaro Cinque, sindaco di Vico Equense, il primo comune che si incontra imboccata la Penisola sorrentina. Cinque e l’assessore Antonio Elefante, che qui chiamano assessore al mostro, dicono di aver trovato una carta: "Dimostra che quel manufatto è abusivo, possiamo distruggerlo entro sei mesi". Un’ordinanza emessa il 31 marzo ha avviato la procedura. Sarebbe un colpaccio. Un segnale in controtendenza rispetto all’accavallarsi di notizie d’altra natura: ovunque sorgono parcheggi interrati, una specie dimalattia che contagia da Vico Equense a Massa Lubrense, passando per Sorrento; spuntano viadotti che nessuno ha mai usato e nessuno mai userà; e anche il saporito "provolone del monaco" diventa un grimaldello per trasformare stalle in abitazioni: una norma infilata nel Piano casa prevede che chiunque abbia a che fare con il pregiato formaggio, anche se soltanto produce foraggio, può ampliare stalle e stabilimenti e in alcuni casi anche trasformarli in abitazioni. Ma torniamo ad Alimuri: il mostro potrebbe venire giù, ma non è detto che accada. Troppe le perplessità. Alla coppia Gennaro Cinque/Antonio Elefante non viene attribuita in Penisola sorrentina una spiccata sensibilità ambientalista: il sindaco è fra gli artefici di un viadotto che sfregia un vallone, e l’assessore è il progettista di un gran numero di parcheggi interrati (due vicende che approfondiamo negli altri articoli qui sotto). Ma avanza anche un’altra perplessità. Nel 2007 Gennaro Cinque, che anche allora erasindaco di Vico, firmò un’intesa insieme alla Regione Campania, alla Provincia di Napoli e persino al governo nazionale, rappresentato dal ministro per i Beni culturali Francesco Rutelli. L’accordo prevedeva che il mostro sarebbe stato demolito con soldi in parte pubblici, ma ai proprietari si riconosceva il diritto a costruire un albergo di uguale dimensione (18mila metri cubi) in un’altra zona della penisola e anche di realizzare uno stabilimento balneare al posto dello scheletro. Un affarone. Per i proprietari, ovviamente, i quali con lungimiranza avevano speso un bel po’ di quattrini, quasi tre miliardi di vecchie lire, per acquistare nient’altro che un rudere. Era, ed è, la Saan s.r.l. la proprietaria dello scheletro. Dietro la sigla figura la famiglia Normale, potenti immobiliaristi napoletani. Anna Normale è la moglie di Andrea Cozzolino, eurodeputato Pd, al tempo dell’accordo assessore alle Attività produttive della Regione Campania. Cozzolino, molto legato ad AntonioBassolino, nel 2011 si candidò alle primarie per il Comune di Napoli. Vinse, ma quella consultazione fu annullata per il sospetto che a votare fossero andati tanti senza alcun diritto. Fu una ferita mai sanata. E Cozzolino ora è stato rieletto al Parlamento europeo. Quell’accordo non è mai stato revocato. E ad esso i Normale possono sempre far riferimento, presentando ricorso e smorzando l’euforia di Gennaro Cinque e di Antonio Elefante. Con l’ordinanza del 31 marzo il Comune di Vico ha avviato anche il procedimento per annullare l’accordo. Che però aveva le firme anche di altri soggetti (Regione Campania e ministero per i Beni culturali): seguiranno le mosse intraprese a Vico? E cosa faranno i Normale, se ne staranno zitti e buoni senza chiedere risarcimenti? La storia di Alimuri si trascina da mezzo secolo. Le fattezze del rudere sono diventate il simbolo di un’edilizia proterva perché insensibile alla decenza di un luogo dalla bellezza struggente: una baia aipiedi di un’imponente falesia dalla quale si vedono Sorrento, Napoli, il Vesuvio e le isole del golfo. Il mostro faceva sempre da sfondo ai comizi di Cetto Laqualunque-Antonio Albanese e in rete è tutto un fiorire di immagini che lo ritraggono con gli striscioni di Legambiente: "Abbattiamolo". La licenza edilizia risale, appunto, al 9 marzo di cinquant’anni fa. Un’altra era. Il progetto ebbe l’approvazione della Soprintendenza che però, nel 1971, bloccò il cantiere: era decaduta l’autorizzazione paesaggistica. Il Comune di Vico ordinò la demolizione, ma il Consiglio di Stato, interpellato dai costruttori, sospese l’ingiunzione. Da allora iniziò un batti e ribatti fra giudizi amministrativi e penali, ma intanto lo scheletro era lì, sfrontato e imponente. Qualcuno faceva notare che non sarebbe mai potuto sorgere, perché il piano di fabbricazione di Vico Equense, l’antesignano del piano regolatore, prevedeva per quel luogo l’assoluto divieto di edificazione: cose che allora succedevanoe succedono ancora. Un salto ci porta al 1988. I proprietari vendono il rudere e l’area sui cui sorge alla società La Conca. La quale, nel 1993, passa la mano alla Saan per 2 miliardi e 700 milioni di lire. Trascorrono nel silenzio gli anni. Il mostro di Alimuri assurge al grado di simbolo dell’orrore, viene fotografato, immortalato, svillaneggiato. E si arriva al 2007 e all’accordo fortemente voluto dalla Regione Campania e sostenuto dal ministero per i Beni culturali. La prima avrebbe sborsato 300mila euro e altrettanti li avrebbe cacciati il ministero. La proprietà ne avrebbe tirati fuori 500mila, ma avrebbe incassato lo stabilimento balneare e la concessione per spostare i 18mila metri cubi a qualche chilometro di distanza. In molti protestarono, fioccarono le interrogazioni parlamentari. E arriviamo a oggi. Sorprendendo tutti a Vico e in penisola sorrentina, Cinque ed Elefante i primi di marzo convocano una conferenza stampa: abbiamo riesaminato le carte e scoperto che intutti questi anni, parole testuali, su Alimuri ci sono state "superficiali, sommarie e grossolane valutazioni". A cinquant’anni da licenze e autorizzazioni, dopo battaglie sanguinose e anche smentendo se stessa, l’amministrazione comunale stabilisce che, ancora parole testuali, "al netto di tutti i contenziosi che si sarebbero risolti positivamente per i proprietari e anche al netto di qualsiasi valutazione o diversa interpretazione sulla legittimità procedurale bla... bla... bla (sic!) si può concludere che le opere realizzate in località Alimuri sono abusive perché prive di legittimità paesaggistica". In sostanza - dice l’assessore Elefante nella sua faticosa e irrituale sintassi - il manufatto non è conforme al progetto presentato per l’autorizzazione paesaggistica cinquant’anni fa: è dunque abusivo, va abbattuto e la proprietà non ha diritto a nessuna compensazione. Sul mostro di Alimuri la partita andrà avanti nei prossimi mesi e si attendono mosse e contromosse. Ricorsi econtroricorsi. Verrà giù, come promettono Gennaro Cinque e Antonio Elefante? O resterà a imperituro esempio di scellerata bruttura? Ma intanto a pochi sfugge un paradosso: è mai possibile che in cinquant’anni nessuno, al Comune di Vico Equense, si sia mai accorto che il manufatto non era uguale al progetto? Garage al posto degli agrumenti SORRENTO (NA) - La Penisola sorrentina dei limoni, degli aranci, degli ulivi e dei box auto. Box auto a migliaia e migliaia, spesso interrati sotto limoneti, aranceti e uliveti che li dovrebbero ricoprire ma dove le piante forse non attecchiranno mai, troppo poco il terreno di riporto sui soffitti in cemento dei garage. Sono infossati dovunque si apra un giardino pensile, così frequenti nelle strade che si inerpicano sulle montagne della costiera, e poi nei centri storici, nella trama fitta di edifici antichi che scendono verso il mare. E in questo modo se ne va in malora un pezzo di paesaggio, quello che si avvista camminando ealzando appena lo sguardo sopra un muretto di tufo sormontato da generosissimi limoni. Da Vico Equense a Massa Lubrense, passando per Meta e Piano di Sorrento, poi per Sant’Agnello e Sorrento, è un fervore di scavi. Si asseconda una frenesia edificatoria che non può scatenarsi tirando su case e che si butta a capofitto in affari e speculazioni che associazioni come Italia Nostra stimano nell’ordine dei 350 milioni. Tutto nasce da una legge regionale, la numero 19 del 2001, approvata e poi abrogata in epoca bassoliniana, quindi ripristinata quando alla presidenza si è insediato Stefano Caldoro. La norma di fatto consente di aggirare vincoli urbanistici preesistenti e anche di tutela paesaggistica e architettonica e favorisce imprenditori e progettisti che allestiscono parcheggi pertinenziali, cioè box auto da mettere in vendita o da affittare e collegati con un’abitazione. Dati precisi non sono disponibili, ma Italia Nostra e Wwf calcolano oltre 6.000 box sorti negli ultimidieci anni in garage che ne contengono anche cento o ancora di più, disposti su piani interrati che scendono in profondità lungo rampe elicoidali. Il più grande ne ha cinquecento e sorge a Sant’Agnello. A Seiano un parcheggio di una quarantina di posti si raggiunge solo arrampicandosi lungo una stradina strettissima, a doppio senso, dove a stento passa una macchina. Il parcheggio svetta a fianco della facciata di una chiesa barocca realizzata dall’architetto Bartolomeo Bottiglieri. A quelli nei garage le associazioni ambientaliste aggiungono altri 2.000 box che i privati costruiscono per conto proprio. Solo a Vico Equense i box in parcheggi multipiano sono oltre 700, più circa 300 realizzati per sé dai privati. A Sorrento, 18mila abitanti, sono oltre 900 i box. A Piano di Sorrento, 15mila abitanti, 1.000. A Sant’Agnello, 8.600 abitanti, 1.450. C’era bisogno di tanti parcheggi? E poi di tanti parcheggi che non servono alla sosta breve? "Assolutamente no", risponde Giuseppe Guida,architetto e urbanista, professore all’Università di Napoli, "bisogna tener conto che obbligatoriamente tutti gli edifici costruiti da cinquant’anni a oggi dovevano avere parcheggi interrati, per cui spesso i box che vengono venduti anche a 50mila euro servono ad altro, sono usati come depositi, per esempio, oppure subaffittati. La legge lo vieta e prescrive l’esproprio in caso di abuso. Ma chi controlla che lì ci sia una macchina o la merce di un negozio? Fatto sta che con un investimento di poco più di cento milioni se ne incassano 350, anche se molti box sono invenduti". Al fervore costruttivo corrispondono tante storie di intrecci fra imprenditori, progettisti e amministratori. Progettista di alcuni parcheggi interrati è Antonio Elefante, l’assessore di Vico Equense, l’assessore al mostro di Alimuri. Elefante è titolare di uno studio, la Saec (Sorrento Architectural Engineering Company), che ha disegnato due enormi parcheggi a Sorrento, in via San Renato e in via Marziale, unoda 250 posti, l’altro da 300. Ma sono accertati (lo ha documentato sul Corriere del Mezzogiorno Fabrizio Geremicca) i legami fra Giuseppe Langellotto, amministratore delegato della Edilgreen, che dovrebbe realizzare 252 box a Sorrento, e il sindaco di Sorrento, Giuseppe Cuomo (centrodestra). "È vero, sono socio di Langellotto", si è giustificato Cuomo, "ma non nella società Edilgreen". Sacrosanto: l’altra società si chiama Nizza s.r.l., e anche questa fa parcheggi. Progettista è Graziano Maresca, capo dell’ufficio tecnico di Piano di Sorrento. Il parcheggio che dovrebbe costruire la Edilgreen (252 posti) è alle spalle del giardino d’aranci del Museo Correale, un vero gioiello. Per i box è in corso un processo e fino a qualche anno fa l’area era sotto sequestro. Il viadotto è inutile ma non si demolisce VICO EQUENSE (NA) - Sembra un serpente che si snoda nel verde brunito di ulivi e alberi d’arancio. Ma è un viadotto. Squarcia il vallone che si apre versol’azzurro della Marina di Equa, comune di Vico Equense. Doveva essere usato come strada di sfogo per il cantiere di un depuratore, ma è stato costruito quando al cantiere non serviva più. Allora il sindaco di Vico Equense, Gennaro Cinque, centrodestra, l’ha convertito come via alternativa ad un’antica strada che porta verso il mare e che d’estate è assai trafficata. Una buona idea? Chissà. Peccato che il viadotto sia largo 3 metri, compresi i muretti, troppo pochi: il codice della strada vieta dimensioni così strette. Il viadotto non è mai stato utilizzato né mai lo sarà. È costato 60 milioni. E ancora nelle settimane scorse il consiglio comunale di Vico Equense ha bocciato una mozione dell’opposizione che chiedeva di demolirlo. No, è inutile, ma ce lo teniamo. La tortuosa storia del viadotto inizia nel 2006, quando il Commissario di governo per l’emergenza bonifiche avvia la costruzione di un depuratore a Punta Gradelle. Nel progetto è prevista una strada. I camion lapercorreranno per portar via dal cantiere i fanghi da essiccazione. Fin da subito, però, si capisce che l’amministrazione comunale vuol destinarla ad altro, i soldi ci sono e allora perché non offrirla come alternativa a chi torna dal mare? Senza che si chiarisca la destinazione, i lavori vanno avanti, si taglia la vegetazione, si affondano i piloni nella terra, l’antico vallone viene stravolto. Ma è mai possibile, molti si domandano, che tutto questo accada impunemente? In effetti la Soprintendenza ai beni paesaggistici in un primo momento solleva forti obiezioni: "Il predetto progetto è in contrasto con la normativa dettata dalla Legge regionale n. 35", cioè il Put, il piano urbanistico territoriale della Penisola sorrentino-amalfitana risalente al 1987. E anche l’Autorità di Bacino esprime "notevoli perplessità" per l’equilibrio idrogeologico. Successivamente, però, la Soprintendenza cambia parere e indica solo una serie di prescrizioni: la larghezza della strada non devesuperare i 2,5 metri, il rivestimento deve essere in pietra calcarea a vista e invece che da piloni il viadotto dev’essere sorretto da arcate. Il viadotto procede la sua marcia. Invece che pietre calcaree, costose e faticosamente reperibili, si prendono dei pannelli prefabbricati con incisa la forma delle pietre. Una messinscena, un posticcio, lamine di cartapesta. E pannelli prefabbricati servono anche per far vedere che ci sono le arcate. A un certo punto i lavori si fermano. Il viadotto resta lì, senza una funzione, inservibile, costosissimo sfregio. I gruppi di opposizione in consiglio comunale hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti ipotizzando il danno erariale. Che almeno la truffa venga risarcita se proprio non si può risarcire un paesaggio. E punta Perotti torna in mano ai privati BARI - Cancellare uno scempio non significa sempre recuperare la bellezza naturale del paesaggio. Perché ad ogni azione ne sorge un’altra. Che alla fine producei suoi costi. Sbaglia chi pensa che la vicenda di Punta Perotti si sia conclusa il 2 aprile 2006. L’abbattimento dei palazzi che avevano creato un effetto-saracinesca sul lungomare sud di Bari ha innescato una serie di contenziosi ancora in atto. Riguardano la destinazione d’uso delle aree, ma anche le azioni di risarcimento danni promosse dalle imprese di costruzioni, gruppo Matarrese in testa. Tutto nasce da una sentenza "imperfetta". È vero, infatti, che la Corte di Cassazione ha stabilito che quella di Punta Perotti era una lottizzazione abusiva, disponendo la confisca dei suoli, ma nessuno è stato riconosciuto colpevole di quel reato. Non i costruttori. Che, anzi, avevano realizzato quel complesso edilizio in forza di regolari permessi rilasciati dal Comune. Ma neanche i funzionari e gli amministratori comunali che avevano sottoscritto le autorizzazioni. Su quelle aree il Comune di Bari ha realizzato un parco urbano di urbano di sei ettari. Il secondo round del braccio conle imprese di costruzioni comincia subito dopo. Facendo forza sulla sentenza di assoluzione emessa dalla Cassazione, i proprietari dei palazzi e dei suoli (oltre al gruppo Matarrese, altre due imprese baresi, Andidero e Quistelli) si rivolgono alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Chiedono un risarcimento di più di 500 milioni di euro. I giudici di Strasburgo accolgono il ricorso: non contestano la legittimità della demolizione, ma stabiliscono che, considerata la non colpevolezza dei costruttori, la confisca delle aree, disposta dalla Cassazione, è una misura eccessiva e sproporzionata. Per questa ragione, condannano lo Stato italiano a pagare un risarcimento di 49 milioni di euro. Soldi già incassati dalle imprese. Le quali non sono soddisfatte. Vista la riconosciuta illegittimità della confisca delle aree disposta dalla Corte di Cassazione, si rivolgono al tribunale di Bari per chiederne la restituzione. La richiesta viene accolta. Alcune imprese e proprietari privativengono reintegrati nella piena titolarità dei suoli. Su richiesta di uno dei proprietari, il Comune si vede costretto anche a cancellare un lembo del parco pubblico. Il gruppo Matarrese, però, rifiuta di rientrare in possesso delle aree di sua proprietà: proprio perché occupate dal verde pubblico - che, fra l’altro, richiede manutenzione - ritiene di non poterle utilizzare. Il risultato è che il Comune trascrive comunque il trasferimento di proprietà al gruppo Matarrese nei registri immobiliari, pur mantenendo il possesso del bene. L’offensiva dei costruttori non si ferma. È di due mesi fa un’altra azione di risarcimento, questa volta in sede civile, promossa contro Comune di Bari, ministero dei Beni culturali e Regione Puglia per aver autorizzato la costruzione di opere dichiarate poi abusive. Questa volta la richiesta è di 570 milioni. Non solo. Le imprese sfidano il Comune e presentano un altro progetto di riqualificazione dell’area, prevedendo l’ampliamento del parco e larealizzazione di edifici, allineati a quelli già esistenti su quella parte del lungomare, con volumetrie e altezze ridotte. La controproposta dell’amministrazione comunale va invece nella direzione opposta: accordo di compensazione urbanistica, con la possibilità per le imprese di costruzioni di realizzare le stesse cubature previste nell’area di Punta Perotti in un’altra zona della città. Nel frattempo, il Comune appone un vincolo di inedificabilità assoluta sull’area in cui sorge il parco urbano. L’unica possibilità che viene concessa ai privati è l’inserimento di quei suoli in programmi di rigenerazione urbana. Il parco non si tocca. Eventualmente potrà essere messo al servizio anche di edifici residenziali, comunque da costruire a più di trecento metri dal mare, oltre l’area attualmente occupata dalla ferrovia. Una soluzione che non soddisfa i privati. Che, adesso, stanno studiando ulteriori contromosse. Francesco Erbani e Raffaele Lorusso,repubblica Mare Monstrum, ildossier di Legambiente
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