Ricordate quel manifesto del 2012, un secolo fa, “Tutti X Bersani”? Bene, gli stessi sono ora tutti X Renzi. «Abbiamo svoltato!», urlava la toscana sottosegretaria all’Ambiente Silvia Velo, sabato mattina all’hotel romano Ergife, subito dopo l’elezione a presidente di Matteo Orfini, compagno di corrente tra i giovani turchi, che dopo aver combattuto l’ascesa di Matteo Renzi erano evidentemente galvanizzati, forse si ritrovavano a casa nel clima bulgaro dell’assemblea del Pd. Nella riunione precedente, era ancora il 15 dicembre, Renzi era stato eletto segretario da una settimana, figuriamoci, la colonna sonora era stata “La tua canzone” dei Negrita, «resta ribelle/non cambiare mai...». Sei mesi dopo, il numero gigantesco dietro al palco della presidenza: 40,8. Adorato da tutti gli intervenuti come un totem, un monolite, la mummia di Lenin. Culto della personalità precox, conformismo a piene mani, tutti a spellarsi le mani contro il dissidenteCorradino Mineo, consiglieri del Principe, adulazioni imbarazzanti, soprattutto quando arrivavano da gente che aveva sempre dichiarato di considerare Renzi una sciagura nazionale. Visto che siamo nelle giornate dei mondiali, forse Renzi vorrebbe ripetere quello che Enzo Bearzot disse a Mario Sconcerti, all’epoca giovanissimo cronista di “Repubblica”, dopo aver vinto la coppa nello scetticismo generale. I critici avevano cambiato verso, dopo averlo linciato lo idolatrarono. E lui, ancora negli spogliatoi dello stadio di Madrid Santiago Bernabeu ormai deserto: «Sono schifato dal miele con cui adesso mi vanno ricoprendo. Ci affogo, in quel miele». Era il 1982, Matteo aveva sette anni, fu uno dei più spettacolari salti collettivi sul carro del vincitore. Renzi invece, si sa, è un tipo paziente. Ha nominato presidente del Pd l’altro Matteo Orfini, che della (ex) minoranza interna è di gran lunga il più intelligente. E il premier-segretario ha giocato per mesi con una corrente che deltogliattismo ha ereditato soprattutto il consociativismo innato, il terrore di restare esclusi, ieri dall’arco costituzionale, oggi più modestamente dal caminetto del Nazareno, svuotato di significato dal ciclone Renzi. Per i post-comunisti la centralità appartiene ancora al partito, ma quanto vale il Pd, questo Pd, per un leader che da Palazzo Chigi si propone di cambiare l’Italia? Mai come nell’assemblea di sabato il Pd è apparso il PdR. Per fare la controprova bastava chiudere gli occhi nell’Ergife e immaginare il partito com’era un anno fa, senza il sindaco di Firenze in platea, e come sarebbe stato oggi senza di lui a Palazzo Chigi. Futile esercizio. Quel 40,8 attrae e ipnotizza, è un potentissimo magnete non solo dentro il Pd, come si è visto nella giornata di ieri, quando Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio hanno operato il loro contrordine compagni, la mini-svolta di Salerno, e hanno aperto alle trattative sulla legge elettorale con il Pd di Renzi, non più «l’ebetino diFirenze» (a definizione non ha avuto gran fortuna, in effetti), ma premier «legittimato dal voto popolare». E dunque ora, nella settimana che si apre, Renzi potenzialmente può contare su condizioni assolutamente eccezionali: un partito compatto alle sue spalle, una maggioranza di governo interamente egemonizzata, e tutte le opposizioni disposte a discutere e forse a votare le riforme. Forza Italia è legata al patto del Nazareno, anche se le truppe parlamentari sono tutt’altro che compatte. La Lega di Salvini (e di Calderoli) è pronta a entrare in partita. Sel di Nichi Vendola cerca un modo dignitoso di tornare a parlare con il Pd, ribattezzata dal governatore pugliese «la strategia dell’anguilla». Ma il fatto nuovo atteso dall’inizio della legislatura, il Movimento 5 Stelle che abbandona l’auto-isolamento, può cambiare tutte le mosse sulla scacchiera. Fino al 25 maggio Grillo si era preoccupato di scavare un fossato tra lui e Renzi, una riga invalicabile come la striscia che gliarbitri dei mondiali segnano sull’erba con la loro bomboletta spray per segnalare alla barriera dei difensori: di qui non avanzate un centimetro. Ora invece Grillo e Casaleggio passano dalla parte opposta del Rubicone, dove si fanno e si disfano le alleanze, indicando come interlocutore Luigi Di Maio, «massima rappresentanza istituzionale» del Movimento, il vero leader parlamentare di M5S. Se il dialogo Renzi-Grillo dovesse decollare, lasciamo stare se in streaming o no, le conseguenze sarebbero imprevedibili. Maggioranze variabili, in cui nessuno può accampare veti insormontabili, l’apertura di Grillo è una pessima notizia per Berlusconi. Sulla legge elettorale, l’Italicum ormai è un simulacro più vuoto della dirigenza Pd, sulla riforma del Senato, dove i dissidenti democratici rischiano di finire stritolati dalla Yalta tra i big, ma possono anche rivendicare che anche grazie alla loro tessitura i 5 Stelle sono usciti dalla tana, sulle future nomine istituzionali, i giudici dellaCorte costituzionale, il Presidente della Repubblica... Nella Prima Repubblica Giulio Andreotti giostrava sui due forni, il socialista e il comunista, Matteo Renzi copre tutte le zone del campo, gioca il calcio totale, nessun lato del sistema politico in questo momento è impermeabile alla sua azione, insensibile al nuovo potere del 40,8 per cento. Per muoversi bisogna darsi una strategia, oltre che una tattica. Procedere rapidamente senza perdersi in falsi nemici, nello schiacciamento del dissenso. Nel clima sciroccoso del tutti X Renzi le minoranze combattive e leali sono un valore da conservare con cura. Il primo a esserne consapevole è il premier. È stato lui l’unico ad avvertire che quel numero è un punto di partenza, non di arrivo, una responsabilità enorme, non un feticcio su cui adagiarsi. È il più ostile all’idea di essere imbalsamato nel miele del neo-conformismo. Renzi infatti è vivo, eccome se è vivo. Marco Damilano,l’espresso
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