È l’Italia il personaggio pirandelliano in cerca d’autore
 











I nomi che dominano la scena italiana ed europea in questi giorni sono due: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Qualche osservatore malizioso ha anche messo in rapporto queste due eminenti personalità ipotizzando un’eventuale successione dell’uno all’altro ma le cose non stanno affatto così, Draghi non ha alcuna intenzione di andare al Quirinale, i suoi compiti e i suoi obiettivi sono del tutto diversi come lui stesso afferma pregando i suoi amici di diffonderla. Cosa che, adempiendo al suo invito, faccio con piacere.
Napolitano dunque se ne va. Compirà novant’anni in giugno e molti speravano che restasse fino a quella data, invece non sarà così: le condizioni fisiche che sarebbero sopportabili per sostenere normali responsabilità non gli consentono invece di esercitare ancora per molti mesi le funzioni connesse alla carica estremamente impegnativa che ricopre da otto anni.Darà le dimissioni entro la fine dell’anno e probabilmente ne darà l’annuncio con il messaggio alla Nazione del 31 dicembre prossimo. Si apre quindi fin d’ora il tema della sua successione, nel quale non spetta certo a lui dare indicazioni di sorta.
Avrebbe voluto — e l’ha detto al nostro collega Stefano Folli — che alcune leggi di riforma istituzionale fossero state approvate durante il suo mandato e in particolare quella di riforma elettorale; ma il lavoro del Parlamento si è ingolfato per approvare una serie di annunci e proposte e perciò il desiderio di Napolitano resta inappagato.
Questa è la situazione con la quale la nostra vita pubblica dovrà fare i conti da domani in poi e che chiama in causa altri tre nomi da aggiungere a quelli di Napolitano e di Draghi e cioè Renzi, Grillo, Berlusconi.
"Sei personaggi in cerca di autore", scrisse Pirandello per una delle sue più brillanti tragicommedie. Ma i nostri cinque non cercano autore, lo sono stati e alcuni di loro lo sonoancora. È l’Italia semmai che cerca il suo autore e ancora non l’ha trovato. Io la penso così e non sono affatto felice.
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Giorgio Napolitano è stato, non c’è dubbio, uno dei nostri migliori presidenti della Repubblica: ha avuto un rispetto non formale ma profondo per gli altri poteri dello Stato e per le prerogative che la Costituzione attribuisce al Presidente; ha considerato i cittadini come i destinatari dei benefici che la democrazia gli riconosce. La sua fermezza è stata probabilmente la maggiore caratteristica della sua presidenza e gli ha anche consentito di far sentire ai governi in carica la "moral suasion" che il Presidente può e deve usare per aiutare il potere esecutivo a governare il Paese nel modo migliore.
Le circostanze l’hanno obbligato a nominare tre governi senza che avessero ricevuto la preventiva designazione elettorale: quelli di Monti, di Letta, di Renzi. Li ha nominati perché la crisi economica internazionale aveva colpito anche e soprattuttol’Italia ed era necessario tentare di superarla o almeno di contenerla senza renderla ancora più critica ricorrendo ad elezioni anticipate, per di più con una legge elettorale sconfessata dalla Corte Costituzionale.
A volerlo sintetizzare nella sua essenza, questo è stato il ruolo di Napolitano. Le sue dimissioni aprono da domani una fase delicatissima che sarà di non facile né rapida soluzione. La ragione è semplice da spiegare: Renzi e il suo partito vorranno ora un inquilino del Quirinale che riconosca la primazia del capo del governo. Cioè esattamente il contrario di quanto è accaduto nell’ultimo quinquennio.
È un cambiamento? Certamente lo è, ma non nel senso di un’apertura al futuro, bensì di un ritorno al passato. Per tutto il corso della Prima Repubblica furono la Democrazia cristiana e i suoi alleati a "tener per mano" l’inquilino del Quirinale. La Dc lo eleggeva e la Dc lo guidava. Ci furono le sole eccezioni di Gronchi e di Pertini e non a caso: Gronchi era statoeletto da una inconsueta coalizione di minoranze e Pertini aveva un carattere che non a caso ne ha fatto uno dei capi della Resistenza. Per tutti gli altri il motore stava nel governo e il Quirinale aveva un ruolo subordinato. Il progetto di Renzi è di ritornare alla vecchia Dc nel suo rapporto con il Quirinale. Ma una difficoltà c’è: il Pd non ha nel plenum del Parlamento la maggioranza assoluta richiesta per l’elezione del Presidente. Quindi ha bisogno di costruirla. Con Berlusconi e/o con Grillo.
Il gioco sarà questo e comincerà fin da domani.
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Nel frattempo l’economia italiana ed europea attraversano una fase di gravi tensioni ed è per questo che le carte del gioco sono nelle mani di Draghi.
Osservando con attenzione le sue mosse si capisce che il cardine della sua politica è quello di avvicinare quanto più è possibile l’azione della Bce ai privati. È il solo modo per agire sull’economia reale e quindi superare la crisi in atto.
Quando si parla di privati,specialmente in Italia, si parla di banche. Draghi sa bene che la Bce sulle banche deve operare ma mantiene fermo il principio del rapporto diretto tra Bce e privati, imprese che emettono obbligazioni garantite e ricevono prestiti su di esse.
Quanto alla politica monetaria vera e propria la Bce, con un voto all’unanimità a Francoforte, è autorizzata a portare il suo bilancio dai duemila miliardi attuali a circa tremila. L’obiettivo è di mettere a disposizione delle banche prestiti a quattro anni ad interesse praticamente zero. E in più l’acquisto di obbligazioni cartolarizzate e altre forme di sostegno. Il risultato, in parte già raggiunto in Europa, è la discesa del tasso di interesse e, di riflesso, del tasso di cambio euro-dollaro.
Per quanto riguarda l’Italia, Draghi ritiene che sono necessarie riforme rapide sul lavoro, sulla produttività e sulla concorrenza. Non so che cosa pensi delle battaglie che i sindacati fanno contro l’abolizione dell’articolo 18 ma non credo sianoper lui di grande interesse. Ci deve essere, certamente, una protezione dei lavoratori contro vessazioni ingiustificate, ma non può essere limitata e comunque diversa tra un tipo di lavoratore e l’altro. Personalmente credo sia questo anche l’obiettivo della Cgil, ma Draghi di questi problemi non parla. Parla invece dell’Europa riconoscendo che il suo obiettivo sarebbe quello di necessarie cessioni di sovranità dei singoli Stati in favore dell’Unione. Lo preoccupa molto  -  a quanto so  -  il continuo aumentare dei partiti entrati nel Parlamento europeo e che detestano l’Europa, detestano la moneta comune e detestano soprattutto l’immigrazione. Se continua questa tendenza il Parlamento europeo correrà il rischio di essere in mano alle forze che rifiutano moneta comune e immigrazione.
È un tema estremamente preoccupante e Draghi ha perfettamente ragione a denunciarne la gravità.
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Per quanto riguarda l’articolo18, del quale ho spesso parlato le scorsesettimane, ho approfondito il tema della sua abolizione e sono arrivato alla conclusione che l’articolo 30 della Carta dell’Unione ha la sua interpretazione più netta e chiara nell’articolo 52 della Carta medesima.
Anzitutto il titolo di quell’articolo: "Portata e interpretazione dei diritti e dei principi" e poi il primo comma dell’articolo suddetto che così recita: "Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti. Possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione e dall’esigenza di proteggere i diritti". Il che vuol dire che l’articolo 30 che prevede il ricorso di ogni lavoratore contro licenziamenti ingiustificati non può essere abolito perché andrebbe a ledere "l’interesse generale dell’Unione" già approvato insieme al Trattato diLisbona.
La Cgil dovrebbe semmai estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori, quale che sia il loro specifico contratto di categoria.
Sarà comunque interessante vedere l’adesione dei lavoratori della Fiom allo sciopero generale ormai imminente.(...)
Colle e legge elettorale, Renzi avverte Berlusconi: "Se si sfila dalle riforme è fuori da ogni partita"
C’è tempo fino a stasera alle nove poi sarà Matteo Renzi a rompere il patto del Nazareno annunciando alcune modifiche finora maledette da Forza Italia. Una rottura che avrebbe un riflesso sulla corsa per il Quirinale appena scattata dopo le indiscrezioni sulle dimissioni imminenti di Napolitano. "Se Berlusconi non rimane seduto al tavolo delle riforme possiamo eleggere un presidente contro di lui. Gli conviene? È sufficiente scegliere il più antiberlusconiano dei papabili e aprire ai 5 stelle", ragiona il premier con i suoi collaboratori. Per il Colle Grillo è un interlocutore molto più sicuro di quanto losia sull’Italicum.
Alle 21 si riunisce il vertice di maggioranza per fare il punto sulla legge elettorale. Se non sarà arrivato un segnale chiaro da Silvio Berlusconi, il premier si sentirà svincolato. "Metteremo la soglia di accesso per le liste al 3 per cento, come ci chiedono i partiti più piccoli. E andremo avanti da soli. I numeri li abbiamo, vedrete", avverte Renzi.
Significa che l’intera galassia del centrodestra da Fratelli d’Italia all’Ncd alla Lega, che Forza Italia pensava di poter piegare alla sua volontà attraverso uno sbarramento alto, riprenderà fiato e non guarderà più alla casa madre. Il vertice è stato convocato dopo cena proprio per regalare all’ex Cavaliere le ultime ore di riflessione, ma se non ci sarà una risposta o sarà negativa, il suo esito è già annunciato.
Renzi sa che Berlusconi ha davvero dei grossi problemi dentro il suo partito e nelle zone di confine. Non lo aiuta neanche l’imminente voto per la successione di Giorgio Napolitano. Nella lotteriadelle elezioni presidenziali o si ha una pattuglia unita o si rischia la sorte del Pd con i 101 contro Prodi. Per questo, spiegano a Palazzo Chigi, non bisogna stupirsi se l’ex premier insiste a denunciare la tentazione di un voto anticipato attribuendola al leader del Partito democratico. "Lo dice a uso interno, per tacitare i dissidenti alla Fitto e dimostrare che sta veramente all’opposizione. È giusto dargli il peso che merita", minimizza il premier con i fedelissimi. Eppure il patto del Nazareno non è mai stato così vicino al game over e Renzi ha già cominciato a fare i conteggi su un’ipotetica maggioranza a Palazzo Madama. Senza Grillo, senza la Lega, senza Forza Italia, un Italicum corretto in alcuni punti (soglia di sbarramento, maggiore peso alle preferenze rispetto ai capolista bloccati) può fare affidamento su 174 senatori, 14 più della maggioranza assoluta di 160.
I renziani non negano la preoccupazione per il ritardo di Forza Italia. Il premier non ha avuto contattidiretti con Berlusconi. Il telefono invece ha squillato anche di domenica tra gli ambasciatori, in particolare tra Luca Lotti, Denis Verdini e Lorenzo Guerini. "All’ultimo sprint possiamo siglare l’accordo  -  dice Renzi  -  ma non si può perdere tempo". Tanto più che la partita per il nuovo capo dello Stato rischia di sovrapporsi alla legge elettorale complicando le cose. Se i tempi dovessero coincidere e senza un punto di caduta già deciso prima di gennaio, si complicherebbero entrambe le partite. "Berlusconi ha tutto l’interesse a rimanere dentro al patto. Se è così il prossimo presidente lo eleggiamo con lui sennò lo eleggiamo contro di lui. Fa una bella differenza. Non è nelle condizioni di mettere paletti", ripete Renzi. Basta, dicono a Palazzo Chigi, rafforzare il profilo antiberlusconiano della rosa di nomi. Basta, per fare un esempio, un nome come Romano Prodi. Candidatura che non è in cima ai pensieri del Pd renziano, ma "un identikit simile lo troviamo".A quel punto, i 5 stelle dovrebbero trattare. Non sono più quelli della primavera 2013, riflettono a Largo del Nazareno, hanno ancora tanti voti ma sono irrilevanti nelle istituzioni. Adesso starebbero al gioco, proprio com’è successo per l’elezione a giudice costituzionale di Silvana Sciarra.
Berlusconi dice ai suoi dirigenti che "Renzi non va da nessuna parte, ha bisogno di Forza Italia. Il problema è che punta a votare presto. Ma Grillo non è un alleato possibile per i democratici". In effetti nessuno nel Pd crede a un’asse con i 5 stelle sulla legge elettorale, ma per il Quirinale il discorso cambia. "A maggior ragione, nel patto deve entrare anche l’elezione del capo dello Stato - avverte l’uomo di Arcore -. Se vo- gliono il nostro via libera sulle riforme dobbiamo decidere insieme anche il nome per il Colle". L’intreccio è così fitto che a Renzi quasi non dispiacerebbe poter rompere (temporaneamente) l’accordo con Fi e contare solo sull’assetto di maggioranza. Più garantito,meno esposto alle difficoltà dell’opposizione berlusconiana. Anche perché il premier ha ricavato un’impressione dall’ultimo vertice con Berlusconi: troppo profondi i contrasti dentro Fi, loro stessi preferirebbero far iniziare il percorso dell’Italicum al Senato solo alla coalizione di governo per poi sedersi di nuovo al tavolo in un secondo momento.
Ma la minaccia del premier non è indolore per gli azzurri. La soglia di sbarramento portata al 3 per cento rende autonomi Fratelli d’Italia, il Nuovo centrodestra e apre la porta al pericolo mortale e definitivo per il partito dell’ex Cavaliere: un’altra scissione, manovrata stavolta da Raffaele Fitto che col 3 per cento può pensare a una sua forza garantendo anche la rielezione ai fedelissimi.
Comunque Renzi non aspetterà l’ufficio di presidenza di Forza Italia convocato tra martedì e mercoledì. Non darà più di 12 ore a Berlusconi per una riposta, per un segnale. Semmai prenderà la strada del "fare da soli". Con tutti i rischi delcaso. Finora infatti Berlusconi è servito anche ad arginare gli oppositori del Partito democratico. Se resta fuori il leader azzurro, i ribelli Pd torneranno alla carica. "Se si sfila Forza Italia - dice non a caso il bersaniano Alfredo D’Attorre - il Pd dovrebbe finalmente esprimere una sua proposta e lavorare su quella". Eugenio Scalfari  -   Goffredo De Marchis,repubblica

 









   
 



 
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