Jobs Act, la Cgil: "Valutiamo ricorso in Europa". Scontro Cuperlo-Orfini
 











La linea è chiara: non lasciare nulla di intentato. Dopo il voto alla Camera la Cgil non chiude il capitolo Jobs Act. Anzi: il sindacato di Susanna Camusso è pronto anche a cambiare campo di gioco, passando dalle piazze e dai luoghi di lavoro italiani all’Unione Europea. Il perché lo spiega direttamente la Camusso: "Valutiamo la possibilità di un ricorso alla Corte di Giustizia Europea: le nuove regole sul lavoro violano gli articoli 30 e 31 della Carta di Nizza". Poi la promessa: "Ci penseremo, ci proveremo. Ma c’è bisogno di capire come vengono scritti i decreti". Il Jobs Act tornerà in Senato il 2 dicembre e dopo la spaccatura alla Camera la minoranza dem intende dar battaglia nell’aula dove la maggioranza è più debole.
La Camusso ricorda anche le parole che Renzi aveva pronunciato dopo l’incontro nella sala verde: "Il presidente del Consiglio concluse l’unico incontro che abbiamo avuto alla sua presenza dicendo che i ministri avrebberodiscusso con le parti. Siamo sempre in attesa di vedere se è un annuncio o una cosa che si determina realmente". E il segretario della Cgil ribadisce: "Non è l’approvazione in parlamento del Jobs Act che ci ferma per cambiare una norme che riteniamo sbagliate. Andiamo avanti serenamente".
Intanto, volano gli stracci tra gli ex compagni. Anzi, volano i post. L’approvazione della legge delega sul Jobs Act alla Camera apre, come era prevedibile, uno scontro tutto interno alla sinistra del Partito Democratico. E Gianni Cuperlo e Matteo Orfini non risparmiano l’un l’altro accuse, richiami e critiche. L’antefatto è rappresentato dalle dichiarazioni rilasciate da Orfini dopo il passaggio parlamentare di ieri. "Primedonne", così l’attuale presidente del Pd fotografa la decisione dei ventinove parlamentari della minoranza di lasciare l’aula al momento del voto. "Siamo solo coerenti con la nostra storia politica" la replica che Cuperlo affida a Facebook. In un botta e risposta fatto nel nomedei valori della sinistra italiana.
Gianni a Matteo. Cuperlo legge i giornali, poi apre la sua pagina Facebook e inizia la sua seconda Lettera a Matteo, la prima era indirizzata all’altro Matteo:  Renzi. E scrive: "Sono impressionato dal tono e dal merito di queste frasi". Parole che non tengono in considerazione "una scelta che a tanti è costata, e non poco" e "donne e uomini con le loro convinzioni e la loro coerenza". Poi, punta il dito direttamente su Orfini, con la neanche tanto velata accusa di non essere un presidente di garanzia. Ma prima, il retroscena: "Che peccato, caro Matteo. Sono stato anch’io per qualche settimana presidente della nostra assemblea. Poi ho lasciato quel posto per le ragioni che sai. Qualche mese dopo un capo della tua corrente è venuto a chiedermi di non ostacolare la tua candidatura allo stesso incarico". Quindi:  "Ti ho votato come presidente del nostro partito. Che dovrebbe essere una figura di garanzia verso tutti. Personalmente non misognerei mai di dire che la posizione di altre e altri, tra di noi, quando si esprime sul merito del provvedimento o di una legge risponde ad altre logiche che non siano quelle dichiarate. Mi piacerebbe che nel nostro partito questo principio fosse condiviso da tutti. Ma sarebbe giusto che a condividerlo fosse almeno il nostro presidente".
Matteo a Gianni. Anche Orfini apre la sua pagina Facebook e con ogni probabilità incrocia subito la lettera di Cuperlo, condivisa da centinaia di dirigenti e militanti del Pd. Non ci pensa su, e replica: "Quelle parole le ho dette e le ho dette perché le penso". Per il presidente del Pd, "ieri è successa una cosa molto grave. E per me dolorosa", perchè "se tutti ci comportassimo come ieri avete fatto voi, questo partito diventerebbe uno spazio politico, e non un soggetto politico (per citare Bersani). E non durerebbe a lungo". Poi Orfini apre una parentesi. E chi di retroscena ferisce, di retroscena perisce: "Tu ricorderai che all’inizio di questalegislatura io più di altri avevo perplessità sulla scelta di far nascere un governo insieme a Berlusconi. Ricordo un colloquio che ebbi con te in Parlamento, in cui mi spiegasti che in quelle condizioni e dopo una decisione assunta collegialmente, non si poteva che bere l’amaro calice. Perché proprio nei momenti difficili è doveroso farsi carico collettivamente delle responsabilità, anche se non si condividono quelle scelte". Infine la questione "partito". Orfini è netto: "Io non sono ’entrato in maggioranza’ per il semplice fatto che per me non esistono più una maggioranza e una minoranza del Pd: esiste il Pd". E saluta tutti con un "il congresso è finito".
E i militanti? A scorrere le reazioni, non se ne esce. Chi appoggia l’uno, chi appoggia l’altro, chi cerca una mediazione chiedendo: "Ma perchè non vi incontrate e parlate? Che sono queste manie di protagonismo?". Ma la lite tra Cuperlo e Orfini è una miccia che innesca, tra militanti ed elettori, la corsa verso un soloargomento: la scissione. Non bastano le rassicurazioni di Bersani - "Nessuna scissione ma Renzi non faccia finta di nulla" - e gli inviti a ritrovare il dialogo. La percezione diffusa è che oramia la frattura sia netta. E non perchè si tratta di un "duello tra primedonne". Ma per il tema evocato: quelle diverse visioni della Civiltà del Lavoro su cui nessuno è disposto ad arretrare neanche di un millimetro.
Renzi: "Minoranza? Penso a precari". Il segretario del Pd Matteo Renzi al Tg1 si mostra come sempre indifferente alle fibrillazioni del partito: "Se qualcuno non ha rispettato l’accordo" dentro il Pd sulla votazione del Jobs Act alla Camera "è un problema suo, non nostro". "Sono molto più preoccupato della questione dei precari che non delle legittime opinioni diverse dentro il Pd. Il nostro problema sono i lavoratori che sono stati messi in un angolino. Ci sono più diritti con questa riforma non meno", aggiunge Renzi.
L’astensionismo alle regionali, continua Renzi, non è daleggersi come critica al Pd e al governo: è "frutto di vicende emiliane e anche del fatto che c’è un pò di stanchezza. Molto più semplicemente, c’è bisogno di dimostrare con i fatti che si pensa alle cose concrete".
In Senato il 2 dicembre. La legge delega sul lavoro approderà in aula al Senato martedì 2 dicembre. La seduta è convocata per le 17. Lo ha stabilito la conferenza dei capigruppo. Ne dà resoconto all’Assemblea la presidente di turno, Valeria Fedeli. Critiche da Sinistra e Libertà. La presidente del gruppo Misto-Sel, Loredana De Petris, ha spiegato di non aver votato il calendario perché sono stati previsti tempi troppo stretti di esame in assemblea: "solo sette ore di discussione escluse le dichiarazioni di voto". Nel corso della riunione, secondo l’agenzia Dire, i capigruppo di maggioranza sono stati investiti di una questione apparentemente a latere: se esista ancora o meno il Gruppo per l’Italia dopo la fuga verso Gal (grandi autonomie e libertà) di Mario Mauro, Titodi Maggio e Angela D’Onghia. Con gli attuali 7 senatori, infatti, il gruppo non avrebbe diritto alla costituirsi. L’argomento è di vitale importanza per il cammino del governo. La commissione, infatti, era chiamata a votare il parere di costituzionalità sul ddl delega. r

 

 









   
 



 
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