Fa sempre impressione la sproporzione tra l'enorme peso simbolico dell'industria culturale e la sua quasi totale irrilevanza economica. Questo dato noto, e strutturale della nostra società, è sottolineato ancora una volta con forza nel Rapporto sull'economia della cultura in Italia (1990-2000) a cura di Carla Bodo e Celestino Spada (Il Mulino, pp. 776, € 60), il secondo rapporto decennale di una serie iniziata nel 1994 con un analogo Rapporto (a cura di Carla Bodo) relativo al decennio 1980-1990, a suo tempo pubblicato dal Dipartimento della Presidenza del Consiglio allora diretto da Stefano Rolando. La nostra vita è plasmata da quel che vediamo in Tv, dai dischi che ascoltiamo, la musica che sentiamo, i film che andiamo a vedere al cinema o guardiamo in casa su Dvd, dai libri, dai giornali, dalle consultazioni on line, eppure per tutti questi settori messi insieme (con i teatri, i musei, le mostre, i concerti, le biblioteche), le spese pubblica e privata accoppiate non superavano nel 2000 il 2% del Pil (46.897 miliardi di lire, quando il Pil era di 2 milioni 258.753 miliardi). Certo, i dati vanno presi con le molle, perché come riconoscono a varie riprese i curatori, e come insistono Paolo Leon e Giovanni Galli nel primo capitolo dedicato ai cambiamenti strutturali del settore culturale, una vera e propria contabilità nazionale non è mai stata messa in cantiere, tra l'altro a causa di un forte elemento sommerso. Basti pensare ai Cd e Dvd pirata: per estrapolarne l'impatto, un solo confronto è sufficiente: nel decennio 1990-2000 la spesa ufficiale per home video è aumentata solo dell'1,9%, mentre il numero di famiglie dotate di videoregistratore cresceva del 12,6%. È paradossale, notano Leon e Galli, «che nel dibattito attuale sullo `scontro di civiltà', la civiltà/cultura del nostro paese non è (statisticamente, economicamente, strutturalmente) ben conosciuta». «Eppure, l'opinione pubblica è istruita, fino alla noia, alla considerazione della cultura come elemento fondante della nostra collettività». Non si può non elogiare lo sforzo compiuto da questo Rapporto nel cercare di fornire un quadro d'insieme dell'economa della cultura: un'impresa improba per chi conosce il pressapochismo del nostro istituto statistico (basti avventurarsi nella biblioteca dell'Istat per diffidare di qualunque dato fornito). Spaziando nei settori più diversi, dalle biblioteche pubbliche alle case d'asta alle radio locali, per certi versi il Rapporto di Bodo e Spada non fa che confermarci nello sconsolante ritratto di un'Italia ignorante, che va poco al cinema, che non si tiene al corrente con i giornali, fanalino di coda dell'Unione europea per quasi tutti i consumi culturali: il mercato italiano del disco è un terzo di quello francese, un quinto di quello tedesco, un sesto di quello britannico; il nostro mercato del video è metà di quello francese e tedesco e un quarto di quello britannico; il nostro mercato del cinema è itre quarti di quello francese, britannico e spagnolo. Per di più un'Italia come al solito nettamente spaccata in tre parti, dove gli indicatori sono (tranne alcune eccezioni) al Nord molto al di sopra della media nazionale, al Centro poco al di sopra della media nazionale e al Sud un baratro sotto la media. Prendiamo la lettura di libri. Nel 2000 il 60% degli italiani dichiarava di aver letto almeno un libro: il 42,8% nel tempo libero, il 5,4% per motivi professionali o di studio e l'11,8% come «lettori morbidi» (che non si pensano come lettori, ma hanno letto guide turistiche, manuali di cucina, libri gialli...). Questo dato generale non fa che confermare quello che andava dichiarando in varie interviste l'allora ministro della Pubblica Istruzione, Tullio De Mauro: «L'Italia è un paese a rischio di analfabetismo dal momento che un terzo (il 32%) della sua popolazione adulta è sostanzialmente analfabeta e un altro terzo sta uno o due gradini più in alto, ma è nel costante pericolo di regredire. [...] Al di là, infatti, delle tradizionali statistiche ufficiali, che parlano di un 10% persone non scolarizzate [...] noi ora sappiamo con certezza, in base alle più recenti ricerche dell'Ocse, che un terzo degli italiani adulti ha difficoltà di lettura, di scrittura e di conteggio, ed è quindi praticamente analfabeta. Un altro terzo supera queste difficoltà, ma non procede oltre nei livelli di alfabetismo, e quindi si trova in una situazione che psicologi e sociologi definiscono eufemisticamente a rischio, mentre la realtà è molto più cruda». Il 60% di lettori di libri in media nazionale diventava il 65,5% nel Nord-Ovest, il 67,0% nel Nord-Est, il 60,9% nel centro, il 50,8% nel Sud e il 52,1% nelle Isole. (L'altro dato statistico rilevante è che la media di 42,8% lettori nel tempo libero si scinde in 37,1% lettori maschi e 48,1 lettrici). Apparentemente questi dati descrivono solo il colossale fallimento della scolarizzazione di massa in Italia. Invece no, ed è uno dei pochi elementi di speranza che vengono da questo rapporto: nel 1965 leggevano meno di 7,5 milioni di persone; nel 1975 erano 12 milioni, nel 2000 21 milioni: insomma i lettori sono quasi triplicati in 40 anni. Il che rispecchia la diminuzione dell'analfabetismo che negli anni `50 colpiva in realtà il 60% degli adulti. Ma questo segnale positivo viene subito smentito dal rapporto che nota come dopo il 1998 il numero dei lettori sia di nuovo andato calando soprattutto tra i giovani. E si entra qui nel carattere specifico degli anni `90, del contrastato decennio che ha visto l'ascesa del berlusconismo e quindi lo stradominio del duopolio televisivo su tutte le altre forme di attività culturale (questo duopolio esercita per esempio un potere quasi assoluto anche sul settore cinematografico). Lo strapotere televisivo ha sottratto fondi pubblicitari soprattutto all'informazione scritta, ma non avrebbe avuto effetti tanto devastanti senza la cronica debolezza della domanda dicultura da parte degli italiani, un dato questo strutturale su cui incidono politiche di lungo respiro di cui si ebbero vaghi sentori solo nelle riforme di modernizzazione degli anni `60 (scuola obbligatoria fino a 13 anni...). Persino in un settore in cui l'Italia vanta una grande tradizione, e cioè il cinema, ci accorgiamo che se gli italiani vanno al cinema in media 1,7 volte l'anno, i tedeschi ci vanno invece 1,86 volte, gli inglesi 2,39; i francesi 2,8 e gli spagnoli 3,4 volte l'anno. E anche in questo settore, la crescita degli anni `90 (nel 1990 la frequenza media italiana era di 1,5) è stata ridimensionata dalla crisi dei consumi del `98 che emerge chiara nei vari settori culturali da tutto il Rapporto e su cui pure i curatori non s'interrogano (era al governo il centrosinistra tutto intento all'epoca a stangare gli italiani per permettersi di entrare nell'euro). Naturalmente, a un recensore del manifesto sta molto a cuore la crisi che ha colpito la stampa quotidiana che ha perso il 15% delle copie giornaliere dal 1990 a oggi, crollo che non può essere spiegato solo dal dirottamento delle risorse pubblicitarie verso la tv. Anche nella lettura dei quotidiani, come nel libro, il quadro generale è quello sconsolante dell'Italia fanalino di coda d'Europa: da noi viene venduto un quotidiano ogni 10 abitanti, contro uno ogni 2-2,5 in Svezia, Finlandia e Austria, uno ogni 3 abitanti in Gran Bretagna, Germania, Olanda, Stati uniti; e uno ogni 5 in Francia e Belgio. Le percentuali sarebbero ancora più sconfortanti se depurate dai quotidiani sportivi (che vendono circa 700.000 copie al giorno su un totale di meno di 6 milioni di copie). L'andamento regionale è altrettanto prevedibile: al nord vive il 44,7% della popolazione italiana che però compra il 57% delle copie di giornali; al centro il 19,3% compra il 22,7% delle copie e al sud il 36% degli italiani compra solo il 20,2% delle copie. La lettura dei giornali aveva conosciuto una crescita durante tutti gli anni '80 fino ad arrivare al massimo del 1990 con 6,9 milioni di copie giornaliere. Il crollo degli anni `90, che ha riportato la diffusione sotto i 6 milioni di copie, è tanto più stupefacente se si considera che quegli anni hanno visto il quotidiano divenire il supporto base di un'offerta multimediale (libri, videocassette, Cd, Dvd, inserti settimanali settoriali, femminili, di viaggio), offerta che ha salvato i conti economici dei grandi gruppi ma che non ha frenato l'erosione dei lettori. Va detto anche che i giornali italiani sono i più respingenti al mondo. Sembra che gli editori e i direttori dei nostri quotidiani pensino che i loro giornali non vendono perché non sono abbastanza brutti: e così a ogni riforma grafica, a ogni ritocco, i giornali diventano sempre più illeggibili, le notizie diminuiscono, la parte internazionale si assottiglia, il tono si fa più gridato e scandalistico. È come se in Italia mancasse una borghesia, cioè una classe dominante che sia anchedirigente, interessata ai destini del mondo là fuori, attenta alla propria riproduzione in termini di potere e di cultura. Quest'assenza di una borghesia emerge dal Rapporto per quanto riguarda il problema degli investimenti pubblici e privati nel settore culturale. Nonostante le cure dimagranti ai bilanci pubblici seguite negli anni `90 (sempre per rientrare nei parametri di Maastricht), curiosamente nel settore culturale la spesa pubblica è cresciuta (+ 40% in termini reali) di più di quella privata (+ 30%), come fanno notare i curatori. Ma questa spesa ha caratteri particolari: più che allo stato centrale, è dovuta alle regioni e agli enti locali, province e comuni. E sulla propensione alla spesa conta il colore politico: contrariamente a quel che avviene in tutte le altre statistiche culturali, quelle sulla spesa pubblica mostrano che, rispetto al Nord, il Centro trasferisce alla cultura una percentuale maggiore delle proprie risorse: lo 0,89% del proprio Pil contro lo 0,61% nel Nord (e lo 0,54% nel Sud), sbilanciamento che dipende in parte dalle «regioni rosse». La stessa spesa pubblica nel settore culturale sembra poi finalizzata soprattutto a scopi di lucro immediato, cioè di salvaguardia dell'industria turistica, ovvero riducendo al suo più nudo significato commerciale l'idea che Gianni de Michelis aveva enunciato negli anni `80, dei «giacimenti culturali». Notano infatti Bodo e Spada, la crescita è stata trainata «dagli investimenti pubblici nei restauri e nell'ammodernamento del sistema museale». Un altro punto interessante che emerge dal rapporto è l'andamento della produttività proprio nel decennio che ha visto l'irruzione delle nuove tecnologie nell'industria della comunicazione (e anche dell'editoria libraria, musicale, cinematografica). A prima vista l'uso dei computer, l'informatizzazione, lo sfruttamento di Internet avrebbero dovuto accrescere in modo sbalorditivo la produttività (non è questo l'assunto che sta alla base della new economy?). In realtà, nell'industria culturale la produttività è diminuita del 6,8% tra il 1990 e il 2000. Addirittura, nel decennio il valore aggiunto è diminuito del 6,6% nell'editoria giornalistica, ed è aumentato solo del 4,9% in quella libraria, ma l'occupazione è aumentata dell'8,1% nei due settori combinati, col risultato che la produttività nell'editoria libraria e giornalistica è crollata del 10,1%. Che è successo? Che gli industriali del settore hanno trovato più conveniente assumere molti part-time, Cococo, cottimisti, cioè precari, oltre che praticare l'outsourcing, piuttosto che puntare sull'aumento di produttività di lavoratori stabili. Cioè i benefici delle nuove tecnologie sono andati in profitti da precarizzazione. Ma gli industriali della cultura dovrebbero imparare da Henry Ford che i loro lavoratori sono anche i loro consumatori, acquirenti dei beni che producono, e che perciò salari minori riducono anche il proprio fatturato. Anche sotto questo aspetto l'elemento dominante èla fragilità strutturale della classe dirigente italiana. E forse questa diagnosi sarebbe ancora più cupa se i curatori avessero potuto tenere conto compiutamente dell'ultimo quadriennio berlusconiano: alcuni tratti del ritratto in chiaroscuro degli anni `90 dipendono anche dall'alternarsi di fasi politiche di quel decennio, mentre dal 2001 in poi le tendenze più negative si sono accentuate: per di più, dopo l'11 settembre, l'Italia è stata colpita dalla crisi mondiale (tra cui quella del turismo). Ma il ritardo di quattro anni nella pubblicazione rispetto al periodo trattato è il prezzo che si paga per un lavoro accurato e intellettualmente onesto come quello di Bodo e Spada.da Il Manifesto
|