ANTIFASCISTI PER COSTITUZIONE
 











Emblema Repubblica Italiana

Black out di rappresentanza l’antipolitica ha preso il potere
Da che cosa, da quante cose il popolo italiano si liberò il 25 aprile del 1945? Dobbiamo domandarcelo, dobbiamo ricordarlo, dobbiamo riaffermarlo. Non fu solo liberazione dalle distruzioni, dai rastrellamenti, dai massacri che il terrore nazista e quello fascista spargevano per ogni strada e ogni piazza delle città, dei paesi, delle contrade, per i campi e nelle officine, nelle scuole e negli ospedali. Non solo liberazione dalla fame che una guerra temeraria e impreparata aveva prodotto aggredendo vecchi, donne, bambini, operai, impiegati, ed anche contadini confiscati dai loro prodotti dalle perquisizioni della Wehrmacht e delle Brigate nere. Non fu solo liberazione dall’incubo di un avvenire disegnato dalla follia criminale di Hitler. Fu tutto questo e più ancora. Fu liberazione di un popolo dalla degradazione di un regime che aveva derubato ad ogni donna e ad ogni uomo vivente inItalia i diritti elementari alla dignità umana, i diritti alla libertà, all’eguaglianza, a governarsi. Si denominava fascista questo regime. E il popolo italiano il 25 aprile 1945 se ne liberò. La liberazione fu liberazione dal fascismo. Fu la conquista della democrazia. Per allora e non solo.
Il regime attuale infatti non è quello fascista. I diritti di libertà (personale, di domicilio, di corrispondenza, di circolazione, di riunione, di associazione, di culto, di parola e di stampa) sono riconosciuti così come i diritti civili e anche quelli sociali, pur se compressi. Anche i diritti politici sono riconosciuti, non si disconosce certo il suffragio universale. La magistratura, pur minacciata e criticata dal governo e dalle forze che lo sostengono è sufficientemente indipendente. Non c’è censura sulla stampa quotidiana e periodica, né sulla editoria, né sulle trasmissioni radiofoniche o televisive. Non sono vietati i partiti diversi da quelli di governo. La libertà di associazionesindacale è riconosciuta e i sindacati nazionali sono più d’uno. In Italia, poi, si vota per i due rami del Parlamento, per i Consigli regionali, provinciali e comunali. Le leggi sono approvate dal Parlamento, ove si confrontano maggioranza e minoranze. I referendum sono riconosciuti come poteri di abrogazione delle leggi o dei loro singoli contenuti. Il governo, per esercitare le sue funzioni, deve ottenere il voto di fiducia dai due rami del Parlamento, un voto, per la verità scontato, perché a determinarlo è il risultato delle elezioni. Sono presenti e funzionanti due organi supremi di garanzia, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale.
C’è democrazia? Porsi, e porre, una tale domanda è già indice di inquietudine, rivela dubbi. A suscitarli è un confronto quanto mai obbligato. Quello tra l’elencazione che precede e la definizione, chiara ed articolata, meditata e profonda, ricca di saggezza politica, densa di eticità, piena di impegno civile, che la Costituzionerepubblicana dettò e detta all’Italia. Dalla Liberazione, infatti, nasceva la nostra Costituzione, ne coglieva il significato storico, segnava il grado alto di civiltà raggiunto e lo proiettava nel futuro della Nazione.
Che cosa ne è di questa definizione? Che cosa ne hanno fatto e ne fanno del lavoro-fondamento della Repubblica? Il fondamento, come si sa, è la causa, la ragion d’essere, nel nostro caso, della Costituzione e dello stato, secondo la Costituzione. È il lavoro, quindi, a causare il tipo di ordinamento che il Costituente intendeva fondare, ad esprimerne i principi, a determinare il senso della normazione futura, a dettare i contenuti della legislazione, a disegnare e le istituzioni necessarie per realizzare e sviluppare quel senso dell’ordinamento idoneo a tradurlo nel suo dover essere. E dire lavoro è lo stesso che dire lavoratore e lavoratrice. È lo stesso che elevare a fondamento della convivenza repubblicana gli esseri umani piegati, astretti, immersi nel lavoro,orgogliosi del lavoro prodotto, anelanti se in attesa di poterlo produrre. Se è vero che la connotazione che identifica la condizione umana è il lavoro, è vero anche che è il lavoro che la qualifica. È vero quindi che riconoscere dignità alla condizione umana equivale a riconoscere dignità alla condizione umana della lavoratrice e del lavoratore. Il che comporta, obbliga a riscattarlo. A riscattarlo dalla forma di merce. Il modo è nella stessa assunzione del lavoro come fondamento dello stato. Assunzione che coinvolge conseguentemente e fatalmente il rapporto di produzione come oggetto quanto mai disponibile per le leggi della Repubblica. Lo coinvolge sottraendolo alla riserva esclusiva a favore del modo di produzione esistente, in quanto uno dei termini del rapporto di produzione è lo stesso di quello statale, è il fondamento della Repubblica. Che questa assunzione apra a sviluppi che valichino i confini della formazione economico-sociale sembra possibile. Sicuro è, comunque, cheimplichi corollari oggettivi e soggettivi. Oggettivi in termini di solidarietà sociale e di eguaglianza sostanziale. Soggettivi in termini di diritti sociali.
Si può dire che questa concezione del lavoro, questa visione della condizione economica, sociale, politica delle lavoratrici e dei lavoratori, si rifletta nel vissuto delle cittadine e dei cittadini italiani? Da almeno quindici anni non c’è segno di un indirizzo legislativo che ne tenga in qualche conto. La precarietà, istituzionalizzata nelle leggi, il lavoro come mero "fattore dell’economia", dequalificato quindi a merce, la svalutazione del contratto collettivo, e, quanto ai diritti, la definizione di quelli sociali come finanziariamente condizionati, contraddicono, si oppongono, rinnegano la "Repubblica fondata sul lavoro", quella che il Costituente volle istituire, offrendo la forza del diritto alla vittoria militare, politica e morale sul fascismo.
Né si può dire che il monopolio radio televisivo con tre emittenti diproprietà propria e su altre due in ragione della carica di Presidente del consiglio garantiscono il pluralismo e la libera formazione di una opinione pubblica, condizione indefettibile di una democrazia.
Ma non basta. La democrazia moderna si basa sulla rappresentanza. Non come atto sovrano da compiere per qualche minuto, in un solo giorno, ogni cinque anni. Ma come rapporto permanente tra elettori ed eletti. Nel mentre si dissolve questo rapporto con la liquidazione dei partiti di massa favorita da leggi elettorali distorsive della volontà e degli interessi di chi vota, si trasforma la stessa rappresentanza, si capovolge il suo significato, si rovesciano i suoi termini. La legge elettorale vigente in Italia, permette che a scegliere i membri del Parlamento non sia il corpo elettorale, ma i leaders dei partiti. Ciascun di questi, nel comporre la lista dei candidati, ne decide la posizione. Ad entrare nelle due Camere del Parlamento sono quelli che il leader colloca in cima allalista e via via in ordine decrescente la loro fedeltà. I parlamentari quindi sono nominati dal leader, per diventare i suoi agenti in Parlamento. Se il leader diventa Presidente del consiglio non risponderà ai rappresentanti del popolo ma… a chi agisce per lui in Parlamento, cioè a nessuno. Il culmine della mistificazione della rappresentanza è compiuto. Con essa il popolo è espropriato della sovranità che è trasferita ad un cittadino solo. Che, in nome dell’antipolitica, acquisisce tutto il potere politico.
Il popolo italiano il 25 aprile 1945, conquistando la democrazia, riservò a se stesso, a tutto se stesso, la sovranità, cioè il monopolio delle decisioni e dell’azione politica dello stato. Gli varestituito.                                                       Gianni Ferrara
 
Segreti di Stato, per quanto ancora dobbiamo tenerceli?
Il prossimo primo maggio avrebbe dovuto essere il giorno dedicato alla svolta, alla rimozione del segreto di Stato su documenti che da almeno 30 anni sono stati sottratti a qualunque forma di trasparenza. Pare proprio che invece non sarà così. Perché? La risposta sta forse in una famosa frase di Hans Enzenberger: «il segreto di Stato è diventato uno strumento di dominio di prim’ordine [...] Il numero dei segreti di Stato che uno conosce diventa la misura del suo rango e dei suoi privilegi in una gerarchia sottilmente graduata. La massa dei dominati èsenza segreti: non ha cioè nessun diritto di partecipare al potere, di criticarlo e di sorvegliarlo». I "segreti" creano sempre nuove aristocrazie e fanno di noi dei sudditi anziché dei cittadini. Dal 2007 si attende la nuova normativa sul segreto di Stato che consentirebbe a studiosi e giornalisti di portare alla luce pagine rimaste misteriose della nostra storia, Ustica, il caso Moro o la strage di Piazza Fontana. Ma i tempi della "verità" (sempre ammesso che stia scritta in quelle carte) si allungano. Non sembra che il governo Berlusconi sia il più adatto a spalancare i santuari del segreto. Non è ottimista Giuseppe De Lutiis, coordinatore dei consulenti della Commissione parlamentare su stragi e terrorismo dal 1994 al 2001, uno dei massimi esperti italiani di Servizi segreti.
Dopo l’approvazione con decreto dei regolamenti attuativi della nuova legge sono caduti gli ultimi impedimenti e sembra che dal 1° maggio 2009 si farà chiarezza su molti passaggi storici sino ad oggisegreti. E’ così?
Purtroppo le cose non stanno esattamente in questi termini: la legge pone sì un limite di 15 anni (prorogabili per altri quindici una sola volta) alla caduta del segreto di Stato, ma questo non comporta automaticamente la scomparsa delle limitazioni tradizionali, per cui se il documento è classificato "segretissimo", potrebbero occorrere altri quindici anni per scalare le classifiche a "segreto", "riservatissimo", "riservato", a meno che l’ente che ha apposto la classifica non decida, a sua volta, di saltare un passaggio. Purtroppo, la rimozione del segreto di Stato non comporta la contestuale rimozione di altre classifiche di segretezza, e dunque questo fatto potrebbe vanificare, o limitare fortemente, ogni effetto positivo dell’applicazione della legge del 2007.
Si è detto che è un fatto storico, epocale e senza precedenti...
Allo stato dei fatti, no. Ma il presidente del Consiglio Berlusconi, attraverso il sottosegretario Letta, che ha la delega sullamateria, ha istituito il 23 settembre 2008 una Commissione, presieduta dal costituzionalista Renato Granata, per definire, entro sei mesi, le procedure di accesso alla documentazione. La commissione dovrebbe concludere i suoi lavori a breve scadenza. Essa ha facoltà di indicare, eventualmente, anche variazioni della stessa legge del 2007, ma poi il Parlamento dovrebbe ratificare queste indicazioni.
Con un nuovo allungamento dei tempi. Su quali vicende storiche potrebbero emergere novità importanti?
Sono ancora coperti da segreto una parte dei documenti relativi ad alcune stragi che i soldati piemontesi commisero nel 1861 in molti paesi dell’Italia centromeridionale - primi fra tutti Casalduni e Pontelandolfo in Campania - quando, per combattere il brigantaggio, commisero atrocità sulla popolazione che un alto ufficiale mi ha confidato essere state "molto peggiori di quelle di Marzabotto". Mi contenterei di conoscere tutti i particolari di quelle efferatezze, i nomi di tutti ipartecipanti alla strage di Portella della Ginestra, compresi i fascisti della X Mas di Valerio Borghese, le vere modalità dell’uccisione di Salvatore Giuliano, di Gaspare Pisciotta e i documenti della Commissione parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 (cioè il Piano Solo), che sono stati segretati nel 1970 e sono ancora segreti, tranne cinquemila pagine che furono meritoriamente desegretate dal presidente Andreotti nel 1990, ma che sono solo una parte molto esigua della documentazione totale. Infine vorrei conferma o meno che la strage di piazza Fontana sia stata pensata e architettata in una base militare in Alta Italia che non è sotto la giurisdizione italiana.
L’introduzione di un limite di tempo al perdurare del segreto di stato sarà garanzia sufficiente perché in futuro non si ripetano casi di questo tipo?
Certamente l’introduzione di un limite di tempo alla segretezza dei documenti rappresenta un freno alla tentazione di compiere atti illegali eanti-istituzionali, anche se io penso che la via maestra per garantire la lealtà dei dirigenti dei servizi sia quella di scegliere con accuratezza dei galantuomini per questi incarichi delicati. C’è peraltro da dire che - a parte le ruberie di alcuni dirigenti del Sisde scoperte nel 1993 - le più gravi "deviazioni" dei servizi sono tutte anteriori alla caduta del Muro, il che significa che esse furono attuate nel quadro della Guerra Fredda, adempiendo a ordini che provenivano da catene anomale di comando che facevano riferimento a organismi sovranazionali che avevano il potere di scavalcare le normali gerarchie.
Ci sono casi in cui l’apposizione del Segreto di Stato ha ostacolato l’accertamento della verità giudiziaria?
Formalmente vi è una legge che proibisce l’opposizione del segreto di Stato nei procedimenti per strage, ma tutti siamo consapevoli che almeno per la tragedia di Ustica e per la caduta dell’aereo Argo 16 a Marghera nel 1973, un segreto di Stato di fatto haimpedito di chiarire le due vicende, anche se esso non è mai stato formalmente opposto. Anche tutte le ripetute azioni di depistaggio attuate dai Servizi nelle indagini della magistratura sulle stragi dei primi anni Settanta sono in pratica dovute all’esigenza di non rivelare verità indicibili nell’atmosfera della Guerra Fredda.
Ci sono altri "segreti" sui quali non è stata avviata alcuna operazione di trasparenza?
Temo che la riservatezza che grava sui documenti conservati negli archivi dell’Arma dei Carabinieri sia ancora più ferrea di quella che finora c’è stata sui documenti dei servizi segreti. Penso che il governo e il Parlamento dovrebbero affrontare presto questo problema che riguarda anche i documenti riservati della Guardia di Finanza. E’ abbastanza paradossale che si possa creare una situazione per cui l’accesso ai documenti dei Servizi sia più facile rispetto a quelli dell’archivio dei Carabinieri. Luigi Grimaldi

La memoria condivisa?Sarebbe come l’Alzheimer
Tutti e tutte abbiamo paura di perdere individualmente la memoria, che ci venga l’Alzheimer, perchè l’identità e tutti gli indicatori utili per relazionarci al mondo così si perdono, stingono e non abbiamo più cognizione di noi stessi. Non si capisce perchè invece un Alzheimer politicamente indotto dovrebbe essere salutare ed essere accolto e addirittura praticato, consigliato, divenire programma politico. Oppure si capisce anche troppo bene: un popolo immemore di se stesso può essere condotto ovunque, non ha difese, perde il passato e non ha come costruirsi un futuro.
Perciò il tentativo di Fini di cancellare l’antifascismo, dato che il fascismo non c’è più - lui stesso che se ne intende lo afferma - è molto pericoloso.
Lasciamo stare per un momento di vedere se il fascismo non c’è proprio più, se il ventre che lo ha generato, davvero non è più fecondo: molti tentativi di semplificazione del sistema istituzionale vanno in senso autoritario,tendono a ridurre la democrazia multilivello e multiordinamento territoriale per averne una più spiccia e facile da comandare: ma, come si è visto ancora dal terremoto dell’Aquila, una Protezione civile molto veloce attiva e non criticabile, se però non è stazionata sul territorio da prima, e non accumula memoria degli altri sismi che pure non ci sono più, e non lavora per addestrare la popolazione trasmettendole memoria, alla fine non riesce ad evitare un numero esorbitante di rovine e soprattutto di morti.
Ma veniamo al 25 aprile, Festa della Liberazione: da che? dal fascismo e dal nazismo. Almeno per capire il senso della festa bisogna sapere da che ci siamo liberati. Le vicende storiche si affrontano in termini di conoscenza, la più critica e ragionata possibile, evitando a priori le operazioni di manipolazione, come è stato fatto per l’appunto sul nostro recente passato, quando si propose la politica della memoria condivisa: la storiografia naturalmente non può proporsi dicostruire una memoria condivisa , è antiscientifico fare storia avendo già un fine da dimostrare.
Purtroppo ciò era già stato fatto in tempi non democratici (anche prima del fascismo, che come non è un episodio da cancellare, non fu nemmeno la repentina malattia di un sistema politico perfetto, il che in qualche modo riteneva Croce) con la memoria della costruzione dello stato italiano: infatti ciò che del Risorgimento si volle trasmettere fu il tentativo di "condividere" una storia raccontata falsamente: il progetto di costruire gli Italiani dopo costruita l’Italia su un modello di suddito obbediente e disposto a versare sangue in guerre e avventure di ogni genere, non funzionò come dimostrano - a tacer d’altro - la "Questione romana" e il "Banditismo del Mezzogiorno": e sarà un caso che la laicità dello stato e il governo della criminalità sono problemi ancora aperti?
Tutto ciò è noto, storia che si studia a scuola. Ma vorrei provare a dimostrare che una trasmissione acritica epregiudiziale non funziona, non solo nel male, ma anche nel bene e che le coscienze riescono sì a superare i vincoli e a dissipare il fumo indotto da una storiografia ufficiale e apologetica, solo però con grande fatica. Ma la fiducia che la ragione e la coscienza possono mutare lo stato delle cose presenti, agendo in modo coordinato e attivo è il fondamento etico della democrazia, forma della politica eccellente perchè autocorreggibile e poggiata su una fiducia forte nella specie umana. Che da "plebe all’opre china" può trasformarsi in soggetto che ha "ideali in cui sperar", ad onta di tutta la intrinsecamente non democratica antipolitica e di ogni qualunquismo denigratorio.
La Resistenza è una dimostrazione dolorosa ma limpidissima di tutto ciò: se centinaia di migliaia di militari italiani presi prigionieri su tutti i fronti dai Nazi dopo l’otto settembre 1943 trovarono modo coraggio e coscienza di dire no a Hitler e a Mussolini; se i giovani meridionali sorpresi dall’armistizioa nord della linea gotica presero parte in gran numero alla Resistenza (che fu evento del nord solo per dislocazione territoriale dalle Alpi fino a Massa e a Carrara e fino alla Maiella, ma nazionale per la presenza delle persone che vi presero parte); se i ragazzi delle giovani generazioni rifiutarono di obbedire ai bandi di Graziani (eppure a scuola si doveva dare ogni anno l’esame di dottrina del fascismo); e se le ragazze e le donne che erano sempre state escluse dalla politica trovarono il coraggio e la capacità di entrare nella Resistenza in molte forme e con decisione e autonomia, ciò significa che la nuova storia italiana nasce da una precisa rottura infrazione discontinuità col passato monarchico e fascista. Credo che i fascisti se ne siano resi conto allora, perchè inventarono la più triste delle canzoni di guerra, ancor più triste di Lili Marleen, e dice : "le donne non ci vogliono più bene perchè portiamo la camicia nera" ecc. Qui, persino nella dichiarata impossibilità cheesista il più elementare rapporto tra uomo e donna si mostra un ostacolo senza rimedio, un rifiuto che resta storico e deve essere ricordato in modo civile e non vendicativo certo, ma non può essere ridotto a una notte in cui tutto è per l’appunto "nero". O eguagliato in un ordine del tricolore offeso e macchiato.
La storia dell’Italia non più suddita nasce in quegli anni, in quei mesi tragici e non è possibire fondare il patto politico sommo se non sulla Costituzione che ci rese cittadini e cittadine appunto sconfiggendo monarchia e fascismo e scrivendo la coscienza antifascista di un intero popolo.                                                  Lidia Menapace

Inclusione e cittadinanza l’antifascismo attuale
Ci dicono che l’antifascismo oggi non serve più. Che se ne possono riconoscere i meriti - e chi mai potrebbe negarlo? La lotta di Resistenza ha portato nel nostro paese libertà, democrazia e una carta costituzionale tra le più avanzate in Europa. Ma non basta il mantra dei giorni scorsi - il 25 aprile è la festa di tutti - a mettere tutti d’accordo, a omologare le memorie, ad avere tutti la stessa idea di democrazia. E’ sul presente di questa categoria, l’antifascismo, sul suo significato politico attuale che ci si divide. E non ci si può non dividere finché si vuol fare dell’antifascismo un’esperienza storica bell’e conclusa, da mettere sotto teca nel museo delle robe passate oppure una categoria annacquata, stemperata, scolorita. Con lo scioglimento di An scompare l’ultimo partito - fatta eccezione per gruppi minoritari - che manteneva un qualche riferimento all’esperienza storica del fascismo. Perché, allora, mantenere in vita l’antifascismo, si è ripetuto in questigiorni? Il ragionamento che viene dal pensatoio del partito berlusconiano è semplice: simul stabunt, simul cadent , fascismo e antifascismo appartengono alla storia, morti e sepolti, ognuno con le proprie colpe e i propri meriti, non importa. E’ nato un nuovo arco costituzionale, a essere escluso dal quale è l’antifascismo cattivo, l’antifascismo dei comunisti, l’antifascismo legato ai conflitti sociali e alla storia del movimento operaio di questo paese. Ma rischiamo di perdere anche quell’antifascismo unico antidoto al populismo, allo svuotamento della democrazia, al razzismo, alla crisi di laicità, al restringimento degli spazi di cittadinanza. E’ proprio di quest’ultimo aspetto che abbiamo parlato con lo storico Giovanni De Luna.
Quanti tipi di antifascismo esistono?
E’ chiaro che l’antifascismo ha avuto caratterizzazioni diverse a seconda delle fasi che hanno scandito la nostra storia, anche quella repubblicana. C’è un antifascismo inteso nel senso più strettamentestoriografico di opposizione al fascismo che finisce nel momento in cui termina il fascismo stesso. Gli antifascisti lo capirono subito dopo la fine della guerra: "come è difficile fare gli antifascisti quando non c’è più il fascismo". Poi c’è un antifascismo del sistema politico dell’Italia repubblicana, cui faceva riferimento il cosiddetto arco costituzionale almeno fino agli anni Ottanta. Era un patto tra partiti che non aveva tanto valori di riferimento ma identificava piuttosto uno schieramento che andava dal Pci al Partito liberale. In un’ulteriore accezione, ancora più restrittiva, l’antifascismo poteva servire a delimitare maggioranze governative, a legittimare per esempio il Pci nella seconda metà degli anni ’70. Un’accezione, se vogliamo, molto politologica. Queste due versioni dell’antifascismo, come arco costituzionale e come criterio discriminante delle maggioranze governative, sono definitivamente tramontate nella seconda metà degli anni ’80. C’è poi un altro significato:l’antifascismo come motore del conflitto sociale con un risvolto di classe che è molto presente nelle lotte operaie degli anni ’50 e, in forma ancor più dispiegata, nel luglio ’60, nel movimento delle magliette a strisce. E, più avanti, nel ’68-’69 dove l’antifascismo militante si struttura proprio sulla base di quella che allora veniva definita la centralità operaia. L’antifascismo militante guarda alle lotte di fabbrica, è protagonista delle lotte sociali, quindi non più in una dimensione politica, istituzionale e partitica, bensì in una dimensione legata al conflitto di classe. Che tramonta - se dovessi indicare una data - con i 35 giorni della Fiat. Esisteva poi ancora un altro tipo di antifascismo legato non tanto alla tematica di fabbrica o del conflitto di classe, ma a quella dei diritti civili degli anni ’70, alle battaglie contro le norme del codice Rocco, per il divorzio e l’aborto, che puntava a scalzare dalle istituzioni italiane tutto quello che di fascista era rimastodalla fine della guerra ed era trasmigrato all’interno della magistratura, dei carabinieri, delle forze dell’ordine. In questo tipo di antifascismo precipitano le lotte per l’ampliamento dei diritti. Queste varianti dell’antifascismo, a partire dagli anni ’90, si afflosciano su se stesse.
Cosa resta allora oggi dell’antifascismo?
Un elemento permanente del nostro sistema politico. Rimane questa caratterizzazione dell’antifascismo come un surplus di democrazia che è molto presente nella carta costituzionale. Per questo io credo che oggi antifascismo e Costituzione siano strettamente connessi. E’ la Costituzione a garantire la permanenza dell’antifascismo come valore di riferimento. La caratteristica della nostra storia del Novecento non è quella d’aver partorito il comunismo, ma di aver partorito il fascismo. Questo problema non può essere rimosso da questo paese. Proprio dalle sue viscere profonde è stato partorito il primo regime totalitario del ’900. Se non si considera ilfascismo una parentesi, come faceva Croce, o se non lo si considera come una reazione di classe, come facevano comunisti e socialisti, ma lo si considera come Gobetti, come autobiografia di una nazione, sappiamo allora che nel nostro dna il rischio di abbracciare soluzioni autoritarie, plebiscitarie, illiberali è sempre presente. L’antifascismo è una sorta di antidoto verso quella tentazione.
La storia dell’Italia repubblicana ha avuto pagine oscure, dalle trame atlantiche allo stragismo. Ma a parte questo, non esiste ancora oggi una tendenza autoritaria profonda, come diceva Gramsci un sovversivismo delle classi dirigenti?
Alla dimensione della storia oscura non darei importanza. Rifletterei invece sull’oggi. Siamo chiamati a confrontarci con meccanismi di inclusione ed esclusione che rappresentano un fronte del tutto inedito per la nostra democrazia. L’antifascismo conserva intatta una valenza inclusiva. Dopo il fascismo che aveva l’autorità come principio gerarchico, ognuno alposto suo, chiuso nel proprio compartimento stagno, l’antifascismo ruppe quell’ordine e propose un concetto molto inclusivo della cittadinanza. Oggi abbiamo effetti di esclusione che non abbiamo mai sperimentato prima. C’è il problema della convivenza con l’altro - non come icona propagandistica esotica ma come un altro che condivide il nostro spazio pubblico, il nostro luogo di lavoro. Questa convivenza ci pone problemi culturali inediti. Da questo punto di vista io credo che l’antifascismo serve da antidoto al razzismo, all’intolleranza, alla recrudescenza di gerarchie autoritarie, del "ciascuno al suo posto", che oggi potremmo tradurre in "ognuno padrone a casa sua". Sono, questi fenomeni, la testimonianza di un’identità italiana aggressiva, pronta a difendersi dalle sue paure. L’antifascismo con la sua proposta di democrazia inclusiva è ancora molto attuale.
Anche perché possono esserci forze politiche pronte a sfruttare la pancia del paese, a utilizzare le viscere e gli umoricome serbatoio di voti. Non crede?
A preoccupare non sono tanto i progetti eversivi o autoritari che ci possono essere in Berlusconi in Bossi o in Fini. E’ il senso comune che sta crescendo. Credo che, tutto sommato, in nessuna forza politica ci sia un progetto autoritario da realizzare credo però che ci sia un senso comune che si sta caricando sempre più di nuove valenze aggressive nei cui confronti c’è bisogno di un antidoto che non è tanto la politica che può dare, quanto piuttosto la cultura o, se vogliamo, un nuovo modo di stare tra la gente. Va totalmente reinventato. Uno degli elementi profondamente inclusivi del Novecento, per fare un esempio, era la grande fabbrica fordista. A Mirafiori c’erano sessantamila operai. Che fossero di Cerignola, che fossero sardi o torinesi facevano tutti lo stesso lavoro, tutti alla stessa linea, quindi era un potentissimo elemento di aggregazione e inclusione. Oggi la fabbrica fordista non c’è. E allora quali sono oggi gli strumentidell’inclusione? Questa è la riflessione da fare al di là della dimensione politica del fenomeno.
Il nesso tra antifascismo e lotta di classe c’era già all’interno della Resistenza, come ci ha spiegato Claudio Pavone. La crisi attuale dell’antifascismo non deriva dall’appannarsi del movimento operaio e dei partiti della sinistra?
Non c’è dubbio. Quell’antifascismo che poteva raccordarsi a elementi di lotta di classe e di conflitto di fabbrica non c’è più. E’ tramontato quando sono tramontati quei soggetti sociali. Con la sparizione dell’operaio di mestiere, prima, e di massa, poi, è scomparso quell’humus antropologico nel quale quel tipo di antifascismo poteva prosperare. Così come è sparito l’antifascismo come patto sulle procedure è sparito anche quello delle lotte sociali. Era una dimensione novecentesca. Oggi non potrebbe sopravvivere perchè è sparito il ’900. L’unica dimensione in cui vedo un antifascismo ancora operante e dinamico è quello sul fronte della democraziainclusiva.Tonino Bucci

 

 
 
 

 









   
 



 
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