La Marlane non c’è più ma ancora fa morire
 







di Checchino Antonini




Ci sono voluti dieci anni per terminare le indagini. Nel frattempo il mucchio di morti s’è fatto sempre più impressionante. Centocinquanta tra decessi e malati, tutti operai della Marlane. Ma la cifra è provvisoria. Praia a Mare, provincia di Cosenza. Qui la fame di lavoro è diventata l’orrore del cancro per decine di operai. Alla gola, ai polmoni, alle vesciche, utero, mammelle. Il cromo 6, il cromo isovalente, una delle tante sostanze ritrovate, attacca qualsiasi organo vitale. E l’incubo continua. La tintoria "tops", dove tingevano la lana e altre fibre sintetiche, è stata smantellata e rottamata da tredici anni, e la tintoria "pezze" è stata ammodernata all’inizio degli anni ’90 ma solo nel 96 è stata isolata dagli altri reparti. Ma i veleni covano ancora nel sottosuolo, dove sono stati seppelliti i rifiuti tossici, tra la fabbrica e la spiaggia. Il fascicolo appena chiuso dalla Procura di Paola ipotizza il reato di omicidio colposo a carico didodici indagati, frutto dell’accorpamento di tre procedimenti sulla connessione tra i decessi e l’uso di coloranti azoici (con ammine aromatiche) e un mix di altre sostanze tossiche.
I telai avevano freni con pasticche di amianto che si consumavano rapidamente e i tubi e le guarnizioni erano ricoperti dalla stessa sostanza. Ma già si sapeva da mezzo secolo che l’amianto è velenoso. Omicidio sì, ma volontario e doloso. Gli avvocati delle vittime chiederanno certamente la trasformazione del capo d’accusa. «Ma quei dirigenti devono essere incriminati anche per disastro ambientale - dice Ciro Pesacane del Forum Ambientalista che indice un dibattito per martedì prossimo a Praia - l’impresa sembra facesse lavorare i suoi operai senza alcun rispetto delle norme sulla sicurezza».
«I primi decessi sono avvenuti nel ’73 - ricorda a Liberazione , Luigi Pacchiano, dal ’69 al ’95 operaio della Marlane, ammalato di cancro dal ’93 - erano due compagni di 35 anni». Era un’ambiente di lavoroterribile, invaso da polvere, fumi, vapori e cattivi odori. «Durante l’estate dovevamo scappare fuori perché era impossibile respirare». Mai una visita medica, nessuna misura di protezione. Qualcuno, se l’azienda lo riteneva opportuno, riceveva mezzo litro di latte al giorno. «Dicevano che si sarebbero disintossicati. Allora lo sapevano che eravamo a rischio».
La fabbrica comincia nella seconda metà degli anni ’50 come Lanificio di Maratea R2, sforna soprattutto divise militari per il conte Rivetti, sceso da Biella per sfruttare con 3 fabbriche la Cassa del Mezzogiorno. «Sembrava la manna dal cielo», ricorda ancora Pacchiano. Duemila le donne e gli uomini calabresi e lucani che lavorarono negli stabilimenti del Conte. Quando Pacchiano arriva da Maratea in fabbrica già non c’erano più muri divisori tra un reparto e l’altro. Erano stati abbattuti per fare spazio a uomini e macchine del Lanificio R1 arrivati con i reparti tessitura, orditura e incollaggio. «Eravamo incastrati trafilatura, tintoria e finisaggio, l’"apparecchio umido"». I veleni si propagavano su tutto l’ambiente di lavoro. I primi a subirne gli effetti sono stati gli addetti alla tintoria e chi gli lavorava vicino. Nel frattempo la ditta viene assorbita dall’Eni Lanerossi. «I coloranti venivano miscelati a mani nude in un secchio e li mescolavano con un bastone, poi versati nelle vasche, aperte anche loro». Tutto ciò fino all’inizio degli anni ’90. Gli aspiratori c’erano. «Ma non funzionavano e non sarebbero stati sufficienti». La polvere nera entrava nella gola, nelle narici. Si pisciava colorante.
Nell’87, il gruppo Lanerossi viene svenduto, come l’Alfa e la Cirio, dall’Iri di Prodi alla Marzotto per una cifra, 173 miliardi, inferiore alla multa di 261 miliardi che l’Italia pagò all’Ue per l’illecito finanziamento fatto alle aziende parastatali per renderle appetibili per le privatizzazioni. Inizia un decennio di smantellamenti progressivi ed esternalizzazioni.
Intanto, sonocominciate le denunce. Il primo è Luigi che si ammala nel ’93. Un anno dopo l’Inail gli riconosce la malattia professionale ma l’azienda si rifiuta di trasferirlo dalla postazione "tossica". Due anni dopo è costretto alle dimissioni. La sua battaglia ha vinto i primi due gradi di giudizio ma la Marzotto sta provando a fare melina in Cassazione. In questo momento c’è una trentina di gruppi di lavoratori o di loro eredi che hanno denunciato e altre decine sono in attesa di costituirsi in giudizio.









   
 



 
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