«Non abbiamo un pianeta B». Un secondo pianeta di riserva, cioè, sul quale rifugiarci per sfuggire alle conseguenze dei cambiamenti climatici. I centomila e più che come me hanno sfilato nelle strade di Copenhagen per chiedere «di cambiare il sistema, non il nostro clima», ce l’hanno chiaro in mente. Dopo i molti giorni passati tra Klima Forum, il vertice alternativo, e Bella Center, la sede della Conferenza Onu sul clima dove con la coalizione Climate Justice Now! a rincorrere testi e indiscrezioni sui negoziati sul clima da portare fuori, ieri il corteo. Cercare di capire meglio che cosa i nostri capi di Stato e di governo stanno pensando di fare per rimediare ai danni fatti al pianeta dal nostro modello di sviluppo. Stiamo lavorando insieme per costringerli a fare meglio, molto meglio di quello che hanno in mente. Abbiamo marciato insieme, tra panda con la testa in fiamme (un messaggio alla Cina) e mondi con il salvagente, tratrampoli-burattinai che tenevano saldi in mano i fili di manovra dei leader del pianeta, e i camion de la Via Campesina, tra carrozzine di bambini sorridenti e genitori preoccupati, tra studenti pessimisti sul loro futuro, centri sociali e le tante famiglie di Copenhagen che ci hanno aperto le case, i balconi, addirittura i negozi, con un’unica preoccupazione comune: che cosa ne sarà delle nostre città se la febbre del pianeta non scende in fretta? Se i leader globali, ma anche alcune organizzazioni, continueranno a fare ragioneria sui gradi della temperatura globale da ridurre, sulle percentuali di emissioni da tagliare, mentre i ghiacciai continuano a sciogliersi, il livello del mare a salire, i tifoni a moltiplicarsi e la gente a morire? Quello che chiede questo schieramento ampio è un accordo vero per una politica nuova. «L’estrazione di carburanti fossili sta uccidendo la mia gente di cancro, e il pianeta con l’anidride carbonica», raccontava nel corteo Crystal Frank, giovaneleader di Rediol, rete di resistenza dei nativi dei villaggi del Circolo polare artico - Non so perché quelli che negoziano non capiscono che lasciare che la temperatura aumenti fino a due gradi significa condannarci a morte». L’operazione che stanno facendo i nostri governi «è di trasformare il caos ambientale in una merce - chiarisce Josie Riffaud, contadina de La Via Campesina - Dobbiamo continuare a lottare, a marciare, a farci sentire perché è oltraggioso che ci propongano obiettivi inefficaci e false soluzioni». Ma anche gli emergenti devono cambiare strada: «Pensa al mio Brasile - dice Manuel Cunha, indigeno siringuero dello stato di Amazona - una speranza politica per il mondo eppure sviluppista convinto, con una politica produttiva che non ha alcun riguardo agli impatti sociali e ambientali, puntata al profitto, a quella crescita che erode migliaia di ettari di foresta scacciando e uccidendo il mio popolo che per secoli l’ha custodita e protetta a costo della vita,permettendo al pianeta di respirare». Quando il corteo, dopo ore di marcia, canti, azioni simboliche di fronte alle sedi di alcune grandi multinazionali, si scioglie davanti al Bella Center, la sede del vertice ufficiale, è notte. Nella plenaria della mattina Ian Fry, delegato della piccola isola di Tuvalu che rischia di venire sommersa da un giorno all’altro per il clima, è scoppiato a piangere. «La vita dei miei 10mila concittadini è nelle vostre mani». Nella luce metallica dei lampioni si stagliano, regalo post-manifestazione di un gruppo di artisti di strada, tre feticci africani issati su altissimi pali e coperti da un velo di lutto, che guardano severi verso il vertice. Il 16 prossimo un’Assemblea dei popoli si convocherà ai loro piedi, chiedendo ai delegati di uscire e di ascoltare la voce dei loro cittadini. Non abbiamo un "pianeta B", gli ricorderemo, ma una storia sola, tutta da riscrivere. *Portavoce di Fair nella coalizione Climate Justice Now! www.faircoop.net/faircoop
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