Ecco di nuovo D’Alema, il "solo" politico che ha la stoffa dello statista di rango, l’uomo che anticipa di tre mosse quelle di amici e avversari, tornare prepotentemente alla ribalta con una nuova, sensazionale trovata, una sorta di «mossa del cavallo», capace di scompaginare le carte, depurare il clima avvelenato in cui si è avvitato lo scontro politico, rimettere in moto una situazione che pareva irrimediabilmente ingessata. E in cosa consisterebbe questa geniale escogitazione partorita dall’eccellentissima mente di Massimo D’Alema? Nulla di più semplice. Basta dare a Berlusconi quello che egli brama: la certezza dell’impunità tramite immunità. Un artifizio che renda certo il premier di non avere più nulla da temere, che lo sottragga all’incubo della «persecuzione giudiziaria», del «complotto» contro di lui ordito da una perfida macchinazione. Una volta recuperata questa personale serenità, Berlusconi abbandonerebbe ogni propensione paragolpista(anzi: vi è mai stata in lui una simile tentazione?), ogni velleità da caudillo, per disporsi ad un dialogo serio, ad una riabilitazione della politica come confronto democratico di idee e di programmi. Di più: alla costruzione condivisa - e non più di parte - di nuove riforme istituzionali. D’Alema, dunque, suppone che una volta offerto, in qualsivoglia modo («non ha importanza di che colore è il gatto pur che prenda i topi») il salvacondotto a Berlusconi, la compulsiva, distruttiva crociata che questi ha scatenato, nell’ordine, contro l’impianto egualitario della Costituzione, contro lo stato di diritto, contro l’indipendenza della magistratura, contro la libertà dell’informazione, contro tutti gli organi di garanzia, si dissolva come neve al sole. Improvvisamente, il caudillo diventerebbe un agnello mansueto e - una volta convertito alle regole della democrazia - darebbe il suo consenso a metter mano al colossale conflitto di interessi che si incarna nella sua persona,inaugurerebbe una nuova primavera parlamentare, togliendo i sigilli alle Camere oggi ridotte a simulacri del potere legislativo. A quel punto, magicamente, prenderebbe l’abbrivio il confronto sulle riforme, quelle sociali in particolare. Giulio Tremonti smetterebbe di flirtare con gli evasori, rinuncerebbe alla proroga dello scudo fiscale e aprirebbe i cordoni della borsa, non più per regalare prebende agli industriali, ma per rilanciare l’esangue sistema degli ammortizzatori sociali; Roberto Maroni inaugurerebbe una stagione di accoglienza, relegando nel dimenticatoio le misure da pogrom razzista e mettendo mano ad una seria modifica della legislazione in materia di immigrazione e di sicurezza; Maria Stella Gelmini riaprirebbe il confronto con studenti, insegnanti, genitori per tentare un rilancio della scuola pubblica, dell’università e della ricerca. Con analogo spirito costruttivo, Angelino Alfano riafferrerebbe il filo del dialogo con la magistratura e proverebbe adoccuparsi davvero del diritto di ogni cittadino ad una giustizia rapida e garantista; Maurizio Sacconi abbandonerebbe la forsennata vis demolitoria contro ciò che rimane del welfare e contro il sindacato per ricostruire qualcosa che somigli ad un sistema di protezione sociale; Ignazio La Russa, da par suo, istruirebbe una discussione sino ad ora mai fatta sulla presenza dei soldati italiani nei vari teatri di guerra, per ragionare su una possibile exit-strategy e restituire un senso all’art. 11 della Costituzione. Questo ed altro ancora D’Alema immagina potersi verificare una volta baipassata la singolar tenzone con Berlusconi? E se, invece, non si tratta di questo, in cosa davvero consiste il compromesso (diciamolo in modo elegante) di cui parla l’immarcescibile «baffino»?
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