Sud al veleno
 







Tiziana Barillà




Siamo in provincia di Reggio Calabria dove, da circa 40 anni, si continuano a scoprire le tragiche conseguenze del fallimento delle politiche degli anni 70. Saline Joniche ne è, suo malgrado, un simbolo. In una terra, la Calabria, che pur non essendo industrializzata presenta un tasso tumorale pari a quello dei maggiori centri industriali europei, viene proposto come volano del nuovo sviluppo una centrale a carbone.
Fin dal 1970, quando per mettere fine alla Rivolta reggina il governo centrale pensò di affiancare alla forza repressiva dell’esercito un allettante piano di sviluppo economico, si cominciò a parlare dell’insediamento nel territorio reggino di apparati produttivi. Tra essi i poli industriali di Saline Joniche: 300 miliardi di lire per dare vita allo stabilimento Liquichimica, che avrebbe dovuto dare lavoro a circa mille persone. La struttura venne ultimata nel 1974, giusto il tempo di distruggere la costa jonica e dare inizio allaprimissima produzione delle bioproteine che l’allora Ministero dell’Ambiente bloccò per il rischio di agenti cancerogeni. Dopo il fallimento dichiarato nel 1977, la Liquichimica finisce nel calderone dell’Enichem assieme alla Sir di Rovelli, che manda in cassa integrazione circa 600 operai. Vent’anni dopo il Consorzio Sipi (Saline Ioniche Progetto Integrato), costituito da imprenditori locali, rileva all’asta gli impianti e i terreni ex Enichem con l’obiettivo di rottamare il ferro e l’acciaio degli impianti e rivendere il terreno.
Nel 2006 si presenta per la prima volta l’ipotesi di una centrale a carbone: l’impresa svizzera Sei SpA (Società Energia Saline composta da Ratia Energia G.A., Hera S.p.A., Foster Wheeler Italiana S.p.A., Apri Sviluppo) acquista dalla Sipi una parte dell’area dove sorgeva l’ex Liquichimica nel comune di Montebello Jonico, per la realizzazione di una centrale termoelettrica con la potenza di 1320 MW, con raffreddamento ad acqua di mare. Insomma unacentrale a carbone, lo stesso carbone il cui utilizzo per la produzione di energia elettrica è vietato dal Piano Energetico Regionale della Calabria per tutto il territorio calabrese.
Nuovo progetto, nuovo investimento, questa volta tanto ingente da sembrare un buon affare: un miliardo di euro, cui si aggiungerebbero 500 milioni di investimento per le infrastrutture, più 1,7 milioni all’anno per i costi di esercizio. Non fosse altro che tra le varie fonti energetiche, quella a carbone è proprio la maggiore produttrice di CO2, ossido di azoto e zolfo e polveri, tutte sostanze altamente cancerogene, cardiotossiche o capaci di interferire sullo sviluppo del sistema nervoso. Inoltre, il progetto prevede una tecnica di cui ancora non si conoscono i rischi, specie di tipo geologico, a cui si potrebbe incorrere: l’immissione, in appositi contenitori installati nel sottosuolo, della CO2 prodotta. «Il problema insuperato ed insuperabile - come sostiene Nuccio Barillà di Legambiente - è chenon esistono al mondo tecnologie in grado di abbattere e smaltire la CO2».
In Italia le centrali a carbone funzionanti sono 12 e tra gli impianti a carbone, attivi oggi in Italia, i più inquinanti per produzione di Co2 risultano Brindisi Sud, di proprietà Enel (14,2 milioni di tonnellate di Co2 a fronte di un limite Ets di 13,4), la centrale ex Endesa, oggi E.On, di Fiume Santo (Ss) (4,3 milioni di tonnellate, +0,7 rispetto al limite Ets) e l’impianto Enel di Fusina (Ve) (4,2 milioni di tonnellate, -0,6 rispetto al limite Ets).
Questa la nuova proposta che lo Stato fa ai calabresi. E per superare il vincolo regionale nasce ad hoc una «legge incostituzionale - come ricorda Michelangelo Tripodi, assessore regionale all’Urbanistica - la modifica di legge che pone il "conflitto di competenza" prevede che oltre i 300MW le decisioni siano di esclusiva competenza dello Stato centrale.
Ma i calabresi hanno ormai imparato che non basta dire No se dietro non c’è la progettualità di unaserie di Sì, di proposte come lo sviluppo turistico compatibile, la bonifica dei territori e le energie rinnovabili. «E’ fondamentale che anche a Saline i cittadini diventino consapevoli dei rischi e delle reali conseguenze che questa centrale comporterebbe - dice Nino De Gaetano presidente della Commissione Regionale Antimafia - è necessaria una forte controinformazione per evitare che le popolazioni vengano imbrogliate con il trucco dei posti lavoro».
Eppure, dopo la battaglia delle associazioni ambientaliste e dei Comuni della zona, nel 2009 si era arrivati alla sigla del protocollo d’intesa tra il Presidente Loiero e la società Api Nòva Energia per la realizzazione di un Polo Tecnologico dell’Energia "pulita" a Saline Joniche. Tale progetto, che rientra nel Par, è attualmente fermo al tavolo del Cipe insieme a tutti gli altri progetti per le regioni meridionali, fatta eccezione per la Sicilia di Lombardo.
Dopo le recenti novità legate al progetto della Centrale Termoelettricache a breve potrebbe ottenere l’Autorizzazione ambientale integrata necessaria per procedere, il Coordinamento si è riunito il 5 gennaio a Saline per ribadire la sua decisa contrarietà a questa ennesima imposizione. Di più, come ricorda il rappresentante dell’amministrazione provinciale di Reggio Calabria Omar Minniti, anche stavolta siamo in presenza del rischio di "Opere di compensazione", e cioè di un tesoro economico per gli interessi speculari della criminalità organizzata. Di fatto, il timore avvertito dal movimento è che, come per il Ponte sullo Stretto, questo processo subisca un’accelerata e che la contrarietà possa essere barattata a causa di interessi speculari.
«Continueremo ad opporci - promette Federico Curatola del Coordinamento - ed a sollecitare le istituzioni affinché respingano il progetto che andrebbe ad affossare definitivamente l’area già fortemente appesantita da rifiuti, ipotetiche navi dei veleni e degrado diffuso». Serve insomma una grande mobilitazione dimassa che dopo Amantea e Villa San Giovanni accenda un riflettore anche su Saline Joniche.
Di nuovo al lavoro, dunque, questa volta per Saline. A breve infatti saranno organizzati un incontro con i sindaci dei Comuni interessati, un incontro con la Regione per concordare un programma alternativo ed infine una grande manifestazione di piazza a ridosso dell’anniversario del Protocollo di Kyoto.









   
 



 
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