In Francia la proposta di una legge antiburqa nei luoghi pubblici raccoglie consensi trasversali, dalla destra gollista alla sinistra comunista, tutti accomunati dall’identificazione nei valori di laicità della Repubblica (una cosa seria per i francesi, si sa). Motivazioni diverse, certo. C’è chi vuol criminalizzare il burqa per un senso tronfio di immedesimazione nella grandeur francese. C’è chi è convinto che la storia e le istituzioni della Francia siano il punto più alto raggiunto dal genere umano nel tempo e che sia una via obbligatoria dover integrare, anzi assimilare lo straniero nel proprio modello di cittadinanza, sia pure a colpi di decreti e di leggi. E c’è anche però chi si riconosce in una sorta di illuminismo radicale e laico che vorrebbe riconoscere un diritto universale alla cittadinanza, quale che sia il sesso, la religione e la condizione economica. Vero, non si può ignorare che il burqa e il niqab, cioè i veli integrali, siano inmolti casi frutto di imposizione alle donne, una barriera tra il loro corpo e il mondo messa lì da un’autorità maschile. Vero anche, forse, che molte situazioni della vita pubblica, dall’uso della carta di credito alla richiesta dei documenti, impongono la riconoscibilità. Ma ammesso che le cose stiano così, è plausibile immaginare che un colpo di legge tutto si risolverebbe come d’incanto? Non è invece più probabile che un divieto imposto per decreto spingerebbe molte donne a esibire il burqa proprio come segno orgoglioso di diversità? E, ancora, vale davvero la pena stabilire una legge per un numero esiguo (in Francia e, a maggior ragione, da noi in Italia) di donne in burqa? E, infine, in cosa dovrebbe consistere la sanzione? Se questi sono i dubbi per quanto si va discutendo in Francia, ben più penoso è il simulacro di dibattito che s’è avviato anche in Italia. La ministra Carfagna e la Lega si sono subito accodati alla linea Sarkozy. Qui di progressista neppure l’apparenza,perché sotto la propaganda di chi dice di agire per il bene delle donne musulmane, c’è solo l’islamofobia, una pulsione aggressiva da scontro di civiltà. «Trovo stucchevoli e in mala fede - commenta l’antropologa Annamaria Rivera, docente all’università di Bari - queste fiammate ricorrenti di furore "laicista", sempre propagandistiche, sempre strumentali a strategie o scadenze elettorali. Tanto più che il fenomeno burqa e niqab in Francia è assolutamente marginale, in Italia quasi inesistente. E trovo grottesco che da noi a proporre di "fare come la Francia" siano quegli stessi personaggi che invocano una nuova Lepanto contro l’islam e difendono le "radici cristiane" con argomenti per lo più fondamentalisti. A mio parere, non ha molto senso neppure discutere se burqa, niqab, chador o hijab - sempre confusi in Italia - siano dei simboli religiosi. A volte sono solo convenzione, tradizione o addirittura, in qualche caso, una scelta anticonformista. E’ vero, invece, che in Europa quantopiù sono oggetto di scandalo e di proibizione, e nel contesto di campagne antimusulmane, tanto più possono essere esibiti come simboli identitari. Sono temi che ho sviscerato cinque anni fa ne La guerra dei simboli . Rispetto ad allora non si è fatto un passo avanti». «In questi anni va di moda prendere di mira il target musulmano - a dirlo è il sociologo Adel Jabbar - spesso, non dobbiamo nascondercelo, c’è un uso strumentale. Com’è possibile, mi chiedo, che la politica, con tutti i problemi che ci sono, investe tanto tempo a occuparsi del burqa? Io penso che sia una scorciatoia per raccogliere voti. Di fatto questi approcci alla questione finiscono per alimentare un clima da scontro di civiltà. Così si alzano muri». «Il burqa - dice Alessandra Mecozzi, responsabile internazionale della Fiom - riguarda una minoranza sparuta di donne musulmane residenti in Francia. In Italia non ne parliamo neppure. Non c’è il senso della misura. E’ un errore usare la mannaia della legge, fosse purein nome dei valori della Repubblica, come dicono i francesi, o dei diritti universali delle donne che mi pare il tema centrale. In ogni parte del mondo i diritti sono stati sempre conquistati con le lotte. Le donne ci devono arrivare a partire da sé». Ma anche a voler prendere per buone le motivazioni dei laicisti e di quanti/e sollevano il tema dell’oppressione delle donne, quali effetti pratici avrebbe una legge? «Come potrebbe una legge - risponde Alessandra Mecozzi - proibire di fatto che alcune donne se ne vadano in giro nei luoghi pubblici vestite col burqa? E se alla fine l’unico effetto è che le donne resterebbero in casa? La legge è uno strumento troppo rozzo per affrontare un tema così complesso. Non voglio dire che non esista per tutte le donne il diritto a essere libere e andare vestite come credono, ma ci si deve arrivare per gradi e tappe e attraverso le lotte. In questa vicenda scorgo una grande ipocrisia. Prima si fanno leggi orribile contro l’immigrazione, sialimenta il razzismo istituzionale e quello di massa, e poi improvvisamente ci si dichiara paladini delle donne musulmane». Altra risposta quella di Annamaria Rivera. «Quei "comunisti" (in Francia) e quelle femministe (ovunque) che hanno sostenuto la legge contro il foulard islamico e oggi ne vorrebbero un’altra contro burqa e niqab in fondo hanno un’idea stereotipata ed etnocentrica dell’islam e della liberazione femminile: dietro il primo vedono sempre l’ombra dell’integralismo e concepiscono la seconda solo come applicazione ed estensione del modello liberale (o forse certi "comunisti" francesi hanno nostalgia di quello sovietico). Siamo arrivati al paradosso per cui sembra più moderato Le Pen: sostiene che sarebbe sufficiente l’applicazione delle norme di ordine pubblico che proibiscono di circolare a volto coperto. E i socialisti francesi che si oppongono a una nuova legge proibizionista sono gli stessi che inaugurarono il percorso legislativo che condusse alla legge contro il"velo". E’ un falso dibattito, tutto strumentale alle prossime elezioni regionali che non a caso arriva sull’onda dell’altro dibattito sull’identità nazionale, sempre in Francia, voluto dal ministro dell’immigrazione, che sta diventando una campagna contro i francesi di origine straniera, musulmani in testa». Il rischio è che ci si incarti nella contrapposizione tra un partito dell’assimilazione che in nome dei diritti universali ritiene giusto anche il ricorso a una legge e un partito del relativismo che relega il burqa a differenza culturale. «A me - spiega Alessandra Mecozzi - questa contrapposizione suona un po’ falsa. Messa così è un dibattito che vola sulla testa delle donne. Spetta a loro conquistarsi i diritti». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Annamaria Rivera. «Non la vedo esattamente così. L’universalismo invocato da chi auspica leggi proibizioniste è del tutto particolarista: si ritiene che un capo o un corpo femminili troppo coperti siano un’offesa alla dignitàdelle donne e non si vede quanto siano offensive l’appropriazione e mercificazione dei corpi femminili, e l’obbligo della nudità o della quasi-nudità. D’altra parte, non è necessario essere relativisti per opporsi a leggi proibizioniste tanto stupide. Basta essere saggi/e e in buona fede. Proprio la legge francese contro il "velo" dovrebbe insegnare che non è così che "si liberano le donne". A che è servita se non ad alimentare rancore e a dirottare un buon numero di studentesse d’ambiente musulmano dalla scuola pubblica alle scuole confessionali? E poi la strada del proibizionismo è senza fine: ieri la legge contro il velo, oggi quella contro il burqa, domani, chissà, una legge contro la tunica o la gonna lunga». Per Adel Jabbar non si tratta tanto di negare l’esistenza del problema. «Non dico che non occorre intervenire, ma non è di leggi e divieti che c’è bisogno. Occorrono altri interventi culturali ed educativi nei territori di residenza. Servizi sociali, gruppi di donne, insommafar incontrare le persone, creare un clima di fiducia e di relazioni con i diretti interessati. Altrimenti, questa modernità sbandierata, a volte in nome della laicità, a volte in nome delle donne, diventa pretesto per un attacco al mondo musulmano. In Italia i più accaniti vorrebbero eliminare non solo il burqa, ma anche moschee, minareti e luoghi di culto. Le organizzazioni musulmane in Italia sono tutte contrarie all’uso del burqa. Il problema non sussiste. Gli interlocutori ci sono. Partiamo da qui».
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