PAOLO FERRERO comizio elettorale
domenica 28 febbraio
San Marco in Lamis (Fg), ore 11,Piazza Madonna delle Grazie
 











P. Ferrero seg.naz. PRC, M.Benvenuto capo redattore zappingrivista

Se il Pci avesse capito Berlinguer
Come è stato possibile che il Pci, il più grande e innovativo partito comunista dell’occidente, a distanza di soli 15 anni dalla fase culminante del suo prestigio politico e della sua forza elettorale, sia pervenuto alla propria autoliquidazione? Quell’evento traumatico, che ha segnato il progressivo, rapido declino della sinistra italiana era inesorabilmente scritto nelle cose, rappresentava l’epilogo necessario di un fallimento, il capolinea obbligato di una storia esauritasi, oppure è stato il prodotto di una scelta soggettiva, compiuta da una parte - ancorché maggioritaria - del suo gruppo dirigente? E ancora: guardando al patrimonio culturale e ideale accumulato da quel partito, al suo radicamento sociale, alla sua originale elaborazione e al suo protagonismo nella storia nazionale, era plausibile immaginare un altro possibile sbocco? Giuseppe Chiarante, che del Pci fu un dirigente di primo piano prova - dalsuo osservatorio privilegiato - a rispondere a questi cruciali interrogativi ( La fine del Pci, dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo congresso 1979-1991 , Carocci, pp. 211, euro 22,50). Lo fa con acuto rigore documentario, supportato dalla memoria personale, scandagliando i passaggi dentro i quali si consumarono le scelte e le svolte compiute dal gruppo dirigente comunista, analizzando le radici culturali e strategiche di errori e reticenze che contribuirono a favorire il processo di omologazione del Pci, la rimozione della sua diversità, precipitati dopo la morte di Enrico Berlinguer.
Quella proposta da Chiarante è una ricerca che si sviluppa su più piani, fra loro intrecciati. Al centro, campeggia la figura di Berlinguer, l’ultimo grande segretario comunista, che portò il suo partito, pochi giorni dopo la drammatica morte che lo colse su quel palco di Padova, a divenire - ancora nel giugno dell’84 - il primo partito d’Italia, nelle elezioni europee, scalzando laDc da quella posizione di assoluto primato che essa deteneva dagli esordi della Repubblica. Di Berlinguer Chiarante rievoca con evidente vicinanza e trasporto, ma senza alcuna concessione apologetica, le più feconde intuizioni, talvolta misconosciute, o sottovalutate, o fraintese, o esplicitamente osteggiate, da una parte non piccola del suo stesso partito; scelte che tracciarono la fisionomia del Pci nelle diverse fasi della sua leadership. E in esse Chiarante riconosce le due stagioni, nettamente distinte: quella del compromesso storico e della solidarietà nazionale, fondata sul presupposto, rivelatosi infondato, di una possibile evoluzione in senso democratico e progressista della Democrazia cristiana, che egli credette tale da consentire una possibile alternanza al governo tra schieramenti diversi, ma entrambi fortemente radicati dentro un quadro istituzionale saldamente ancorato a valori democratici condivisi, al riparo da tentazioni autoritarie o, addirittura, golpiste. E ilsecondo Berlinguer, quello che preso atto dell’impraticabilità e del fallimento di quel disegno profondamente riformatore, considerato che le classi dominanti, la borghesia industriale italiana stavano procedendo ad un violento processo di ristrutturazione capitalistica, fatto di licenziamenti di massa e di una pesantissima offensiva antisindacale e antioperaia, rompe ogni indugio e chiude la parentesi della solidarietà nazionale con la più ferma determinazione. Sono quelli gli anni, gli ultimi, durissimi anni della sua vita, in cui coglie con estrema lucidità e determinazione la deriva politica e morale del paese, l’occupazione del potere da parte di una partitocrazia vorace e corrotta. E ne denuncia la pseudo-modernità, intrinsecamente legata a quel decisionismo di impronta craxiana, che vuole liberarsi del «sovraccarico di domanda sociale, dell’eccesso di potere degli organi rappresentativi». Berlinguer vede cioè il crinale su cui rischia di rotolare e frantumarsi la democrazia. Nonfarà in tempo a constatare quanto questo timore fosse fondato, né come i suoi epigoni giungeranno a sostituire con l’omologazione la diversità comunista, con la legge elettorale maggioritaria la rappresentanza proporzionale, con l’ossessione governista la rappresentanza sociale e l’ingaggio nelle lotte di riscatto del lavoro. Ma fra i due Berlinguer per Chiarante non c’è una cesura netta. Che vive, sì, nella divaricazione delle scelte politiche, ma non nei temi di fondo della sua ricerca. Dalla rottura, sempre più esplicita, con l’Unione Sovietica, alla ricerca di una via al socialismo fondata sull’autogoverno dei produttori associati e sull’espansione della democrazia, economica e politica, fuori dall’iperstatalismo e dalla predominanza del partito sulla società civile tipici delle democrazie popolari dell’est. Di qui la messa a tema di un modo diverso di produrre e di consumare, la critica di un modello di sviluppo subordinato a «vincoli economicistici e produttivistici, a stili divita ispirati ad un esasperato individualismo e appagamento di aspirazioni materiali artificiosamente indotte». E ancora, la crisi, vista come l’occasione di un radicale cambiamento, pena il ricadere in una fase di rivoluzione passiva.
Questa impostazione non sarà capita, bollata, da sinistra, come «politica dei sacrifici», anche in ragione della interpretazione moderata che ne diedero il sindacato e la vulgata "migliorista" e, da destra, come provincialistico antimodernismo, come ideologia pauperistica. Una parte del suo partito - probabilmente già allora maggioritaria - dissente. Il contrasto diventa acuto quando Berlinguer decide di andare davanti ai cancelli della Fiat, schierando il partito a sostegno di quella lotta operaia, pessimamente condotta e peggio conclusa dal sindacato. E ancor di più lo scontro interno si manifesta quando Craxi taglierà, con il decreto di S. Valentino, quattro punti di scala mobile e Berlinguer vi opporrà tutta la forza del Pci, scontando unalacerazione sia interna che con una parte della Cgil. La svolta della Bolognina voluta da Occhetto - decisa senza consultare né la segreteria né la direzione del partito - rappresentavano la precipitazione di un processo in incubazione da tempo, al quale la scomparsa di Berlinguer non ha potuto opporre più argini. Chiarante ci descrive senza veli come è un intero paradigma che smotta, quasi di colpo. Anziché sviluppare le peculiarità dell’elaborazione dei comunisti - scrive Chiarante - si va nella direzione opposta: «Il crollo dei regimi dell’est viene letto come la prova definitiva dell’impraticabilità di serie alternative alle regole del liberismo, del privatismo, del libero mercato». E’ spianata la strada al pensiero unico: monetarismo, rispetto dei "vincoli oggettivi dell’economia". Sono questi i mattoni su cui si costruisce l’eutanasia del Pci. Per mesi si discute della "cosa", «la nuova formazione di cui non è dato conoscere né il nome né il programma». Ma la rottura, non è conl’Urss, bensì con tutta la tradizione comunista. Non una rielaborazione critica, ma un’abiura, una fuga nell’opposto. «La sola novità è la fine del Pci». Nello scrigno del Pci non vi era già, bell’e confezionato, tutto ciò che era necessario per cambiare l’Italia, ma certo ve ne erano i presupposti e i materiali, che gli epigoni, maldestri «costruttori di soffitte» non seppero utilizzare e sviluppare perché già da tempo avevano imboccato una strada diversa. Qui cade, cruciale, la domanda di Chiarante: «si pensi a quale diverso sviluppo avrebbe potuto avere la situazione italiana se, nei primi anni novanta, nel momento in cui esplose la protesta contro un sistema di potere sempre più sentito come soffocante e corrotto, a sollecitare ed orientare questa protesta ci fosse stato un partito con la sensibilità democratica e la tradizione riformatrice del Pci» e come si sarebbe potuto evitare che nel vuoto di credibilità la spinta al cambiamento si orientasse verso destra. Ma quel partito,non c’era più. Né i due tronconi in cui si spezzò il Pci seppero mai - sostiene Chiarante - raccogliere la migliore elaborazione ed esperienza del partito da cui provenivano, radicalizzando, ciascuno, due tendenze opposte: la cooptazione dentro il pensiero dominante, sino alla trasformazione in una forza liberal-democratica da una parte, e l’arroccamento ideologico e identitario dall’altra. La sfida della ricostruzione di una sinistra nel nostro Paese è dunque tutta di fronte a noi.   Dino Greco

 









   
 



 
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