A prescindere dall’esito della decisione dell’ufficio elettorale circoscrizionale di Roma sulla nuova istanza di ammissione alle elezioni regionali del Lazio della lista del PdL, vale la pena formulare alcune osservazioni sull’intera vicenda. Innanzitutto, difficilmente si sarebbe potuto immaginare che il primo legittimo impedimento, per il Partito del premier, sarebbe giunto dal Tribunale amministrativo del Lazio. Difficilmente, perché ancora una volta la nuova mossa per aggirare le regole era stata congegnata con la solita strategia del "doppio passo", in più occasioni dimostratasi redditizia in un’ottica difensiva immediata: prima si approva la norma, senza badare troppo a lacci e lacciuoli costituzionali o di sistema, ma puntando dritti al risultato voluto; una volta raggiunto l’obiettivo, le eventuali censure di incostituzionalità arriverebbero in un lasso di tempo tale da permettere comunque di chiudere almeno qualche buon affare, magari algoverno regionale. Ma questa volta, i calcoli sono saltati. La seconda sezione bis del Tar Lazio ha restituito a tutte le cittadine e i cittadini disorientati, quando non rassegnati per le prassi politiche dell’attuale maggioranza, un po’ di serenità e soprattutto l’impressione che lo stato di diritto sia ancora vivo. E tutto questo, al di là dei vizi di incostituzionalità del decreto legge n. 29 - pur macroscopici come sin da subito prospettati da numerosi autorevoli costituzionalisti - sui quali il collegio giudicante si pronuncerà nell’udienza fissata a maggio per il prosieguo. Perché, in uno stato di diritto realmente compiuto, l’onere della prova spetta a chi quella prova vuol far valere in giudizio. E la prova che il presentatore delle firme fosse in Tribunale con tutte le firme - valide - prima delle 12, non è stata fornita. Ma soprattutto perché l’interpretazione autentica di una norma può provenire soltanto dal soggetto che quella norma ha emanato. Questo ha fondamentalmentestatuito il collegio con l’ordinanza che rigetta la richiesta di sospensiva. Nella specie, trattandosi di legge elettorale regionale, solo il legislatore del Lazio avrebbe potuto intervenire fissando un canone interpretativo in materia, non già il Governo nazionale. Diversamente, si realizzerebbe una invasione di campo tanto più grave in quanto tesa a dirimere una controversia non solo in potenza, ma già in atto. Ma c’è di più. Tra i tanti contenuti politici che il decreto 29 esprime, ve n’è uno particolare, rivelatore di una tendenza che potrebbe alla lunga nuocere alla stessa stabilità dell’attuale governo. Infatti, pur di far rientrare - illecitamente - dalla finestra ciò che sulla porta non si è nemmeno affacciato, non ci si è fatti problema alcuno di intervenire con una norma ipercentralista, che svilisce le autonomie locali intaccando le prerogative regionali.Vale la pena, infatti, ricordare che la sciagurata riforma del titolo quinto della nostra Carta costituzionale(prodromo di quel "federalismo asimmetrico" su cui Gaetano Azzariti si è già magistralmente espresso anche su queste pagine) all’articolo 122 ha attribuito in via esclusiva alle regioni anche la competenza esclusiva a legiferare in materia di elezioni. Forse in questa luce possono spiegarsi le affermazioni del Ministro Maroni di accettazione del verdetto del Tar, qualunque esso fosse. Salvo però dover prendere poi atto della clamorosa smentita dei suoi alleati. Che non hanno alcuna intenzione di chiudere qui la partita, e che a colpi di fiducia continuano nell’opera di demolizione delle istituzioni parlamentari, affermando di fatto una dittatura della maggioranza, come con il provvedimento sul legittimo impedimento vero e proprio varato in queste ore. Il dato primario di questa vicenda è però incoraggiante: si riafferma la sacralità della tecnica (in questo senso va intesa la forma) nel diritto, oltre che della sostanza. Per contrastare il merito dei provvedimenti, l’opposizione andràcostruita tra tutti i soggetti sociali che si battono per l’affermazione dei principi di legalità costituzionale. Ma almeno il rito, in democrazia, non può tollerare violenze o colpi di mano del potente di turno. Giuristi Democratici
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