Se la politica è fatta anche di simboli, ce n’è forse uno che conta più degli altri. O almeno conta tanto di questi tempi. E’ una parola, un sostantivo, femminile: «sconfitta». Che appunto diventa quasi una metafora per capire queste ultime ore di campagna elettorale e per provare a capire, soprattutto, quel che verrà dopo. Quel sostantivo l’ha pronunciato ieri il premier nell’ennesima incursione in tv. Questa volta in casa dell’«avversario», in casa di Murdoch, su Sky 24. Certo, quella parola il premier l’ha usata soprattutto per negarla, spiegando che non gli sembra un’ipotesi plausibile. In ogni caso, però, è una possibilità che ora ha messo nel conto. Certo, va ripetuto, lui l’ha fatto per dire che comunque non cambierà nulla nel mandato che ha ricevuto a governare il paese. In ogni caso, però, è una parola che adesso è costretto a mettere nel conto. Gli osservatori di cose berlusconiane fanno notare che è la seconda volta, nella suacarriera politica, che è costretto a farlo. Sì, perché pronunciò quella parola - «sconfitta» - esattamente 5 anni fa, quando la sera dei risultati delle regionali del 2005, davanti ad un cappotto disastroso - e che illuse l’Unione - si presentò in tv e ammise di aver perso. Con lui, quel giorno, davanti alle telecamere, c’era Alemanno, all’epoca ministro. Altra coincidenza non secondaria, come vedremo. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, le destre sono tornate a vincere tutto quel che c’era da vincere. Al punto che appena 5 mesi fa, quando Marrazzo fu costretto a dimettersi, tutto faceva pensare che il Popolo delle Libertà sarebbe passato ovunque. Tranne forse nelle regioni «rosse» ma sarebbe passato ovunque. Anche perché, dall’altra parte, c’era un’opposizione parlamentare, e soprattutto il più forte partito dell’opposizione parlamentare, il piddì, che sembrava fare di tutto per favorire il premier: rincorrendo l’Udc, e rincorrendolo di più laddove era piùimpresentabile, rompendo a sinistra, negando le primarie. Che pure aveva per primo «importato» dagli Stati Uniti. Ora diverse cose sono cambiate. Un po’ - assai poco in verità - per meriti di quell’opposizione. Molto grazie a quella che appare come una vera e propria implosione della destra. Le cui esatte dimensioni si conosceranno solo lunedì, con l’apertura delle urne. Ma che è già reale, è già percepita. Al punto che sempre ieri, - sempre su Sky - e sempre il premier s’è avventurato in complicati calcoli, un po’ come facevano i notabili Dc della Prima Repubblica. Ha spiegato che non ha importanza il numero di Regioni che saranno conquistate dalle destre, ha importanza il «numero assoluto di cittadini che sceglieranno di essere governati dal Pdl e dai suoi alleati». Parole che suonano tanto come la ricerca di una scappatoia, in caso di sconfitta in una tornata che concentra nella Lombardia di Formigoni (inespugnabile, tanto meno da un candidato come Penati) un terzo degli elettorichiamati alle urne. Ma quello del premier, ammesso che sia costretto ad usare un escamotage del genere, sarà comunque un discorso poco credibile. A cui non sembrano disposti più a credere neanche i suoi. I suoi uomini più fidati. Per dirne una, come si sa, Feltri - fresco di sospensione dall’Ordine dei giornalisti - ha già trovato un capro espiatorio, ancora prima dello scrutinio: Fini. Colpevole di tante cose agli occhi del pasdran berlusconiano ma di una cosa sopra le altre: aver seminato troppi dubbi sulle ultime esternazioni del premier. Colpevole di aver provato a smorzare i toni della campagna - l’ennesima - contro i giudici e quella per una riforma istituzionale elaborata nei gazebo. Due pilastri, invece, del battage che aveva in mente Berlusconi per gli ultimi giorni di campagna elettorale. Che per l’ennesima volta, avrebbe voluto trasformare in un referendum sulla sua persona. Fini l’ha stoppato, ha provato a stopparlo. Da qui le ire di Feltri, ma da qui, soprattutto, ilprogetto di Berlusconi per il dopo voto. Che non sarà segnato, come pensano in tanti, dal chiarimento necessario con l’alleato/competitor leghista. Questo è un capitolo che non impensierisce il premier e in ogni caso il «sorpasso» di cui blatera Bossi resterà un sogno per il Carroccio. Il problema per Berlusconi sarà mettere mano alla sua creatura, il Pdl. Uscita con le ossa rotte da una prova, neanche tanto impegnativa, come quella della presentazione delle liste. Come ci metterà mano? Alla Camera gira da un po’ una voce, con tanta insistenza che ormai è data per scontata: Berlusconi investirà della sua successione l’attuale sindaco di Roma, Alemanno. Che, infatti - l’hanno notato tanti - da un mese tutto fa meno che il sindaco. E’ corso in Calabria a sostenere Scopelliti, ha fatto un passaggio in Puglia pro Palese, e s’è pure inventato qualcosa per sostenere la Polverini, nel Lazio. Da sindaco è diventato dirigente nazionale, insomma. Sarà lui a rappresentare l’area ex An al verticedel partito. Naturalmente da tutto ciò ne segue la definitiva marginalizzazione di Fini. Si potrebbe continuare a lungo, a raccontare dei guai in casa della destra. Contrasti a cui tanti - troppi - nel centrosinistra si affidano per uscire dalla lunga notte del dopo politiche. Al punto che il piddì, durante tutte queste settimane, ha quasi solo lavorato «di bilancino»: dove conviene allearsi con «pezzi» della destra irrequieti, dove invece conviene presentarsi assieme all’Udc e via dicendo. Solo alla fine, anzi, solo ieri, i democratici hanno «scoperto» che c’è un paese in sofferenza: e Bersani, nell’ultimo giorno di campagna elettorale, è andato davanti ai cancelli di Mirafiori. A dire che non può esistere «buona politica se si tiene fuori il lavoro». Frase che qualcuno ha interpretato come «autocritica». Basterà a cambiare il segno di questa campagna elettorale? Basterà a spostare qualche consenso in Calabria, nel Lazio, in Liguria, in quelle regioni in bilico dove si gioca il«segno» di questa tornata? Basterà aspettare 24 ore e lo si saprà.
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