-Paura contro speranza, speranza contro umiliazione, l’umiliazione che conduce alla mera irrazionalità e persino, talvolta, alla violenza: non si può comprendere il mondo in cui viviamo senza esaminare le emozioni che contribuiscono a plasmarlo-. Ripercorrendo la strada che aveva condotto a metà degli anni Novanta Samuel P. Huntington a formulare dalle pagine di Foreign Affairs la sua celebre teoria del "Clash of Civilizations", Dominique Moïsi è giunto a mettere in evidenza il ruolo giocato oggi dalle "emozioni" nei processsi che caratterizzano la politica globale. Pubblicato nel 2007 sulla medesima rivista americana, il saggio "The Clash of Emotions" è servito da base al volume che il fondatore dell’Institut français des relations internationales ha poi pubblicato con il titolo di Geopolitica delle emozioni (Garzanti). Mentre per Huntington l’inevitabilità dello "scontro tra civiltà" rendeva incompatibile la convivenza pacifica tra culture ereligioni, annunciando in questo almeno una parte della dottrina del neoconservatorismo statunitense, per Moïsi il tentativo di tracciare una mappa emotiva della globalizzazione rappresenta un possibile antidoto al dilagare dell’odio e del risentimento sull’intero pianeta. In altre parole, pur partendo entrambi dalla constatazione che i vecchi conflitti ideologici del Novecento hanno progressivamente lasciato spazio ad altre forme di rappresentazione degli interessi collettivi e al loro scontrarsi reciprocamente, i due intellettuali hanno raggiunto ciascuno delle conclusioni ben diverse. Se per Huntington, scomparso nel 2008 a 81 anni, «le grandi divisioni dell’umanità saranno legate alla cultura (...) I conflitti più importanti avranno luogo tra gruppi di diverse culture», a cominciare dall’"Islam" e dall’"Occidente", Moïsi spiega come dopo l’11 settembre il mondo sia stato plasmato dalle emozioni, e in particolare da paura, umiliazione e speranza. Nel primo caso si trattava di unarappresentazione monolitica delle culture, quasi una deriva biologizzante delle caratteristiche di ciascuna civiltà, mentre nel secondo si entra, per così dire, nel vivo di ciascuna società analizzandone gli umori più profondi e spesso inconfessabili. -La paura - spiega infatti Moïsi - è la mancanza di fiducia in sé stessi. Se la propria vita è dominata dalla paura, si teme per il presente e ci si aspetta che il futuro diventi ancora più pericoloso. La speranza, per contrasto, è un’espressione di fiducia in sé; si basa sulla convinzione che l’oggi sia meglio dello ieri e il domani sarà meglio dell’oggi. E l’umiliazione è la lesa fiducia in sé di quanti hanno perso speranza nel futuro; la tua mancanza di speranza è colpa di altri, che ti hanno trattato male in passato. Quando il contrasto tra il proprio passato idealizzato e glorioso e il presente frustrante si fa troppo grande, prevale l’umiliazione-. In realtà, l’ipotesi di lavoro di Moïsi sembra echeggiare, ma solo a prima vista,la ricerca di Huntington quando disegna la mappa del dispiegarsi di queste emozioni a livello internazionale. Un quadro che, riassunto, si caratterizza in questo modo: l’Occidente, gli Stati Uniti e l’Europa, dominati dalla cultura della paura, i paesi arabi e il mondo musulmano chiusi nella cultura dell’umiliazione, mentre Cina, India e gli altri paesi emergenti risulyano animati dalla cultura della speranza. La descrizione un po’ scolastica di questa geografia emozionale si scioglie rapidamente quando il ricercatore francese denuncia tutta la pericolosità di -visioni semplificate del mondo- che riducano le contraddizioni e la complessità del reale a semplici "formulette" o a veri e propri mantra destinati a autorealizzarsi come nel caso del -trionfo della democrazia di Fukuyama» o dello «scontro di civiltà di Huntington-. Il suo, sottolinea Moïsi, -non è un libro sulla storia delle emozioni bensì un saggio sulla globalizzazione e sulla necessità di affrontare le emozioni percomprendere il nostro mondo mutevole (...) incentrato sul miscuglio di emozioni e sulle sfumature di grigio più autenticamente caratteristiche del nostro mondo-. In un mondo che ha visto, almeno in tendenza, assumere dalla lotta per l’identità il ruolo un tempo occupato dalla costruzione ideologica, questa lettura della politica attraverso "le emozioni" consente di guardare sia i conflitti che attraversano ciascuna società (razzismo e xenofobia che crescono nei diversi paesi europei insieme alle nuove destre populiste, invenzioni etniche e comunitarie che offrono risposte alla crisi dello Stato-nazione e alla messa in discussione della sua variante in termini di Welfare-State), sia quelli che sembrano manifestarsi ancora tra "aree" economiche, politiche o culturali a livello internazionale. -Le emozioni - indica Moïsi - sono al contempo l’immagine nello specchio e l’occhio della persona che la guarda. Sono reciproche, com’è dimostrato efficacemente, per esempio, dalle donnemusulmane moderne e istruite che scelgono di portare il velo in Occidente, suscitando così una cascata di emozioni-specchio in merito alle loro identità e motivazioni. Si ha paura di qualcuno, si è umiliati da qualcuno e, persino nel caso della speranza, si è ispirati dal successo di qualcun altro. Tali emozioni intrecciate, interdipendenti, sono la chiave per comprendere il nostro mondo dominato dall’identità-. Geopolitica delle emozioni si situa così nel solco di una ricerca che conta già diverse testimonianze al proprio attivo. La storica inglese Joanna Bourke, con la sua "storia culturale" della Paura (Laterza, 2007), aveva ad esempio già messo in guardia sul fatto che in Occidente «anziché da minacce tangibili all’esistenza corporea provocate dalla guerra, gli ultimi decenni del Novecento sono caratterizzati da stati di angoscia più nebulosi, incentrati su microcosmi stremati di carne a comunanza. Cancro e criminalità, dolore e inquinamento: sono queste paure a isolarci.L’accellerazione del ritmo del cambiamento e il fatto che le minacce sembrano essere dappertutto è sconvolgente (...). Il concetto di "fiducia" diventa obsoleto nel momento in cui ciascun individuo o piccola comunità lotta per dare un qualche senso all’ambiente preoccupante in cui vive-. Questo mentre il sociologo tedesco Hans Magnus Enzensberger, ne Il perdente radicale (Einaudi, 2007), aveva seguito le tracce di quella scia di sangue che attraversa l’orizzonte contemporaneo e che dalle nostre piccole barbarie domestiche (sul modello della strage di Erba) ci conduce fino alla figura del terrorista kamikaze. Dal caso degli adolescenti assassini nei college americani fino all’11 settembre c’è - suggeriva Enzensberger - un filo di disperazione e di rabbia, di cieca violenza e di studiata esaltazione del rancore che finisce per legare gli assassini di provincia ai killer delle Twin Towers. "Perdenti radicali" sono perciò non tanto coloro che si possono percepire come gli sconfitti dellaglobalizzazione o delle trasformazioni culturali insite nella modernità, quanto quelli che non sono stati o non sono in grado di elaborare un vocabolario del cambiamento, un lessico emozionale con cui rispondere alle modifiche di breve o di lungo corso che attraversano il loro spazio di vita. -In ogni momento - scrive Enzensberger - il perdente può esplodere. Questa è l’unica soluzione del problema che riesce a immaginare: il parossismo del disagio che lo fa soffrire-. In un simile contesto, per Moïsi «le frontiere emotive del mondo sono diventate importanti quanto le sue fontiere geografiche» e solo «una comprensione culturale e storica delle differenze e somiglianze dell’Altro», una «conoscenza dell’Altro» che parta da una «conoscenza di sé» può aiutare la costruzione di «un mondo più tollerante». Figlio di un sopravvissuto a Auschwitz, lo studioso francese affida a un domanda tutto il senso di quesat sfida decisiva per l’umanità: «Può il mondo in cui viviamo riuscire a farealmeno in parte ciò che ha fatto mio padre, ossia trascendere la paura e l’umiliazione e riaccendere la speranza, persino di fronte alla tragedia?».
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