Una discussione che non viene da lontano. Anzi. «Arriva» appena da 500 metri più in là, da Palazzo Grazioli, dai Palazzi delle «politica», governati dalla destra. Palazzi scossi in queste ore dalla querelle fra Fini e Berlusconi. E così, anche nella sede del Nazareno, dove ieri si è riunita la direzione del piddì - attesissima, era la prima dopo le regionali - ci si è ritrovati a parlare - e un po’ anche a dividersi - sul tema del giorno: lo scontro interno alla maggioranza. Così, per l’ennesima volta, i democratici sono riusciti a parlare d’altro, sono riusciti a parlare solo «di altro». E la riunione che si annunciava infuocata sull’analisi del voto, sul drammatico calo di un partito che in due anni ha perso quasi due milioni di elettori (calo che comunque per il segretario non può essere definito «una sconfitta») è diventata una tribuna per esercitarsi sull’analisi di ciò che accade di là, a destra. Il tutto preceduto, l’altro ieri, daun’altra discussione, in un seminario a Valmontone, vicino Roma, dove D’Alema e il leader della minoranza Franceschini s’erano scontrati duramente sul significato dello strappo di Fini. Con l’ex ministro convinto che il suo schieramento debba avere la capacità di «interloquire» col Presidente della Camera e con l’ex segretario convinto, invece, che bisogna guardare con rispetto ai tentativi di modernizzare la destra. Ma che comunque tutto ciò ha poco a che fare con il ruolo dell’opposizione parlamentare. E la diversità di vedute - in realtà è stato molto di più, visto che a Valmontone i due si sono scambiati anche frecciatine pesanti - è proseguito alla direzione di ieri. Introdotta da una lunga relazione di Bersani. Che ha pesato le parole in ogni passaggio. Sulle regionali di tre settimane fa, il segretario ha trovato una formula che sembra andar bene a tutti: dalle urne non è venuta fuori la «tenuta» di cui lui stesso aveva parlato all’indomani del voto, ma non è uscita neanchela «secca sconfitta», come avrebbe voluto definirla Franceschini. Le regionali, insomma, hanno fatto registrare un calo del Pdl di cui non si è avvantaggiata l’opposizione. Tutto qui. Ma anche solo questo, ad un pezzo della minoranza è bastato, tant’è che qualcuno ha apprezzato la «correzione» di tiro del segretario. E ancora. Bersani ha tagliato corto sul tipo di modello istituzionale preferito dai democratici (ha solo bocciato la bozza Calderoli), ha detto che sulla «giustizia non devono esserci tabù», non è entrato nel merito della proposta Orlando, che non piace a tutti nel partito, ha semplicemente taciuto sulla questione alleanze ma ha speso tante parole sulla vita interna del partito. Capitolo che sta particolarmente a cuore alla minoranza. Partito, allora. Che va rilanciato, naturalmente. Dandogli un profilo forte, altrettanto naturalmente, un’identità. Ed ecco, allora, pronti nuovi gruppi di lavoro che si occuperanno di precarietà, di giovani, di scuola, di università,di fisco. Gruppi che andranno a sommarsi a quelli già esistenti e che faranno un primo bilancio del loro lavoro in un’assemblea programmatica, convocata per fine maggio. Il linguaggio ultradiplomatico, Bersani l’ha usato anche quando è venuto a trattare il tema del giorno. Lo scontro dentro la destra. Pure in questo caso fra D’Alema e Franceschini, Bersani ha scelto una sorta di terza via. Che si riassume così: se - «nel caso in cui....» - andasse avanti la deriva plebiscitaria di Berlusconi, se - «nel caso in cui...» - l’attacco alle regole democratiche subisse un’accelerazione, diventerebbe d’attualità la definizione di un «patto repubblicano». A difesa dell’ordinamento repubblicano. Aperto anche a chi, nei settori della maggioranza, mostra segni di insofferenza verso un governo monocratico. In questo caso, va detto, la mediazione sembra riuscita meno delle altre. Perchè in direzione - stando alle ricostruzioni, la riunione era rigidamente a porte chiuse - Franceschiniavrebbe sostenuto che è certo importante che ci sia qualcuno che guardi ad una destra europea ma che comunque «Fini è e resta un avversario». Diversa la filosofia che ispira D’Alema. Che guardando gli esponenti della minoranza, ha detto che è una «sciocchezza» l’avergli attribuito un progetto di governo assieme a Fini. Lui dice però che il Presidente della Camera può diventare un interlocutore. Dice queste cose e chi c’era racconta che dalla sala si è levato un brusio. Ha aggiunto qualcos’altro, però, D’Alema. Qualcosa di rilevante anche se non tutti in sala sembrano essersene accorti: l’ex ministro dice che la vicenda Fini sta lì a dimostrare come abbia fallito il «bipolarismo coatto» - lo definisce un sistema costrittivo - che non ha portato nè stabilità di governo, nè riforme. Anzi, se la pietra di paragone sono proprio le riforme, D’Alema dice che meglio, «molto meglio» ha saputo fare la tanto vituperata Prima repubblica. Lui, allora, propone una Costituente democratica, perriscrivere le regole. Costituente che non è un progetto di nuovo governo Dini, assicurano i dalemiani, ma che non è neanche un’associazione politico-culturale. E’ qualcosa che non ha i contorni chiari e che magari andranno definiti in corso d’opera. Finisce così. Con una discussione appena abbozzata ma che lascia trasparire visioni e strategie diverse. Finisce col tacito assenso di tutti ad evitare una riflessione sulla sconfitta elettorale che saprebbe di resa dei conti. Così trovi il dirigente che sottolinea la diversità di opinioni fra D’Alema e Bersani (che comunque non sarebbe una novità assoluta). E trovi, per contro, l’altro dirigente secondo cui anche questa diversità di posizioni in qualche modo è utile alla maggioranza: visto che il «leggero distacco» da D’Alema consente al segretario di poter riproporre la gestione unitaria. Finisce con gli aneddoti: e ti raccontano che Bersani per la prima volta ha citato Mario Tronti e che anche Letta è ricorso all’espressione«narrazione» per denunciare la mancanza di appeal del piddì. Finisce con una mediazione. L’ennesima. Forse ancora più debole delle altre.
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