L’uomo accovacciato nel corridoio mostra una ferita profonda nella testa, pochi denti gialli e indossa abiti invernali. P. ha 37 anni, ma ne mostra 50, soffre di anoressia, vive in una cella che è un letamaio ed è un internato dell’Ospedale psichiatrico giudiziario . La nostra visita termina qui, ma l’orrore per le storie e i visi che abbiamo incontrato è appena cominciato, storie di disagio mentale, povertà e di uomini dimenticati. Negli Ospedali psichiatrici giudiziari entrano i sofferenti psichici che hanno commesso un reato. Poiché non sono capaci di intendere sono condannati non ad una pena, ma ad una misura di sicurezza. La differenza è che la misura di sicurezza può essere prorogata fino a che dura la pericolosità sociale. Quindi queste persone anche se hanno commesso un reato minore scontano decine di anni di carceri, tanto è vero che dipendono dal Ministero della Giustizia. V., un uomo di circa 50 anni mostra il suofoglio processuale. La sua misura di sicurezza è terminata da un mese, ma al momento la data del riesame non è stata ancora fissata. «Ma dove siamo - grida - in Italia o che?». Non ha notizie, da nessuno, nemmeno dal suo avvocato. Molti degli internati sono stati difesi da avvocati di ufficio. Un internato, che ha scontato già due anni per un furto, è stato addirittura denunciato dal suo avvocato perché insolvente. «Con che lo pago? - ci dice - mentre con una mano si tiene un pantalone consumato e sporco.Visitiamo la sezione "Staccata", tristemente celebre per i suicidi e i letti di contenzione. Quello che abbiamo visto, ancora ora ci fa rabbrividire. Centinaia di uomini, in celle spoglie e sporche, che, in piena mattinata, giacciono nei loro letti sudici. Qualcuno si aggira nei corridoi, i più sono accovacciati, con in mano l’immancabile sigaretta. Al momento 270 internati, non è presente un solo psichiatra. La direttrice spiega che con la riforma della sanitàpenitenziaria la competenza è ora delle Asl. Ma qui vi sono solo due infermieri a reparto. Il personale infermieristico e parasanitario è evidentemente sottostimato rispetto alle esigenze e opera in condizioni di precarietà. Ciò pregiudica ulteriormente la già ridotta capacità di assistenza sanitaria perché non si può lavorare in queste condizioni. Da ogni cella si affacciano visi che sembrano quelli dei malati dei manicomi civili chiusi da Basaglia. Ma qui la riforma non è mai arrivata. Le condizioni di detenzione non rispettano quanto previsto dalla legge. Molti internati non hanno nulla in cella, né sedie, né tavolo, né sgabello e nemmeno il televisore. A parte il passeggio, il resto della giornata gli internati la trascorrono chiusi in cella. Verifichiamo, poi, che è ancora utilizzata la pratica della coercizione, quella di legare ad un letto, anche per giorni, il sofferente durante una crisi. Nel 1982 lo denunciava Alberto Manacorda, psichiatra democratico, in un suo libro suimanicomi giudiziari. Dopo 27 anni, secondo il libro inchiesta di Dario Stefano Dell’Aquila, ancora si registrano centinaia di casi di contenzione, in alcuni occasioni prolungati per settimane. Chiediamo di vedere la stanza di coercizione. C’è un momento di imbarazzo, poi ci conducono in una stanza vuota, alla parete un grande disegno. Un letto, decisamente sudicio, fa bella mostra di sé al centro della stanza. Ai piedi e alla testa sono saldati i moschettoni che servono per le cinghie di coercizione. Gli psichiatri rassicurano che quel letto non è utilizzato, se non raramente. Dal registro di contenzione, scopriamo che quel letto è stato utilizzato più volte e per più persone. Ci chiediamo cosa ci sia di terapeutico nel legare una persona che ha una crisi psichica. Qui la riforma della sanità penitenziaria ha almeno prodotto un effetto. E però un internato, non visto, ci dice che non li legano più là, ma che adesso usano le fascette, cioè li legano ai letti con lelenzuola. in quella che era la vecchia stanza di coercizione. E’ qui che troviamo P. che ripete che lui non mangia, che ha bisogno dei suoi integratori alimentari. Prima di lui, nei corridoi di una struttura che è la stessa da oltre un secolo e che mostra tutti i suoi limiti strutturali, incontriamo decine di storie, impossibile raccontarle tutte. Un internato mostra la sentenza del magistrato di sorveglianza che dichiara terminata la sua pericolosità sociale, ma che proroga la misura di sicurezza perché non vi sono altre strutture residenziali protette dove accoglierlo. In questa condizioni è circa la metà degli internati di questo posto. Mentre ripercorriamo il corridoio, dalle celle spunta un uomo con la barba bianca lunga e incolta. Ci dicono che ha commesso un reato grave, di sangue e che gli psichiatri hanno detto che è socialmente pericoloso. Non abbiamo motivo di dubitarne, se non fosse che quest’uomo ha 84 (ottantaquattro) anni e che, forse, sarebbe possibile trovaresoluzioni alternative alla reclusione. Gli infermieri ci mostrano il loro spogliatoio a cielo aperto, un cerchio di armadietti all’interno di una tromba di scale. Leggiamo stupore nei loro occhi, Del resto, uno di loro, «gli internati non votano» . In questi posti sono rinchiusi uomini che avrebbero avuto diritto ad un’assistenza psichiatrica e che invece, assieme alle loro famiglie, si sono trovati completamente soli. Per questo è importante essere qui, La battaglia per la chiusura di questi posti non è ideologica, ma corrisponde ad una precisa posizione culturale. La convinzione profonda, cioè, che chi come noi esercita la propria militanza contro ogni forma di esclusione, ha il dovere etico di cominciare la propria lotta da luoghi come questi, dove si incarcera il disagio e si imprigionano i diritti.
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