Il benservito dei padroni a Berlusconi
 







Mimmo Porcaro




Palazzo Chigi
la sede del governo

Perché mai i padroni italiani, nonostante il fatto che il programma del governo sia identico al programma di Confindustria, stanno dando il benservito a Berlusconi? Per un sussulto costituzionale, per amore della legalità, per difendere il buon nome d’Italia nel mondo, per indignazione morale? Niente di tutto questo. Per comprendere il motivo di questo preavviso di licenziamento (l’unico contro il quale non ci sogneremmo di protestare) bisogna comprendere il paradosso che rende continuamente instabile la scena politica italiana, ossia il fatto che il gruppo economicamente dominante (il "grande capitalismo" privato bancario ed industriale, ingrassatosi con l’acquisto a basso costo delle imprese e delle banche pubbliche) non riesce ad essere dominante anche politicamente o, meglio, non riesce a dar vita ad un partito e ad un governo che rappresentino direttamente i suoi interessi.
Questa incapacità, resa evidente dalla difficoltà di creare il"grande centro" dal quale condizionare tutti i possibili schieramenti, deriva dal fatto che il gruppo dominante è incapace di far progredire il Paese (ne fa fede la contemporanea diminuzione del tasso di crescita del Pil e della quota del reddito da lavoro sul Pil stesso) e quindi di assicurarsi il necessario consenso sociale. Cosicché è obbligato ad usare come classi di sostegno proprio quelle stesse classi che patiscono (pur se assai diversamente) del suo dominio, ossia il lavoro ed il "piccolo capitalismo", appoggiando e tentando di influenzare ora il centro sinistra ora, e con più convinzione, il centro destra. E’ obbligato a governare attraverso governi che, pur assai benevoli, sono sostenuti da interessi divergenti dai suoi.
Berlusconi, quindi, non è mai stato il rappresentante organico e diretto di tutto il capitalismo italiano. Estraneo al salotto buono, pieno di soldi d’incerta origine, più propenso alla finanza allegra che ai tagli di bilancio, troppo ossessionato dai suoiguai giudiziari, il nostro non ha mai avuto con Confindustria un rapporto lineare: ha tentato, su incarico di Giovanni Agnelli, di tagliare le pensioni, ma si è bruciato le mani; con D’Amato ha mirato allo Statuto dei lavoratori, ma gli è andata buca, ha allora iniziato a farsi i fatti suoi, anche perché Confindustria era ormai nelle mani del centrista Montezemolo.
Ma negli ultimi tempi le cose sono cambiate: complice la crisi e l’impossibilità di sperperare troppo denaro pubblico a vantaggio delle sue clientele, per trovare un solido paravento contro "le procure", il Cavaliere ha dovuto saldamente allearsi con una Confindustria che, nel frattempo, si è data un programma apertamente antisindacale. Ecco dunque il governo Berlusconi-Tremonti-Marcegaglia. Ciononostante, arriva il benservito. Perché?
Perché nel frattempo Sergio Marchionne ha ricordato a tutti, ed anche a Confindustria, quanto dura sia la crisi e quanto nette ed impopolari siano le scelte da compiere se la si vuoleaffrontare dal punto di vista dei padroni. Queste scelte non possono essere gestite da un governo debole, e Berlusconi, nonostante tutto, è reso debole dalla necessità di sfuggire alle manette e dai continui, devastanti conflitti istituzionali che è disposto a creare a tale scopo. Per questo Fini si smarca, per questo Montezemolo avanza, per questo Draghi attacca e tutti invitano il nostro a restare a cuocersi nel suo brodo mentre gli altri preparano un’alternativa: il vero grande centro che finalmente possa dedicarsi indisturbato ai rapporti di classe, incassando politicamente, con una nuova alleanza, il plauso già sollecitamente tributato da buona parte del Pd alla linea Marchionne.
Se oggi i padroni sfiduciano Berlusconi non è per improvvisa convergenza coi temi dell’opposizione: è per la necessità di assicurare la stabilità (sempre invocata da Confindustria, dalla Banca d’Italia e dalla stessa Chiesa) e proseguire con maggior comodo nell’attacco ai lavoratori.
Questo è lostato dell’arte. E di questo si deve tenere attentamente conto ogni volta che si propongono le diverse ipotesi della pur inevitabile politica unitaria. Anche perché, se tutti siamo d’accordo sul fatto che la sconfitta di Berlusconi è preliminare ad ogni altro avanzamento, questa sconfitta rischia di essere impossibile (e Berlusconi rischia di governare di nuovo, ma col solo consenso del suo "popolo" e quindi in maniera ancor più disastrosa) se il fronte che gli si oppone si identifica completamente nelle posizioni di Marcegaglia e Draghi. Per battere Berlusconi bisogna spostare di nuovo a sinistra quei voti popolari fluttuanti (del Nord ovest e del Sud) che nel 2006 diedero la vittoria a Prodi e nel 2008 la negarono a Veltroni: disoccupati, precari, giovani che hanno bisogno immediatamente, e fatte salve più articolate proposte per affrontare la crisi, di forti sostegni al reddito che possono essere garantiti solo da una proporzionale sottrazione di risorse a coloro che sulla crisicomunque lucrano. Se non affronta in qualche modo questo problema, ogni pur ampia coalizione rischia una sconfitta che oggi avrebbe conseguenze gravissime.
Tutti questi nodi sono sottovalutati, a mio parere, nel pur argomentato articolo che Piero Di Siena ha recentemente scritto per Liberazione. Di Siena ci invita a rinverdire lo spirito della svolta di Salerno, quella con la quale Togliatti propose, nel 1944, una politica unitaria per completare la sconfitta del fascismo e per costruire in Italia una democrazia progressiva. Si trattò allora, indubbiamente, di un colpo d’ala. Ma oggi sarebbe un colpo a vuoto: oggi non siamo di fronte, come allora, ad una borghesia sconfitta, incerta sul da farsi, incapace di capire su chi puntare; né siamo di fronte a partiti di nuova formazione, ancora privi di rapporti organici e coerenti col mondo industriale e finanziario. Oggi è proprio la borghesia a dettare contenuti e tempi di un cambio di regime, mentre costruisce il proprio partito diriferimento. Se è alla lucidità storica e politica di Togliatti che vogliamo guardare, guardiamo allora al Togliatti delle Lezioni sul fascismo, quello che, analizzando realisticamente le forze in campo, sapeva individuare, dietro l’ascesa del "regime reazionario di massa", l’"elemento organizzatore" fornito dalla grande borghesia italiana: lo stesso elemento che oggi propone, ma nello stesso tempo rende difficile, l’auspicabile ma non sicuro disarcionamento del Cavaliere. Per battere il fascismo allora, come oggi per difendere la Costituzione, sarebbe stata necessaria una tattica duttile, basata però su una precisa comprensione dei rapporti di classe: cosa che mancò negli anni ’20 e sembra ancora mancare, quasi cent’anni dopo.









   
 



 
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