Colpo a sorpresa del Brasile in vista della COP16 a Cancun: l’ambasciatore Luiz Alberto Figueiredo, capo negoziatore sul clima, ha annunciato che il suo Paese sosterrà l’introduzione di meccanismi di mercato in programmi volti a ridurre la deforestazione e la degradazione delle foreste come il Redd+ promosso dalle Nazioni Unite, perché sono del tutto differenti da quelli che permettono ai Paesi oggi di scambiare quote di emissioni di anidride carbonica. Alla base del REDD, in effetti, ci sarebbe l’idea di aumentare il sequestro di carbonio atmosferico proteggendo le foreste, attraverso un sistema di incentivi che renda "conveniente" mantenere le foreste intatte invece che buttarle giù. bene, si direbbe. E invece no. il REDD è basato su processi finanziari. Alcuni Paesi sviluppati puntano a farne un sistema per continuare a emettere carbonio, pagando piccoli contributi compensativi, tipo concertone alla Sting. Anche grandi imprese hanno fiutatol’affare, e stanno puntando a impossessarsi dei terreni forestali che potranno godere di sussidi, togliendoli ai popoli indigeni e alle comunità locali. Gli incentivi rischiano, così, di creare un nuovo assalto alla terra, ai danni delle comunità indigene che per secoli hanno protetto la foresta. E di spaccare il “fronte del Sud” in vista del vertice delle Nazioni Unite, visto che la Bolivia si oppone fieramente a tutti i riferimenti alla mercificazione dei beni comuni e alla sottrazione di potere delle comunità indigene rispetto ai propri territori e al loro destino. Il Brasile è uno dei Paesi più responsabili, oggi, delle emissioni di gas serra proprio a causa della deforestazione, e fino ieri ha battagliato in sede Onu per l’idea che prima che i Paesi industrializzati non abbiano ripagato per intero il loro debito ecologico da secoli di industrializzazione avanzata non dovrebbero nemmeno provare a chiedere ai Paesi che si affacciano oggi al mercato di riconoscere i limiti delPianeta. Ragionamento abbastanza logico, se non fosse che questi limiti esistono, e che a volte, come in questo caso, ci sono cose molto strane a contorno che sembrano la vera base di queste decisioni. “Noi siamo di mente aperta rispetto al mercato – ha aggiunto Figueiredo alla stampa locale – anche se sappiamo che questi temi non troveranno una soluzione definitiva a Cancun” dove, però, il diplomatico ha detto di nutrire “forti speranze” che si raggiunga” una forma di accordo sui temi principali in discussione”. Perché, però, il Brasile avrebbe dovuto svolgere una conversione a u tanto secca rispetto ai mesi scorsi. Il timore diffuso tra le organizzazioni ambientaliste riguarda da sempre il fatto che tra i progetti finalizzati alla riduzione delle emissioni non vi sono solo iniziative di conservazione, ma anche piantagioni estensive di specie aliene a scopi produttivi (legno e carta), che spesso, dopo aver espulso le popolazioni locali, provocano molti danni al suolo, allastabilità del clima. La beninformata CNN ha scoperto, però, qualcosa di più inquietante: il Brasile ha cominciato, infatti, a mettere all’asta porzioni consistenti della propria foresta pluviale rivolgendo l’offerta a compagnie private di legname. Concessioni per un milione di ettari sono stati poste all’incanto per l’anno in corso, e ci si aspetta che salgano a 11 milioni di ettari nel corso dei prossimi 5 anni. Fino al 10% dei 280 milioni di ettari di foreste pubbliche sarebbero così gestire da imprese private, anche se le terre rimarrebbero di proprietà pubblica. Il governo brasiliano ha detto di voler, così, abbattere il fenomeno del taglio illegale degli alberi ed essere sicuro che la foresta venga gestita in modo più sostenibile. Marcus Alves, direttore del Servizio forestale brasiliano ha sottolineato che le concessioni consentono di tagliare solo 25 metricubi di polpa per ettaro (4-6 alberi) e che non permettono loro di tornare nelle stesse porzioni di territorio per i 30 annisuccessivi al taglio, riconciliando così natura e i 25milioni di persone che vivono nelle e della giungla con un’opportunità concreta di lavoro. Le concessioni rappresentano, però, solo l’inizio della privatizzazione legalizzata di questo patrimonio dell’umanità. La richiesta che la comunità scientifica, le organizzazioni sociali e le comunità indigene pongono sul tavolo di Cancun, per la salvezza della qualità dell’aria del pianeta, soprattutto ai tassi di inquinamento attuale, è che la deforestazione di queste aree sensibili si arresti definitivamente entro il 2020, senza indugi e senza scappatoie di mercato. E che qualcuno convinca il Brasile a parcheggiare la Porche dello sviluppo, che (è provato) ai tassi di inquinamento attuali non lo porterà granché lontano.
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