Quando in nome del "popolare" si costrusce il populismo In un’epoca storica così mortificante come quella che stiamo vivendo si ha l’impressione di essere dominati da una sorta di populismo diffuso, considerato - da chi lo insegue ideologicamente e cerca di metterlo in pratica quotidianamente - lo strumento più affinato per conquistare e/o mantenere il consenso, spesso coincidente con il potere, più o meno personale. Eppure, anche se oggi, nella nostra realtà italiana, ci viene naturale collegare questo concetto alle posizioni politiche espresse da personaggi quali Berlusconi e Bossi, va ricordato che il termine populismo non solo presenta diverse accezioni, ma non può essere ascritto soltanto al campo politico conservatore e reazionario, tant’è che per molti - sempre per restare nel nostro piccolo ambito nazionale - ad essere considerato un populista per eccellenza è il comico Beppe Grillo, nel suo ruolo di leader del Movimento5 Stelle. Sotto il profilo storico, come è noto, il movimento populista non venne certo fondato da gruppi reazionari, bensì da rivoluzionari russi che si opponevano allo zarismo intorno alla metà dell’Ottocento; ciò nonostante, l’immagine prevalente che tutti conserviamo è molto più legata a figure della destra autoritaria, dal Benito Mussolini che invitava ad "andare incontro al popolo" (scegliendo volutamente il termine "popolo" per contrapporlo alla parola "classe") alla coppia formata da Juan Domingo Peròn e da sua moglie Evita. In sostanza, che l’intervento del popolo venga invocato per rovesciare i dittatori o per mantenerli al potere, alla base rimane un equivoco di fondo, basato sull’idea - molto discutibile - che il popolo detenga per principio i valori giusti e positivi, come se non fosse condizionabile e manipolabile. Ed è proprio l’aspetto della "manipolazione delle coscienze" a spingere la nostra riflessione sul terreno della cultura e della comunicazione, divenutifondamentali, nello specifico, fin dalla prima metà del secolo scorso (e in tal senso basti pensare al ruolo della radio nella costruzione di un consenso di massa nei confronti del regime fascista). E se Mussolini, dal suo punto di vista, dimostrò di aver capito in fretta le potenzialità di un uso politico della letteratura e del cinema (e lo dimostrano i forti investimenti economici stanziati per costruire gli studi di Cinecittà, per lanciare la Mostra del Cinema di Venezia - nata nel 1932 con un altro nome - e per far stampare e circolare svariate riviste letterarie persino "frondiste", ma utili a fornire un’immagine "aperta" del regime), anche a sinistra, purtroppo, ci fu chi non si fece scrupoli ad attaccare l’autonomia della cultura in nome e per conto dei bisogni di un generico popolo, i cui gusti mediani dovevano essere considerati come il limite invalicabile per le produzioni artistiche. L’esempio più macroscopico ci porta all’Unione Sovietica dei primi anni Venti, dove ungruppetto di autori mediocri (ma ben inseriti nel Partito) provò prima a fare a pezzi tutta la letteratura russa considerata "alta" (e quindi inarrivabile, almeno per loro….), per poi cercare di imporre una standardizzazione dell’espressione letteraria sulla base di un vero e proprio canone, definito "letteratura proletaria" e figlio di un canone più ampio (e sciagurato), cioè quello della "cultura proletaria". Questi signori, radunati attorno alla rivista Na Postu, combattevano il Futurismo russo perché "inaccessibile alle masse" (quindi al popolo), stroncavano, per la stessa ragione, ogni forma di simbolismo nella poesia (contribuendo, così, a svuotarla di senso e, in ultima analisi, ad ucciderla) e giudicavano un’opera letteraria non sulla base del suo valore, bensì del grado di fedeltà al Partito dimostrata dal suo autore, il quale, per altro, per rientrare nei criteri della correttezza artistica doveva scrivere testi caratterizzati da evidenti richiami alle tematiche ritenuteimportanti dal Partito stesso. Costoro arrivarono all’aberrazione di proporre che i criteri sulla base dei quali si sarebbe dovuta decidere la pubblicazione di questo o quel romanzo venissero sostanzialmente indicati dal Comitato Centrale del Partito Comunista, dato che questo stesso organismo dirigente avrebbe dovuto avere il compito di stabilire i confini generali dentro cui inserire (o meglio, rinchiudere) la produzione culturale. Ci si dirà: ma questi sono problemi superati, quindi che senso ha riproporre un dibattito sull’incidenza negativa del populismo a livello artistico e culturale? Purtroppo un senso ce l’ha ancora, proprio perché da un lato quell’atteggiamento mentale portò all’uso "normale" di quella censura che ha segnato la vita del socialismo reale fino alla sua estinzione e continua a caratterizzare quella di alcuni Paesi nominalmente comunisti come la Cina e Cuba, mentre dall’altro lato la tendenza a stabilire dei criteri politici di selezione culturale e adaffidarne la gestione ad organismi definiti dal Partito/Stato è ancora ben radicata in certe realtà (a Cuba, ad esempio, la mancanza di carta dovuta all’embargo comporta una forte limitazione dei titoli stampati, basata anche - ma non solo - sulle indicazioni dell’Uneac, l’Unione degli artisti e degli scrittori cubani; una delle conseguenze immediate è che ci sono romanzi di autori cubani tradotti e pubblicati in più di dieci Paesi del mondo che a Cuba, semplicemente, non esistono, il che, con tutta la simpatia che si può nutrire per l’esperienza politica in corso nell’isola caraibica, lascia più di una perplessità e anche un po’ di sconcerto). Ai tempi delle polemiche suscitate dai vincenti "napostovcy" (vincenti in quanto le loro teorie furono perfettamente recepite ed applicate da Stalin e Zdanov), l’unico dirigente bolscevico ad opporsi apertamente al concetto di "letteratura proletaria" fu Trotsky, ma evito di approfondire questo aspetto perché l’ho già fatto in un articolospecifico che uscirà sul prossimo numero della Nuova Rivista Letteraria, edita da Alegre e in libreria dal 2 dicembre. Lo spunto, però, resta importante, in quanto ha generato comportamenti e concezioni che hanno attraversato l’intero Novecento, arrivando fino ai tempi nostri. Anche nel primo dopoguerra, infatti, una certa letteratura uscita dalla Resistenza e/o comunque opera di scrittori impegnati politicamente a sinistra si basò sull’idealizzazione del mondo popolare come detentore dei valori positivi, malgrado la chiara presa di distanza di Marx nei riguardi del populismo, ben evidenziata da questa sua frase: «Quando si parla di popolo, mi domando che brutto colpo si stia giocando al proletariato». E se alla questione del rapporto tra populismo e letteratura è difficile aggiungere qualcosa di importante a quanto già espresso da Alberto Asor Rosa nel suo fondamentale Scrittori e popolo del 1965 (al di là delle ovvie revisioni fatte successivamente dall’autore stesso, in base alleenormi trasformazioni subite dal contesto sociale rispetto a quello preso in esame all’epoca), è possibile, però, riprenderne alcuni capisaldi per analizzare la situazione odierna. In quel libro, che aprì una discussione enorme e molto feconda, Asor Rosa contestava da sinistra il modello culturale populista proposto dal Pci, mettendo in evidenza la mancanza, in Italia, di una letteratura borghese capace di criticare duramente il mondo che l’aveva generata e mettendo in discussione proprio il populismo di tanti autori otto/novecenteschi, che allora erano dei punti di riferimento quasi intoccabili per i gruppi dirigenti, e non solo, della sinistra italiana (da Pascoli a De Amicis, da Bilenchi a Pratolini, fino a Vittorini, Cassola, Pasolini e persino al Gramsci che aveva sostenuto il "nazionalpopolare"). A questo punto, a quarantacinque anni di distanza dall’uscita di quel libro straordinario, le domande sono: siamo sicuri che la tentazione populistica (spesso coincidente con lamalsana idea di utilizzare la cultura in chiave propagandistica) non si nasconda ancora dietro il rapporto tra sinistra e cultura, e, soprattutto, quanto pesa, in tal senso, la subalternità - anche in campo culturale - alle leggi del mercato dimostrata da gran parte della sinistra italiana, fino a farne un nuovo dogma? Personalmente, temo che la prima risposta sia affermativa e la seconda sia "molto", con qualche sovrapposizione possibile, nel senso che da una parte l’evidente abbassamento dei livelli culturali dei gruppi dirigenti della sinistra comporta anche l’accettazione di ciò che, culturalmente, non contrasta con il senso comune (con tutto il rispetto, ne è un esempio il "fabiofazismo" televisivo, basato sull’esaltazione e l’ulteriore diffusione dei libri che occupano i primi posti delle classifiche di vendita, quindi quelli più "popolari"), e dall’altra parte sia il mercato stesso, con i suoi meccanismi distributivi e promozionali tipicamente capitalistici, ad operare di per séquella selezione "populistica" che, con qualche positiva eccezione, cancella in partenza le forme espressive e tematiche reputate "di ricerca". In sintesi, mi sembra chiaro che del populismo non ci siamo assolutamente liberati e che, se vogliamo tentare di uscire dalle sabbie mobili della subalternità culturale della sinistra nei confronti del pensiero dominante, dobbiamo riproporre questa battaglia, comprendendone tutta la sua attualità. Stefano Tassinari Cosa resta della politica nell’età del populismo La recente affermazione del Tea Party negli Stati Uniti e le ricorrenti ondate anti-immigrati, anti-islamici e anti-rom che scuotono il mondo conservatore europeo, mettendo seriamente in discussione la stessa idea che esista una "destra normale" non tentata dalle sirene e dai toni violenti dei "tribuni della plebe", hanno posto nuovamente al centro del dibattito internazionale il tema del "populismo". Non di una riflessione originale sitratta, infatti, visto che già a metà degli anni Novanta i successi contemporanei della Lega in Italia, del Front National in Francia, dei liberali di Haider in Austria - e l’elenco potrebbe continuare a lungo fino a descrivere gran parte dello spazio geografico europeo -, avevano fatto gridare all’allarme populismo, perché non di vecchie destre nostalgiche si trattava in quel caso, ma di "nuove destre" che si proponevano proprio come rappresentanti legittime della volontà popolare e che criticavano per così dire la democrazia dal suo interno, non per volerla cancellare ma, almeno a parole, per renderla più efficace e vicina alla "gente". Sulla scorta di questi fenomeni la riflessione sul populismo ha assunto perciò ormai da tempo l’aspetto di un’analisi del nuovo volto della destra in Occidente, anche se letture in qualche modo affini sono state proposte anche sulla crescita dell’Islam politico o, per restare in Oriente, sul ritorno del nazionalismo hindu. Nel paese che ha poiconosciuto lo sviluppo di una nuova forma di comunicazione politica, legata in primo luogo allo spazio di senso costruito dalla televisione - ciò che è finito per andare sotto il nome di "telepopulismo" - e all’affermazione di un’idea di società che da questo prendeva le mosse - "il sogno" berlusconiano - e lo straripante successo dell’invenzione identitario-produttiva della "Padania", la riflessione su questi temi non avrebbe potuto che incanalarsi su questo binario. Eppure, mai come in questo momento il riferimento al populismo non potrebbe essere più diffuso e articolato - fino a confermare la lettura proposta dal filosofo argentino Ernesto Laclau in La ragione populista (Laterza, 2008) che sembra far coincidere oggi il populismo con la forma stessa della politica. Del resto, senza nulla togliere alla forza d’urto della narrazione democratica messa in scena da Fazio e Saviano, come leggere il fatto che il più forte annuncio della crisi del telepopulismo berlusconiano sia fatto inquesti giorni proprio da una trasmissione tv che trasforma lo studio televisivo in una piazza esattamente come ha fatto il Cavaliere nel corso degli ultimi quindici anni? Tutto ciò ad indicare, ancora una volta ricordando Laclau, come la riflessione sul populismo debba partire più dalle domande che la politica non soddisfa più con la sua azione, che non da una mera critica delle forme che può assumere in questo o quel frangente: se lo spazio pubblico si è rarefatto in quello della tv si abbia il coraggio di dirlo e di ripartire da questo elemento piuttosto che di esorcizzarlo per poi ritrovarvisi proprio malgrado. In altre parole, il problema centrale con cui si è costretti a misurarsi quando si parla del populismo è a quali domande si proponga di rispondere e quali sfide metta in campo, più che il suo appartenere esplicitamente a una precisa "tradizione politica". In questa prospettiva il sociologo tedesco Ulrich Beck legge ad esempio, fin dalle prime pagine del recente Potere econtropotere nell’età globale, Laterza (pp. 456, euro 22,00), la crescita della nuove destre populiste alla luce della sua visione del mondo globalizzato: «Il successo del populismo di destra in Europa (e in altre parti del mondo) va inteso come reazione all’assenza di qualsiasi prospettiva in un mondo le cui le frontiere e i cui fondamenti sono venuti meno. L’incapacità delle istituzioni e delle élites dominanti di percepire questa nuova realtà sociale e di trarne profitto dipende dalla funzione originaria e dalla storia di queste istituzioni. Esse furono create in un mondo nel quale erano ancora pienamente valide le idee di piena occupazione, di predominio della politica nazional-statale sull’economia nazionale, di frontiere funzionanti, di chiare sovarnità e identità territoriali». E già Guy Hermet, politologo e docente nelle università francesi e svizzere, nel volume più ampio e completo dedicato a questi fenomeni, Les populismes dans le monde (Fayard, 2001) - purtroppo ancorasenza traduzione nel nostro paese - tracciava "una storia sociologica" del populismo che dal boulangismo francese e il People’s Party americano, entrami apparsi nell’Ottocento, e attraverso i regimi di Vargas e Peron in America Latina arrivava fino al "social-sciovinismo" di Le Pen e a Berlusconi. Ancora più in là si sono spinti poi i contributi di Les populismes, un volume curato dallo storico Jean-Pierre Rioux e pubblicato nel 2007 da Perrin, ma che raccoglie molti interventi già ospitati nel 1997 su un numero monografico della rivista Vingtième siècle. In questo caso lo spettro dei fenomeni presi in esame si allargava a "L’appello al popolo da parte di Stalin", a "Islamismo e populismo" e ai "Quasi populismi del Sudest asiatico", senza dimenticare "Il populismo culturale" e quelle che venivano presentate come "le tendenze populiste della sinistra europea", in particolare nel Pci e nel Pcf, analizzate da Marc Lazar. Del resto il filosofo Nicolao Merker nel suo Filosofie del populismo(Laterza, 2009) aveva scavato ancora più in profondità, facendo risalire all’opposizione reazionaria alla Rivoluzione francese del 1789 una parte dei materiali simbolici abitualemente utilizzati in seguito dal "populismo di destra" per poi prendere in esame "tracce" del genere nell’opera di pensatori, filosofi e intellettuali, da Hegel a Heidegger, da Mazzini a Gioberti. Da questo breve repertorio di quanto è stato detto e scritto negli ultimi anni sul populismo, emerge chiaramente come malgrado "l’appello al popolo" sia diventato quasi una caratteristica delle nuove destre postmoderne, quelle che non hanno più bisogno di fare i conti con il Novecento per elaborare la loro proposta e la loro identità, sarebbe sbagliato limitare a questi segnali la propria attenzione. Come sottolineava il volume Populaire et populisme, (Cnrs Editions, 2009), raccogliendo gli interventi di una decina di studiosi e analisti, tra cui Nonna Mayer tra le maggiori studiose dell’"appeal sociale" del FrontNational di Le Pen, il vero problema è infatti capire come mai nei momenti di crisi i riferimenti "al popolo" cambino rapidamente di segno, trasformandosi per l’appunto da "popolari" in "populisti" e da evocazioni di libertà e solidarietà in proiezioni funeste di frustrazioni e odio, fino alla conseguenza estrema della ricerca di qualcuno a cui far pagare la propria infelicità. Per questo, come spiega Ernesto Laclau, forse il populismo -non designa un fenomeno circoscrivibile, ma una logica sociale, i cui effetti coprono una varietà di fenomeni. Il populismo è, se vogliamo dirla nel modo più semplice, un modo di costruire il politico-. Guido Caldiron "In galera!". Il risentimento al posto della giustizia sociale A metà strada tra il descrittivo e il normativo, il populismo - sostengono molti autori - è una categoria politica di difficile definizione che non designa un fenomeno circoscrivibile ma soltanto una logica sociale i cui effettiproducono una varietà di esperienze politiche molto diverse. In realtà più una sindrome sociale che una dottrina politica, afferma Peter Wiles. Non a caso il populismo viene evocato per dare nome a situazioni che si manifestano in periodi di crisi. Nel contesto europeo la fine del fordismo, la rottura del rapporto identitario legato all’appartenenza sociale, in Italia il crollo del sistema dei partiti, e più in generale l’emergere di sistemi politici neo-oligarchici. Il populismo altro non è che -un modo di costruzione del politico-, sostiene Ernesto Laclau, La ragione populista (Laterza, 2008) che mette al centro della legittimità politica, manipolandola e passivizzandola, una vaga astrazione chiamata "popolo". Fenomeno che nello specifico laboratorio politico italiano si è diversificato, sommando ai tradizionali temi patriottici e nazional-popolari, interpretati in questo caso dai postfascisti, nuove rivendicazioni pseudoetniche o regionalistiche, intrecciate a sentimenti di rivoltafiscale contro lo Stato nazione ed a pulsioni xenofobe e razziste incarnate dalla Lega Nord. Forme di ripiego identitario capaci al tempo stesso di coabitare con un "cesarismo mediatico", espresso dal modello berlusconiano, poco interessato ai localismi valligiani e totalmente proiettato verso una dimensione hertziana e ipnotica della comunicazione politica, fautore di una società lasciata in balia degli appetiti più sfrenati e prédatori del mercato, a tutto vantaggio di un nuovo ordine censitario e di un aggressivo orgoglio proprietario che darwinianamente ha rilegittimato il diritto di sopraffazione sui meno abbienti, sdoganando -la ricchezza come misura del proprio valore e il trionfo degli istinti animali del capitalismo come pubbliche virtù-. Queste nuova dimensione antropologica ha favorito la penetrazione trasversale di altre forme di populismo, tra le cui pieghe si è sedimentata un’ossessiva rappresentazione fobica e igienista della società. Un’isteria sociale che ha nutritola crescita dirompente del fenomeno giustizialista, il cui successo si è riversato sul funzionamento del sistema giudiziario trasformato in una nuova arena da combattimento tra attori e gruppi sociali dominanti. Il ricorso a nuovi repertori moralistici, improntati sul tema della virtù, è così servito a giustificare l’uso strategico dello strumento giudiziario, impiegato in un primo momento, gli anni 90, dalle singole fazioni dominanti nella rincorsa ad etichettarsi reciprocamente come criminali. Paura e insicurezza sono diventate le parole chiave di questo dispositivo che infrange le tradizionali barriere tra destra e sinistra e al cui interno coesistono grammatiche politiche eterogenee: una nevrotica e l’altra psicotica. Questa trasversalità della paura è frutto dell’attuale società dell’incertenza, un derivato di rapporti sociali e di lavoro improntati sulla flessibilità e il precariato. La modificazione del paradigma produttivo, il declino di modelli politici edificati sulcompromesso dello Stato sociale, il trionfo dei modelli neoliberali hanno mutato ciò che un tempo si intendeva per sicurezza, ovvero una idea progettuale di esistenza fondata su diritti sociali e politici garantiti: dal lavoro, al reddito, alla scuola, all’assistenza sanitaria, alla pensione, all’azione sindacale. Diritti che a loro volta dispiegavano nuove richieste e bisogni inclusivi. Tutto ciò si è rovesciato trasformandosi in una visione arroccata dell’esistenza, costruita attorno all’utopia reazionaria della "tolleranza zero". Alla sicurezza si chiede la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, reali o immaginari, che sia il capitale o una casa popolare non fa differenza, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo ha assunto dunque una connotazione «penale» declinata come risposta alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo va riferito quindi al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonatidall’autorità. Un risentimento che si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Ecco che a differenza dei populismi passati, il populismo penale attenua la tradizionale carica antielitaria per rivolgere la propria stigmatizzazione verso capri espiatori individuati nelle posizioni più basse della scala sociale: dagli immigrati, ai nomadi, ai giovani delle periferie, più in generale a quelle figure che riempiono le fila dell’esercito salariale di riserva. La sua caratteristica è quelle di muovere una guerra sociale verso il basso. Guerre dei possidenti contro i nulla tenenti e guerra tra poveri. Secondo il sociologo Vincenzo Ruggiero, una spiegazione provvisoria potrebbe essere la seguente: nelle società neoliberiste il successo individuale viene premiato tanto quanto l’insuccesso viene punito. -Chi nel mercato mostra segni di fallimento va espulso, castigato; si rischia altrimenti di lanciare un messaggio insidioso,vale a dire che la responsabilità per il fallimento non è da attribuire all’individuo, ma al mercato medesimo-. Si afferma così - ha denunciato il giurista Luigi Ferrajoli - una -duplicazione del diritto penale- che designa il passaggio dalla fase giustizialista al populismo penale vero e proprio. Un diritto mite per i ricchi e i potenti e un diritto massimo per i poveri e gli emarginati. «E’ la prova che oggi la giustizia - sostiene sempre Ferrajoli - è sostanzialmente impotente nei confronti della delinquenza dei colletti bianchi, mentre è severissima nei confronti della delinquenza di strada. Si pensi agli aumenti massicci di pena per i recidivi previsti dalla legge Cirielli, sull’esempio degli Stati Uniti, simultaneamente alla riduzione dei termini di prescrizione per i delitti societari. E si pensi, invece, alle pene durissime introdotte dal decreto sulla sicurezza: espulsione dello straniero condannato a più di due anni, reclusione da 1 a 5 anni per avere dichiarato falsegeneralità, aumento della pena fino a un terzo nel caso in cui lo straniero sia clandestino-. Emerso negli Stati Uniti durante gli anni 80 come discorso politico, proprio della destra neoconservatrice, specializzato nelle promesse punitive capaci di sedurre l’elettorato, il populismo penale ha rotto gli argini nei decenni successivi per divenire l’oggetto irrinunciabile della contesa tra i partiti politici di ogni schieramento. Il populismo penale non è più di destra o di sinistra è la forma della politica attuale interpretata con minori o maggiori sfumature. Quest’ideologia presenta tuttavia sfaccettaure diverse tra la realtà nordamericana e quella europea. Differenze legate alla presenza di modelli sociali, istituzionali e giudiziari dissimili. Il tema della complicità dello Stato con il crimine, tacciato per questo d’elitismo e corruzione, appartiene al repertorio classico della critica neoconservatice e dei libertarians americani (i fautori dello Stato minimo) nei confrontidi quello che viene ritenuto un eccessivo presenzialismo statale. Al contrario, da noi, i "professionisti dell’antimafia" - per esempio - denunciano il lassismo del governo nella lotta alla criminalità auspicando un sempre maggiore coinvolgimento dello Stato. Il sistema giudiziario di tipo accusatorio fa si che nel modello nordamericano si configura una contrapposizione politico-ideologica tra gli incarichi elettivi e quelli indipendenti che reggono il sistema della giustizia penale. Lo sceriffo della contea insieme a l’attorney (il procuratore) sono ritenuti gli eroi della guerra senza quartiere al crimine. Mentre il giudice terzo, in quanto garante delle forme della legge, è percepito come un ostacolo se non addirittura una figura connivente con la delinquenza. La tradizione inquisitoria che pervade ancora il sistema giudiziario italiano, via di mezzo tra rito istruttorio e "semiaccusatorio", consente invece alla nostra magistratura di essere individuata come il perno centrale dellalotta non solo alla criminalità ma più in generale all’ingiustizia. Gli strumenti giudiziari d’eccezione e la cultura inquirente congeniata per contrastare la sovversione sociale degli anni 70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che hanno traversato il decennio 80, e lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di "Tangentopoli" nella prima metà degli anni 90, hanno conferito alla magistratura il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale della società. Il modello del capro espiatorio ha svolto un ruolo centrale nella vicenda passata alle cronache come la rivoluzione di "Mani pulite". Le conseguenze, per nulla percepite dagli attori dell’epoca, che spesso pensavano di interpretare una stagione di rinnovamento del Paese, sono state enormi. E’ da lì che prendono forma e si strutturano le ideologie del rancore e del vittimismo che fomentano trasversalmente le attuali correnti populiste, stravolgendo quell’idea di giustiziache per lungo tempo era stata sospinta da ragioni che disprezzavano gli strumenti della penalità e del carcere in favore della ricerca del bene comune. Se prima si trattava di raggiungere obiettivi universali in grado di ripercuotersi in un miglioramento delle condizioni di vita di ciascuno, ora il traguardo più ambito è l’aula processuale, conquistare un posto in prima fila nei tribunali, sedere sui banchi della pubblica accusa o delle parti civili. Si pensa e si parla solo attraverso le lenti dell’ideologia penale. Una sovrabbondanza che alla fine, è superfluo ricordarlo, non ha creato più giustizia. Come dicevano già i romani: summum ius, summa iniuria. Il mito della giustizia penale ha trasformato la politica nel cimitero della giustizia sociale, l’esaltazione delle qualità salvifiche del potere giudiziario hanno fatto tabula rasa di ogni critica dei poteri. Paolo Persichetti
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