Si dice che al mercato del voto, quello che il 14 dicembre prossimo potrebbe garantire la sopravvivenza politica a Berlusconi e al suo governo, il prezzo della corruzione, salito vorticosamente nei primi giorni, stia subendo un sensibile ribasso. Dai 500mila euro, l’asta era via via salita fino al milione ed oltre e man mano che ci si avvicinava alla soglia fatidica dei 318 voti necessari per salvare la pellaccia, il "valore", o meglio, "l’utilità marginale" dei transfughi cresceva. Si dice anche che i deputati più attenti alla dinamica fra domanda e offerta, ma anche più spregiudicatamente avvezzi al gioco d’azzardo, abbiano atteso, portando il rischio fino all’estremo, nella speranza di veder salire insieme alla posta anche le proprie quotazioni. Ma, come succede nelle speculazioni di borsa, un’improvvisa eccedenza dell’offerta, in altri termini una propensione a saltare sul carro del caudillo superiore alle attese, sembra abbia reso l’acquirente,pardon, l’utilizzatore finale, meno generoso. Le quotazioni paiono così in rapido decremento, i 30 denari non sono più 30 e il gioco speculativo si ritorce contro chi aveva immaginato di lucrare alla grande sul fragile equilibrio dell’esecutivo. Questa non troppo (o per nulla) fantasiosa rappresentazione dell’indegno spettacolo che va in scena nei palazzi del potere è lo specchio della degenerazione estrema cui è giunta la vita politica del Paese, nel cuore della rappresentanza istituzionale. Appena al di sopra (si fa per dire) degli antri oscuri ove si consuma la compravendita, si svolge la trama politica (di nuovo, si fa per dire) alla luce del sole. Dove si vedono: gli stop and go dei "futuristi"; l’astinenza dal potere dei democristiani di Casini (ieri, nel giro di due ore le agenzie hanno prima battuto la notizia di un possibile ingresso dell’Udc nel governo per poi confermarne il voto di sfiducia); quindi, l’astuzia opportunistica dei radicali, poi smentita da Emmma Bonino; ilvoyerismo politico del Pd (ormai dedito a commentare la realtà, piuttosto che a cambiarla). Infine, in questo crepuscolo postribolare c’è - e come poteva mancare - la commedia fra la ministra delle pari opportunità, quella Mara Carfagna che ora Berlusconi apostrofa come «ingrata creatura», colpevole di avere voltato le spalle al suo generoso pigmalione, e la nipote del duce, la «vajassa», che aveva finto di non volere più votare la fiducia al governo (nobiltà della politica) se prima non avesse ricevuto formali scuse dalla sua antagonista. Ora, quest’aria fetida, queste sempre più ricorrenti risse intestine alla compagine governativa rendono piuttosto chiaro che anche se a metà dicembre Berlusconi strapperà un certificato di esistenza in vita, il governo ed un’intera stagione della politica italiana volgono inesorabilmente al tramonto. Potranno esservi colpi di coda, pratiche di "mesmerizzazione" (rivitalizzazione di tessuti morti), ma il regno del sovrano di Arcore non è destinatoa durare. A tutto questo e ad altro ancora si potrà assistere per un po’, mentre l’Italia reale - quella della disoccupazione e del precariato, quella dei diritti negati, quella che stramazza sommersa dai rifiuti, quella che non sa più come fare a campare e sale sui tetti o su una gru in preda ad una disperazione senza speranza - rimbalza come su un muro di gomma, in faccia all’inerzia sfrontata e ostentata di un personale politico esclusivamente ripiegato sui propri interessi personali, ineffabilmente disinteressato allo stato del Paese e ai problemi più drammatici a cui dovrebbe invece tentare di dare risposta. Lo scollamento fra i due piani è talmente grande che neppure il più scaltro degli illusionisti, neppure la più abile manipolazione mediatica riesce a nascondere l’insopportabilità di questo stato di cose. Occorre allora capire che i sussulti di protesta che si levano un po’ dovunque devono trovare un punto di coagulo, di unificazione, non solo sociale ma politica. Perora lo sta facendo soltanto il sindacato, per la parte che gli compete. Ovviamente è un bene che questa risposta vi sia. Lo è che il 16 ottobre la Fiom abbia fatto comprendere su quante e quali risorse si possa contare, lo è che la Cgil stia per replicare sabato prossimo e che, auguriamocelo, si giunga rapidamente allo sciopero generale, spazzando via l’ipotesi sciagurata di un patto sociale che, con i presupposti dati, si risolverebbe in una resa a Confindustria. Francamente, l’ipotesi tutt’altro che peregrina che il bastone del comando possa semplicemente passare da Berlusconi a Marchionne non lascia per nulla tranquilli. Il punto è che l’opposizione non riesce a toccare palla, con un Pd che naviga, incerto su tutto, in una terra di mezzo, cioè di nessuno, paralizzato da un ormai cronico cerchiobottismo. La mossa vera, spetterebbe alla sinistra, unita su un progetto e su un programma politico, più che su una candidatura alle primarie, ormai elette, nel centrosinistra e dintorni,alla sola forma di democrazia praticabile. La sinistra potrebbe davvero sparigliare le carte se entrasse nella lotta politica con tutta la determinazione delle proprie idee, persuadendosi e persuadendo che la ricerca di un’unità vera, a manca, non è una carta sbiadita, una scelta rinunciataria, o puramente identitaria. Di questo vorremmo parlare seriamente con Sel e con Vendola, sempre che essi non si rassegnino a subire la condizione invalicabile per la visibilità loro offerta: la delimitazione a sinistra, una riedizione della conventio ad excludendum, della discriminazione anticomunista dalla quale non è mai venuto alcun bene e da cui dubito possa sortire qualcosa di buono oggi.
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