Nucleare, servono 1.000 laureati per centrale. E in Italia non ci sono
 











Servono almeno "1.000 laureati nucleari per centrale", da costruzione a primo kiloWattora prodotto. La stima la fornisce l’Enea nel rapporto ’Analisi delle necessita’ formative per il programma nucleare italiano’, presentato oggi a Roma. Quando poi l’impianto sara’ in esercizio, considerando quattro gruppi a doppio reattore, cioe’ quello che dovrebbe essere il parco italiano, saranno necessarie le competenze ed il lavoro di 10.000 esperti in 10 anni. Attualmente, pero’, "il sistema educativo italiano non ha oggi una capacita’ produttiva (meno di 100 laureati ’nucleari’ l’anno) adeguata a questa sfida- segnala il rapporo Enea- ma, nonostante la lunga pausa e’ in grado di affrontarla purche’ il sistema paese intervenga con le risorse necessarie a rivitalizzare le competenze ancora attive e a ritornare almeno alla produttivita’ degli anni 80 (300 laureati ’nucleari’ l’anno)".
Per una soluzione tecnologica di III generazione tipo Epr, quella hesbarchera’ quasi certamente in Italia, "la realizzazione (costuzione, produzione, componenti, commissioning) di una centrale a due reattori richiede non meno di 2.500 addetti per anno per un periodo di almeno 6 anni- si legge nel rapporto Enea- e con una quota di 800 addetti che rimangono in organico per la gestione della centrale". Di questi, 5 sono ingegneri civili, 20 ingegneri informatici ed elettrici, 15 ingegneri meccanici, 25 ingegneri nucleari, 30 ingegneri progettisti, 75 operatori di sala controllo e impianto, 20 tecnici chimici, 135 tecnici di manutenzione, 35 tecnici di radioprotezione e manipolazione materiale radioattivo, 70 addetti alla sicurezza, 35 addestratori, 335 personale non tecnico: totale 800 addetti.
Il direttore generale del ministero dell’Ambiente, Corrado Clini, invita quindi a "riflettere sul sistema dell’emissione trading che abbiamo in Europa e bloccato per le frodi", e propone "una specie di carbon tax, in modo da dare un reale valore alla differenzatra le varie fonti" energetiche. Inoltre, piuttosto che parlare di target di riduzione delle emissioni "come Europa dovremmo mettere sul tavolo la discussione su standard internazionali di efficienza energetica da adottare all’interno del Wto", l’organizzazione mondiale del commercio. Insomma, per Clini bisogna "porsi il problema della coerenza delle politiche energetiche globali", servono in sostanza "politiche che incidano sulle strategie", ma "la questione della coerenza non e’ ancora sul tavolo dei negoziati internazionali".
Diversa, invece, la visione di Chris Dodwell, capo per la mitigazione climatica del dipartimento per l’Energia e i cambiamenti climatici. A suo giudizio "il problema non e’ il procollo di Kyoto ma la forma legale" degli accordi. A livello di negoziati, sottolinea, "Copenhagen non ha prodotto effetti positivi ma nell’ultima conferenza di Cancun ci sono stati progressi significativi", con "impegni presi da quei paesi responsabili dell’80% delle emissionimondiali". Dodwell offre quindi un suggerimento e un esempio sulla strada da seguire, prendendo la politica energetica britannica. "Il sistema della Gran Bretagna- evidenza- contempla tre opzioni: rinnovabili, Ccs (Carbon capture and storage, la cattura e lo stoccaggio sotterraneo del carbonio, ndr) e nucleare", con questa terza opzione che "puo’ ricoprire un ruolo di maggior rilievo".de Dire









   
 



 
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