L’art. 41 della Costituzione della Repubblica Italiana detta: “L’iniziativa privata è libera. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Le norme di cui ai primi due commi ripetono fedelmente il dettato dell’art.39 del Progetto di Costituzione preparato dalla Commissione all’uopo incaricata dalla Costituente e le due formule votate dall’Assemblea lasciano aperte tutte le possibilità del liberalismo economico. Ma col terzo è ultimo comma si è voluto meglio precisare la collocazione di disposizioni di tanto rilievo nel quadro dei rapporti economici disciplinati dal Tit. III della Parte I della Costituzione, che consacra quali siano i diritti e i doveri dei cittadini, perloro natura irrinunciabili e immodificabili, senza che sia sconvolto l’ordito costituzionale e minato l’ordinamento democratico dello Stato: un delinquenziale disegno, questo, che va facendosi di giorno in giorno sempre più manifesto. Le nuove Costituzioni – e non solo la nostra - rispecchiano tutte con affermazioni e con norme precise una tendenza storica in inarrestabile cammino: che la democrazia non è soltanto politica, ma economica e sociale. La Costituzione italiana ha due note fondamentali: 1) lo sviluppo della personalità; 2) La partecipazione di tutti i cittadini – e non di una sola “classe” – alla gestione della società. Dalla prima deriva la liberazione dell’uomo dal bisogno, una delle quattro libertà rooseveltiane; da tutte e due, insieme, l’esistenza di ordinamenti democratici anche nel campo dell’economia. Non vi può essere alcun interessato rimpianto che, un secolo dopo i “diritti dell’uomo e del cittadino”, siano stati dichiarati,accanto a quelli degli imprenditori, i “diritti del lavoratore”. Se il Thiers disse dopo il 1970 che “la repubblica sarà conservatrice o non sarà”, si puo ben dire oggi che la Repubblica sarà di democrazia e riforme economiche, o non sarà. La nostra Costituzione non parla, come fanno altre, di “protezione del lavoro”. Non si protegge il lavoro, che è forza essenziale della società. Si pone invece il compito della Repubblica di provvedere con la sua legislazione e di promuovere accordi internazionali per la salvaguardia delle conquiste e la regolamentazione dei diritti del lavoro. L’affermazione del “diritto al lavoro” - e cioè di un’occupazione piena per tutti – ha dato luogo a dubbi da un punto di vista strettamente giuridico, in quanto non si tratta di un diritto già assicurato e provvisto di azione giudiziaria, ma la Costituente ha ritenuto – ed anche giuristi rigorosi hanno ammesso – che, trattandosi di un diritto potenziale, la Costituzione ben poteva indicarlo,come avveniva in altri casi, perché il legislatore ne promuovesse l’attuazione, secondo l’impegno che la Repubblica nella Costituzione stessa si assumeva. Al diritto si accompagna il dovere di lavorare, come è nel grande motto dell’Apostolo Paolo, che fu riprodotto persino nella Costituzione sovietica: “Chi non lavora non mangia”. A evitare applicazioni unilaterali, si chiarì che il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società. E’ lavoratore lo studioso e il missionario; lo è l’imprenditore, in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione. Posto il dovere del lavoro, è inevitabile sanzione – e la larga accezione toglie il pericolo di abusi – che il suo adempimento sia condizione per l’esercizio dei diritti politici. Sono direttive generali anche il criterio di rimunerazione del lavoro e la parificazione, a tali effetti, della lavoratrice al lavoratore, col che sicompleta, nella nostra Costituzione, la conquistata eguaglianza della donna. Si riferiscono a istituti concreti il diritto all’assistenza che spetta a ogni individuo senza mezzi e senza capacità di lavoro e il diritto particolare, che sorge dalla stessa prestazione di lavoro, alla previdenza e alla “sicurezza sociale”. Per l’organizzazione sindacale, tra i due estremi dell’assenza di ogni norma (che ha reso in più casi necessario l’intervento di una legge per rendere obbligatorio il contratto collettivo) e l’opposto e pesante sistema di regolazione minuta e pubblica, di tipo fascista, si è adottato il criterio della libertà senza imposizione di sindacato unico. Vi è il solo obbligo di registrazione a norma di legge, per i sindacati che intendono partecipare alla stipulazione di contratti collettivi e questo avviene con rappresentanze miste costituite a tal fine e proporzionali per numero agli iscritti nei sindacati registrati: il che non giustifica quanto va di recente “defacto” avvenendo. La dichiarazione pura e semplice del diritto di sciopero è prevalsa sulle altre tesi che la Costituzione ne tacesse, o della subordinazione a norme di legge. Si è con ciò voluto affermare più vigorosamente e senza restrizioni, quel diritto, ma non si è escluso dai sostenitori della tesi prevalente che la legge possa provvedere la sua applicazione. La Costituzione, in questo quadro e solo in questo quadro, riconosce e garantisce nell’economia italiana – e a ciò si oppongono delinquenziali correnti estreme – l’iniziativa e la libertà privata e la proprietà privata dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. La Costituzione mette in luce la coesistenza di attività pubbliche e private che debbono, ciascuna, proporsi di provvedere insieme ai bisogni individuali e a quelli collettivi. Limitazioni della proprietà sono ormai comuni a tutte le Costituzioni e la coscienza moderna richiede che la proprietà adempia alla sua funzione sociale e sia accessibile a tuttimediante il lavoro e il risparmio. E’ prevista la assunzione diretta di imprese economiche da parte dello Stato e, in forme decentrate, di enti e di “comunità d’utenti e di consumatori”, col che si è aperto l’adito a una difesa dei consumatoi. Tale assunzione ha come condizioni: 1) che avvenga in base a disposizioni di leggi, che ne consentano l’attuazione, non la neghino; 2) che dia luogo ad espropriazione e indennizzo; 3) che vi sia uno dei tre caratteri ricorrenti in materia di nazionalizzazione e/o socializzazione, servizio pubblico essenziale, disponibilità di fonti di energia e monopolio di fatto, e che in ognuno di questi casi si riscontri un preminente interesse generale. L’impresa e la proprietà terriera richiedono un complesso di provvedimenti, che vanno dai vincoli, come quelli di salvaguardia del territorio, dell’ambiente e di bonifica integrale e dalla lotta contro le proprietà troppo estese e latifondiste, suscettive dimigliore coltivazione , all’aiuto alle piccole e medie imprese e all’elevazione dei lavoratori. Altre disposizioni chiudono la cornice di questo quadro dei diritti economici. Affermato il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle imprese, si rinvia nei modi e nei limiti a una legge regolatrice. Nel breve cenno alla cooperazione, che dovrebbe essere uno dei capisaldi d’una sana democrazia economica, vi è già l’avviamento a una disciplina legislativa necessaria per stabilire la figura e le caratteristiche delle società cooperative e la sorveglianza che gli stessi cooperatori invocano per colpire gli abusi della falsa cooperazione. L’altro accenno alla tutela del risparmio e alla vigilanza sul credito contiene, né più si poteva fare in una Carta costituzionale, un’indicazione al coordinamento di norme e istituti, che sedicenti legislatori, in tutt’altre faccende affaccendati, hanno oggi fatto mancare in Italia. Se si vuole minare questo quadro cosìsaggiamente dipinto, oscurandolo nel suo punto centrale,l’art 41, non v’è altro ritorno possibile, peraltro da alcuni auspicato, che a un’economia schiavistica. . . . E ci si domanda: ma non sono “felloni” coloro che, salendo al potere - e per poterlo fare – giurano fedeltà alla Costituzione, già meditando di stravolgerla?
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