A la guerre, à la guerre!
 











La tregua? Ci fosse davvero, oppure no, poco importa: non si voleva sentire, non si voleva verificare. E non lo si è fatto. La cosiddetta comunità internazionale, l’Onu con la sua sbrigativa risoluzione, gli Stati Uniti alla ricerca di una leadership appannata, la coalizione anglofrancese che senza percezione del grottesco si definisce dei «volenterosi», avevano già deciso. Comunque. Sarà guerra, deve esserlo. La no fly zone, la missione mirata - «umanitaria», of course - per proteggere la popolazione civile è una foglia di fico che non può nascondere più nulla. L’obiettivo, ormai dichiarato, è quello di abbattere Gheddafi. La missione diplomatica internazionale, che ancora in queste ore potrebbe essere tentata, per allargare a forza e tenere vive possibilità di dialogo fra le forze in conflitto prima che la situazione divenga irreversibile, non è neppure una peregrina ipotesi. Non lo è mai stata. Pressapochismo delle classi dirigenti europee,velleità neocolonialiste, crudi interessi e cattiva coscienza fanno pendere la bilancia dalla parte di un intervento armato che non avrà, come è evidente, né freni militari, né confini politici.
Come scriveva ieri, su La Repubblica, Guido Rampoldi, «bombarderanno, bombarderemo, senza avere un disegno chiaro, una nitidia prospettiva di quel che sarà e di quel che vogliamo che sia».
Sospinta da sciagurato entusiasmo bipartisan, o da conclamato cinismo, l’Italia si accinge a partecipare di nuovo, da comprimaria, ad una guerra. E poiché l’irruzione delle armi accelera vorticosamente tutti i processi e libera anche le parole, ecco ridefinirsi in corsa l’obiettivo. «Guerra al tiranno, un intervento per giusta causa», titola Il Riformista. Per il Giornale, invece, la "giusta causa" è un’altra e il quotidiano della famiglia Berlusconi la rivela senza mezzi termini: l’Italia deve sparare perché le conviene. E’ «una scelta necessaria per mantenere il nostro ruolo in Europa», ammonisceAlessandro Sallusti, che aggiunge: «non possiamo lasciare che Sarkozy e soci mettano mano da soli sulla Libia, sui nostri interessi economici e sulle nostre strategie politiche». Et voilà, ecco la verità squadernata con lugubre, spietata chiarezza. Insomma, il coinvolgimento dell’Italia nel conflitto serve per poi potersi sedere con qualche titolo di credito al tavolo (spartitorio) della pace. L’Unità, invece, in guerra ci va ma, beninteso, «col cuore gonfio» e Concita De Gregorio ci ricorda mestamente come «da sessantasei anni non siamo mai stati così vicini dall’essere un paese in guerra», dimenticando - potenza della rimozione - che la Costituzione ce la siamo gettata dietro le spalle già nella guerra del Golfo, in Iraq, in Afghanistan, e quando, una decina di anni fa, i nostri piloti parteciparono al bombardamento di una capitale europea, Belgrado, in un’impresa, anch’essa rigorosamente umanitaria, che Massimo D’Alema qualificò come una «straordinaria esperienza umana eprofessionale».
Eccoci dunque, di nuovo, tutti avvinti alla nobile causa della difesa dei diritti umani, pronti a raccogliere l’anelito alla libertà dei popoli oppressi. Dove conviene, è ovvio. Quando lo sguardo si allarga al mondo diventa subito strabico e intermittente e la passione per l’altrui libertà più elastica e volatile.
Si scopre allora che le satrapìe si possono combattere o sostenere, con ineffabile disinvoltura, alla bisogna, secondo il tempo e le circostanze; il massacro dei civili lo si può fermare oppure praticare in proprio, come «effetto collaterale» o «contingente necessità», o «male minore»; le risoluzioni dell’Onu, poi, sono come la pelle delle palle: si possono tirare da tutte le parti, si possono applicare con scrupolosa solerzia oppure ignorare del tutto, come ci ricorda la drammatica segregazione cui è costretto il popolo palestinese.
Non ci convincono, i mercanti di guerra, quando declinano ogni responsabilità politica e non tentano - qui ed ora -di imporre una soluzione pacifica che, si può esserne certi, non verrà dalle bombe. E provoca un senso di pena l’ipocrisia di quel mondo vagamente progressista, Pd in testa, che, praticando l’autofrode, ormai sostiene senza batter ciglio ogni avventura militare, fingendo che da lì passi la conquista della democrazia. dino greco









   
 



 
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