L’episodio dell’Odissea che mostra Ulisse nell’atto di incontrare il suo cane, alle porte di Itaca - uno dei frammenti più noti e struggenti della letteratura universale - ci fornisce involontariamente una informazione preziosa sui costumi urbani e le pratiche agricole nella Grecia antica. All’ingresso della città il cane Argo «[...] ora giaceva là, trascurato, partito il padrone, / su molto letame di muli e buoi, che davanti alle porte / ammucchiavano, perché poi lo portassero / i servi a concimare il grande terreno d’Odisseo». La testimonianza, così antica, suggerisce una verità di carattere generale: da quando gli uomini vivono entro forme di economia stanziale, all’interno di una città, essi debbono gestire i propri rifiuti, sono costretti a convivere con essi e ricorrere a tecniche di smaltimento. […] Com’è ormai noto, una storia di lungo periodo ha tenuto insieme la città e la campagna. Una vicenda millenaria di flussi materiali costanti equotidiani: la città riceveva i frutti della terra, e costituiva il mercato sicuro della produzione agricola, ma restituiva alla campagna i suoi rifiuti organici, le sue deiezioni umane e animali, le sue acque luride, indispensabili per ridare alla terra la fertilità depauperata dallo sfruttamento agricolo intensivo. […] Dunque, la parte più rilevante dei rifiuti delle società preindustriali, le sostanze organiche, non finivano in discarica, ma costituivano parte integrale dell’economia del tempo, componente centrale di un circuito ininterrotto di rigenerazione della fertilità della terra. E tale pratica si inscrive come una delle caratteristiche salienti, ormai del tutto obliata, dei modi di produzione precapitalistici. Sistemi economici, questi ultimi, finora studiati per i rapporti sociali di produzione, più che non per i rapporti materiali di riproduzione organica. Vale a dire per gli aspetti di utilizzo della natura nei circuiti della produzione e del consumo. Questa relazione- lo Stoffwechsel mit der Natur, lo «scambio organico» di cui parlava Marx - che sottostà a ogni forma di economia finora conosciuta, non ha avuto sinora una sistematica rappresentazione storica. […] Diversamente da quanto molti immaginano, il processo di industrializzazione, che si propagò nelle varie regioni degli Stati europei a partire dal XVIII secolo, non inaugurò la cultura dell’uso una volta per tutte dei materiali. Al contrario, per una fase non breve, lo sviluppo dell’industria costituì prima di tutto una occasione nuova per il riuso degli scarti organici. La città tornava a fornire la campagna di nuovi materiali. I panelli ricavati dalla spremitura dell’olio di semi, i residui della lavorazione della birra, della barbabietola, gli scarti dei macelli, delle distillerie (patate, orzo, ecc), e molti altri cascami trovavano un largo riuso nell’alimentazione animale o sotto forma di concime per la fertilizzazione del suolo agricolo. […] Perfino gli americani dell’Ottocento edel primo Novecento entusiasticamente inclini a una cultura da consumatori, riparavano, riusavano, conservavano e così via». Sappiamo, infatti, che solo molto lentamente è penetrata nell’industria americana l’idea e la concreta pianificazione della morte programmata dei beni di consumo. Essa era sparsamente presente in qualche singolo osservatore già nel XIX secolo e poi negli anni Venti del Novecento. Ma la planned obsolescence, l’obsolescenza programmata delle merci - com’è stato ricordato di recente - è stata per la prima volta concepita nel disperate year of 1932. Nel pieno, dunque, della Grande Crisi. Sebbene essa abbia poi trionfato negli anni Cinquanta nell’industria dell’auto e da qui, quale nuovo modello, sia produttivo che sociale, si sia diffuso alla restante attività industriale e a tutta la società. Dunque, è senz’altro vero, come ben sappiamo, che il capitalismo inaugura un capitolo assolutamente inedito nel rapporto tra popolazione e risorse così come nelle dimensionidi scala dello sfruttamento economico della natura. Marx ed Engels lo avevano ben annunziato nel Manifesto. Ed è parimenti vero che in quella fase cambia non solo la quantità globale dei rifiuti, ma anche la loro qualità, sempre meno riconducibile al mondo organico e sempre più frutto del metabolismo industriale. Appartiene meno alla consapevolezza generale il fatto che le teorizzazioni fondative di questo nuovo modo di produzione, da Smith a Ricardo allo stesso Marx de Il Capitale (ma non senza contraddizioni), hanno cancellato di fatto il ruolo della natura nel processo di produzione delle merci. Tanto l’economia politica che il suo massimo critico, Karl Marx, assegnarono infatti la funzione motrice dell’attività produttiva al lavoro e al capitale (che per Marx era «lavoro incorporato»), cancellando così il ruolo centrale che vi gioca il mondo fisico. […] In realtà, il problema odierno dei rifiuti discende da un processo storico di definitivo allontanamento dell’economia da ognilogica e cultura di riproduzione delle fonti materiali della ricchezza. Tale problema è, per caratteri e dimensione dei disagi che crea e delle sfide che pone - come abbiamo visto - un fenomeno alquanto recente. Il capitalismo, sviluppandosi secondo la sua intima logica, ma ubbidendo anche a culture unilaterali e alla protervia tecnologica dei suoi ceti dominanti, è approdato nell’ultimo mezzo secolo a un’economia pressoché disancorata da ogni pratica riproduttiva. E operando tale scelta è entrato in una sfera di immiserimento crescente delle fonti della ricchezza, a dispetto della mirabolante cornucopia di merci e servizi che esso riesce a mettere in campo. […] Dunque, nell’età dello sviluppo il capitalismo ha finito coll’incarnare una dimensione unilaterale e ristretta di economia, che si esaurisce nelle pratiche della produzione, dello scambio mercantile e del consumo. La sfera della generazione della materia di cui si compongono le merci, che è la sfera della generazione dellavita stessa, la natura, è rimasta esclusa da ogni cura e rappresentazione. Eppure - come ha ricordato uno studioso che ha ripensato con lena radicale il rapporto natura/economia, Hans Immler, all’economia spetta «non solo l’organizzazione della riproduzione sociale, ma anche quella fisica; le moderne società industriali sono caratterizzate da una stupefacente trascuratezza delle loro esigenze riproduttive. Esse dispongono di una economia della produzione altamente sviluppata, ma sono al tempo stesso estremamente limitate nelle loro economie di riproduzione». Il modo di produzione capitalistico, infatti, che riversa beni e servizi in misura incomparabile rispetto a tutte le società del passato, si limita a riprodurre solo due fattori della vita economica: il capitale e il lavoro. La natura rimane un territorio di saccheggio, per il quale non esiste alcuna «economia della riproduzione». […] Dunque, un problema politico di prim’ordine piantato nel cuore della società. La funzioneelementare, per così dire escretiva della vita umana, il generare rifiuti, ci costringe a scoprire il lato inestricabilmente sociale che il nostro essere naturale genera sin dai sui fondamenti. I nostri rifiuti toccano inevitabilmente gli altri, escono fuori dalla nostra sfera privata, incidono sul tipo di contratto sociale che tiene insieme le comunità. […] E oggi? È diminuita o si è accresciuta la funzione pubblica? Non è compito di chi scrive ricostruire le diverse forme istituzionali e i vari tipi di gestione che presiedono a un compito di così crescente rilevanza sociale. Quel che qui si vuol mettere in evidenza è che oggi la presenza dei resti del gigantesco metabolismo che agita le nostre società è questione che impone di riconsiderare in radice le logiche del capitalismo del nostro tempo e l’intera organizzazione sociale che gli corrisponde. Nella forma materiale e culturale della discarica oggi si rappresenta, anche con inedita pregnanza simbolica, una distruzione cosìsproporzionata di ricchezza da apparire come una minaccia alla stessa prosperità presente. E un’ipoteca inquietante sull’avvenire. Tutti conoscono la risposta messa in atto da tempo dalle società più avanzate per far fronte a un fenomeno di così vaste proporzioni. Con un riflesso culturale ormai collaudato, la società capitalistica affida la soluzione delle sfide che le si presentano a un ritrovato tecnologico. È una vecchia storia. È sempre un dispositivo tecnico che deve salvarci, e che deve ovviamente lasciare intatti equilibri di potere, gerarchie sociali, culture e mentalità dominanti. Ma soprattutto ha il compito di far continuare la crescita economica, perché si produca sempre di più, si consumi sempre di più, si corra sempre di più. Così vuole la superstizione contemporanea. Nel nostro caso, la risposta alla crescita esponenziale dei rifiuti affidata alla scienza e alla tecnica ha un nome. Si chiama inceneritore. Subito ribattezzato - per nobilitarlo e ricondurlo neglischemi di una logica produttivistica - termovalorizzatore. […] Ma discarica o termovalorizzatore, dal punto di vista che qui si sostiene, fa una differenza poco sostanziale. Tutte queste soluzioni sono perfettamente interne all’intima logica economica che ha abbandonato ogni compito riproduttivo della natura. Essi si fondano sulla cancellazione del valore originario, e fondativo di ogni economia, la materia naturale. La bambola rotta, la sedia sfondata, il frullatore fulminato, benché abbiano perso il loro originario valore d’uso, non cessano di essere materia, natura inorganica o organica. Questa natura e il suo valore, oltre che la sua storia, viene del tutto obliata quando essa, nella metamorfosi dell’umano consumo, perde il sostrato superficiale della sua utilità strumentale. Ma sotto di questa esiste, e viene perduta, non solo materia, ma anche l’economia, il lavoro umano, l’energia e gli investimenti necessari per sottrarla alla sua matrice originaria, alle miniere, ai pozzi,alle foreste e portarla allo stato di "materia prima" per la lavorazione. È uno spreco gigantesco, un monumento incancellabile all’opera di distruzione economica di cui è agente ormai manifesto il capitalismo dello sviluppo. […] La raccolta differenziata impone, a tutti, una nuova responsabilità collettiva, un disciplinamento sociale, che piega le logiche individuali a finalità generali insopprimibili. E al tempo stesso favorisce il formarsi di una nuova consapevolezza dei nostri rapporti con la natura. Selezionare i nostri rifiuti, infatti, comporta il riconoscimento della diversa qualità dei materiali e della loro possibile trasformazione e riuso. Questo prendersi cura selettivo dei nostri scarti impone il riconoscimento del loro valore economico, oltre che della loro origine naturale. E al tempo stesso proietta il consumatore verso la loro nuova destinazione alla produzione. Chi cura i rifiuti prepara i materiali secondari che l’imprenditore reimmetterà nel circuitoproduttivo. Consumatori e produttori di beni ripristinano così un antichissimo circolo di cooperazione fondato dalle comunità agricole circa diecimila anni fa. Gli uomini così tornano a essere non i meri dissipatori, ma i mediatori del metabolismo della natura, il centro di un processo continuo di trasformazione, produzione, consumo e rigenerazione. […] Il prendersi cura della natura, anziché annientarla con una macchina, è più utile, più vantaggioso, più economico. La stessa cooperazione sociale, l’organizzazione solidale dello smaltimento differenziato, è più utile, più vantaggiosa, più economica per l’intera vita organizzata. Il dominio distrugge, la cura produce. Da "I rifiuti e la metamorfosi dissipativa della natura" di Piero Bevilacqua, in "Sotto traccia" (edizioni Rubbettino, a cura di Oscar Greco, 2010, pp. 280, euro 18)
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