Il Mar Mediterraneo se da un lato si aggiudica il quarto posto quanto a biodiversità e ricchezza dei fondali (dopo Giappone e Australia, entrambe con circa 33.000 specie e Cina con 22.000), dalle recenti ricerche è risultato il mare che più di ogni altro al mondo rischia di perdere questa ricchezza. Le cause? In primis la presenza dell’uomo (è l’area marina più urbanizzata sulle coste e con il più alto numero di rotte commerciali). Il trattamento dei rifiuti urbani e la gestione delle sostanze chimiche mettono in discussione la salute dell’area. E il problema è anche di governance. Nella parte mediterranea settentrionale, dove esistono meccanismi di prevenzione, manca la volontà politica di far rispettare la normativa ambientale mentre la parte meridionale si sta sviluppando a spese dell’ambiente non potendo contare sulle condizioni economiche e sulle tecnologie necessarie. Uno dei temi più caldi in questi giorni riguarda proprio l’Italia. In cimaalla lista delle operazioni "critiche", infatti, ci sono le recenti autorizzazioni per le trivellazioni petrolifere al largo delle Isole Tremiti. E’ dello scorso febbraio l’allarme lanciato dal WWF circa le scoperte di giacimenti di gas e altri idrocarburi sui fondali profondi del Mediterraneo, al largo di Israele e al largo del delta del Nilo, che hanno aperto una caccia al tesoro che rischia di danneggiare inevitabilmente ambienti unici per la biodiversità marina, protetti in base alle convenzioni internazionali. "Si è dimostrata per l’ennesima volta l’incapacità di raccogliere gli insegnamenti che derivano dai disastri, come quello recente della BP nel Golfo del Messico, per arrivare a fare scelte compatibili con l’ambiente. L’indisponibilità del Governo ad accogliere la lezione dai precedenti ecodisastri è ancora più grave nel caso delle Tremiti se si considera che le trivellazioni verranno condotte ai confini virtuali della riserva marina, quindi con un forte impattoambientale”, ha dichiarato Antonio de Feo, presidente del WWF Puglia. Diversi accordi obbligano i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo a passare attraverso il sistema VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) prima di esplorare e trivellare alla ricerca di gas e petrolio in acque “offshore”: il più recente protocollo è quello per la protezione del Mar Mediterraneo dall’inquinamento derivante dall’esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma continentale, del fondo marino e del suo sottosuolo, entrato in vigore nel dicembre 2010. Questo stabilisce che qualsiasi potenziale attività di sfruttamento di acque profonde, tra cui anche le prospezioni, debbano essere soggette ad autorizzazione sulla base di un’approfondita VIA. "I fondali marini nel Mediterraneo brulicano di vita, specie uniche, endemiche del nostro mare. Non possiamo permettere che prospezioni ‘alla cieca’ provochino danni irreversibili alla biodiversità delle acque profonde", dichiara Marco Costantini,responsabile del Programma Mare del WWF Italia. Una fotografia allarmante delle condizioni del Mediterraneo è fornita da uno studio redatto dall’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) e dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente/piano d’azione per il Mediterraneo (UNEP/PAM). In essa si spiega che solo il 69% di 601 città costiere con una popolazione superiore ai 10000 abitanti è dotato di un impianto per il trattamento delle acque reflue e l’efficienza di tali impianti risulta scarsa in termini di eliminazione degli elementi inquinanti. Inoltre i rifiuti solidi prodotti lungo le coste sono spesso smaltiti in discariche senza alcun trattamento sanitario o dopo un trattamento sanitario minimo e possono causare la copertura del fondale da parte di materiali di origine terrestre. Tra gli altri allarmanti fattori di rischio vengono indicati gli effluenti industriali, compresi quelli derivanti dalla trasformazione di idrocarburi, gli stock di sostanze chimiche obsolete (quali i POP ei pesticidi) che sono considerati un’importante fonte di contaminazione. Altri dati allarmanti riguardano il trasporto marittimo: una delle principali fonti di inquinamento da idrocarburi di petrolio (petrolio grezzo) e da idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Si stima che, ogni anno, circa 220 000 navi di stazza superiore alle 100 tonnellate attraversino il Mediterraneo. Secondo il report le navi scaricano approssimativamente 250 000 tonnellate di idrocarburi derivanti dalle operazioni di navigazione come lo scarico delle acque di zavorra, il lavaggio delle cisterne, il carenaggio e gli scarichi di combustibile e di petrolio. Inoltre, i numeri parlano chiaro: tra il 1990 e il 2005 sono fuoriuscite circa 80 000 tonnellate di petrolio in seguito a incidenti di navigazione. L’incidente della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nelle acque del Golfo del Messico viene considerato il disastro ambientale più grave della storia americana, avendo superato di oltre dieci volte perentità quello della petroliera Exxon Valdez nel 1989. Ma nessuno parla delle 120 000 tonnellate che ogni anno vengono riversate in mare a causa di incidenti nei depositi petroliferi e delle normali fuoriuscite provenienti dagli impianti a terra che generano elevate concentrazioni di idrocarburi nelle acque circostanti.
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