Per tutta la giornata di ieri le borse europee hanno seguito un andamento altalenante. Ma il segno, alla fine, è negativo ovunque. Anche Wall Street, dopo un inizio positivo nei primi scambi, ha frenato. New York è andata sotto e ha trascinato al ribasso anche le borse asiatiche, da Tokyo a Shanghai a Seul. Milano non ha fatto eccezione. La chiusura in negativo a -0,70 quasi non fa notizia dopo il meno 5 di giovedì. Comunque, oscillazioni a parte, la tempesta finanziaria scuote l’intero mondo occidentale, a cominciare da casa nostra. E scuote anche i governi. Le borse dettano l’agenda alla politica. Di fronte all’emergenza dei mercati Berlusconi e Tremonti hanno annunciato ieri sera un piano choc: un disegno di legge per la modifica costituzionale - vale a dire, l’inserimento nella Costituzione del vincolo al pareggio di bilancio e l modifica dell’articolo 41 - e l’anticipo al 2013 degli interventi sul bilancio. Francoforte dispone, Romaobbedisce. Per la prossima settimana sono state convocate le commissioni della Camera competenti per Affari costituzionali e bilancio che dovranno avviare il confronto sulla modifica costituzionale. Per misurare l’entità della questione bisognerebbe immaginarsi l’articolo 1 della Costituzione («l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro») sostituito con la formula: «l’Italia è una repubblica fondata sul pareggio di bilancio». Intanto sul fronte finanziario continua il batticuore per i titoli di stato italiani che a piazza Affari ieri sono andati letteralmente a picco, prima raggiungendo (in negativo) quelli spagnoli e poi attestandosi di nuovo poco sotto i quattrocenti punti. Agli investitori privati che prestano denaro, lo stato italiano dovrà pagare quattro punti percentuale di interessi in più di quanto non facciano i tedeschi. Il ritornello è che l’economia reale italiana è su altri livelli rispetto alla Grecia, ma il timore che anche qui da noi si ripeta unaversione al rallentatore della vicenda greca, inizia a farsi strada. Anche perché - fermo restando l’insufficienza delle politiche economiche del governo Berlusconi, tutte di segno recessivo - la crisi finanziaria è globale. L’America stessa ha paura della recessione. Gli Usa sono stati a un passo dal default, cioè dalla bancarotta di stato, per ora scongiurata, ma solo a costo di una crisi politica dei democratici, costretti a scendere a patti con la linea "lacrime e sangue" dei repubblicani. L’indebitamento pubblico dei paesi non cade però dal cielo. In questi anni i governi sono ricorsi a banche, gruppi finanziari e investitori privati per finanziare i propri debiti, col risultato di legarsi mani e piedi alla "sovranità" dei mercati. E adesso? Per quanto riguarda l’Europa le strade sono due. O è la Banca centrale a farsi carico del debito pubblico dei paesi membri in difficoltà, comprando i loro titoli di stato (come è stato deciso l’altro ieri) e bloccando la speculazione degliinvestitori privati; oppure scaricare i debiti pubblici sulla società (e sui lavoratori), imponendo ai governi pareggi di bilancio e tagli alla spesa sociale. Per ora l’Ue oscilla. «Dobbiamo essere pronti ad aumentare le capacità del fondo salva-Stati per adeguarlo alle esigenze», ha detto ieri il commissario europeo agli Affari economici, Olli Rehn. Ma un attimo dopo aggiunge che «né all’Italia né alla Spagna servirà un programma di prestito d’emergenza», che i mercati non rispecchiano i fondamentali reali dell’economia e che «la crisi del debito ha dimensioni globali e non riguarda solo l’Europa». La ricetta "suggerita" al nostro paese da Olli Rehn è quella che ritroviamo nel piano annunciato da Berlusconi e Tremonti: «accelerare le riforme strutturali». Non basta aver «adottato misure per assicurare il pareggio di bilancio nel 2014», ma occorre anticipare i tempi. «L’implementazione rigorosa» deve essere accelerata «in modo da avere effetti positivi sui conti pubblici già nel 2012».La chiave di volta di Olli Rehn - guarda caso - è «la riforma del mercato del lavoro»: rottamazione dello Statuto dei lavoratori e flessibilità in entrata e uscita. Solo allora la Banca centrale potrebbe decidersi ad acquistare titoli di stato italiani. Va da sé che in questo scenario stia prendendo corpo un dibattito sull’Europa, su cos’è al momento e su cosa debba diventare in futuro - un dibattito che coinvolge non solo partiti e forze politiche, ma anche economisti, sociologi e intellettuali. Per averne un’idea basta dare un’occhiata al volumetto ABC dell’Europa di domani, pubblicato di recente da Internazionale, in collaborazione con altre tre riviste europee, la francese Courrier internazional, la polacca Forum e la portoghese Courrier internacional. Il libro raccoglie articoli e brevi saggi usciti negli ultimi tempi su quotidiani e periodici di tutta Europa. Alla D di «declino», ad esempio, figura un intervento di Alexandre Lacroix, direttore del mensile Philosophie Magazine,una riflessione su come la cultura del nostro tempo sia impregnata di un senso del disagio e della crisi. Con cinquecento milioni di abitanti, l’Ue rappresenta solo il 7,3 per cento della popolazione. «Il suo tasso di crescita demografico è il più basso del mondo. Anche la crescita economica va riducendosi: 0,2 per cento in media dall’inizio dell’anno per i 27 paesi dell’Unione». Ma l’errore, forse, sta proprio in questa lettura "tecnocratica", finanziaria del mondo, affidata soltanto alle statistiche. Questo «significa non tener conto di altre dimensioni, come la qualità di vita, l’accesso all’istruzione e alle cure, l’esistenza di uno stato di diritto, di un sistema giudiziario non corrotto, di infrastrutture che facilitano i trasporti e così via». Resiste tenacemente anche un’idea di Europa - "tardo-illuministica", si potrebbe definirla - come spazio di diritti universali, difesa da Habermas e che però rischia di andare in frantumi con la crisi finanziaria. «Il fatto che d’ora inpoi i contribuenti dell’eurozona - scrive il filosofo tedesco - debbano farsi carico solidamente dei rischi e dei problemi di bilancio che di volta in volta possono colpire un altro stato europeo rappresenta un cambiamento di paradigma. E pone in luce un problema a lungo rimosso. L’estendersi della crisi finanziaria alla dimensione di uno stato ci confronta con una tara congenita: quella di un’unione politica rimasta incompiuta, bloccata a metà del suo cammino». La fine del Patto di stabilità? «Il modello di una politica economica "ligia alle regole" e di una disciplina di bilancio conforme alle prescrizioni del Patto di stabilità ormai non è più all’altezza delle esigenze, dato che non consente la flessibilità necessaria per adattarsi a situazioni politiche in rapido mutamento». Tonino Bucci
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