-La crisi che viviamo non è solo una crisi economica. E’ soprattutto una crisi sociale e morale. E’ la crisi del modello europeo finora dominante in Europa ed è il prodotto di un errore. Il mercatismo, la riduzione ideologica dell’uomo nel mercato - esisto per consumare, consumo e dunque esisto -, basa infatti la sua essenza su di un calcolo troppo sintetico, un calcolo che si sta dimostrando sbagliato. Per non continuare nell’errore non basta dire che ora al mercato si deve “aggiungere” la politica (…) Per cambiare, l’unica politica che si può fare è una politica alternativa al mercatismo e per farla serve una “filosofia” politica diversa, una filosofia che ci sposti dal primato dell’economia al primato della politica. Serve una leva che - come ogni leva - per funzionare deve però avere un punto d’appoggio. Questo punto può essere un solo: quello delle “radici”, le “radici giudaico-cristiane dell’Europa”». Giulio Tremonti è ministro dell’Economia edelle Finanze del IV governo Berlusconi, eppure a sentirlo parlare lo si potrebbe quasi prendere per un telepredicatore, di quelli che hanno fatto le fortune della destra americana fino all’arrivo di Obama - nel febbraio del 2009 durante la trasmissione Annozero ha esclamato: «Questo è il momento di chiudere i libri di economia e di aprire la Bibbia». Al punto che il suo libro "La paura e la speranza", (Mondadori, 2008) - da cui è tratta la lunga citazione iniziale - potrebbe essere preso come una sorta di manifesto della via indicata dalla destra per affrontare prima la globalizzazione e ora la crisi economica internazionale. Questo perché in quel testo Tremonti traccia in qualche misura le “coordinate” culturali da mettere in campo – accanto a misure parzialmente protezionistiche in particolare a difesa dall’“invasione” delle merci cinesi - per affrontare le grandi sfide sociali di questi anni, costruendo una stabile egemonia delle destre sul nostro paese. Non a caso il sottotitolodi "La paura e la speranza", uscito nella primavera del 2008 e quindi prima del crack finanziario, recita comunque “Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla”. «Per la difesa dell’Europa non basta il Pil – scrive Tremonti - serve un "demos" (…) Per il demos serve la politica, e alla politica servono tanto una cultura e uno spirito collettivo positivo - un ethos - quanto il potere per affermarlo. I popoli domandano e i governi devono poter rispondere: le imprese domandano decisioni; i bisognosi domandano assistenza; nell’insieme i popoli domandano certezze e sicurezze». Ma non si può «iniziare un nuovo corso partendo dall’economia - dai “valori secondi” -, ma dai “valori primi” di un nuovo ordine morale. Un nuovo ordine morale porta infatti con sé e naturalmente anche progresso economico, ma senza un nuovo ordine morale ci sono solo declino generale e conflitto sociale». Anche perché hanno fallito entrambe le “estremizzazioni” con cui l’economia “è entrata” nellapolitica: «prima il comunismo (che è stato in parte dominante una specifica ideologia economica) e poi il mercatismo (l’economia è tutto, sa tutto, fa tutto)». La terza via di Tremonti, per affrontare ciò che viene definito come “il lato oscuro della globalizzazione” - vale a dire “il vocabolario” con cui difendersi dall’invasione delle merci cinesi, o delle nuove economie emergenti, e dall’impoverimento dei lavoratori europei in una prima fase e, oggi, dagli effetti di una crisi di proporzioni “globali” -, assume così l’aspetto di un progetto ideologico, quello di una nuova destra che concilia mercato e identità, difesa dei lavoratori autoctoni e chiusura della frontiere, populismo e ristrutturazione, al ribasso, del welfare, riduzione dei diritti nel mondo del lavoro e proposte “partecipative” che leghino saldamente imprenditori e dipendenti, riducendo la conflittualità e aumentando la produttività. Il tutto legato insieme attraverso un impianto culturale che esalta l’identità. «Ilcodice che dobbiamo e possiamo fabbricare per sopravvivere può essere creato solo con la combinazione tra due parole essenziali, che sono insieme vecchissime e nuovissime “identità” e “valori” - spiega infatti il ministro - L’identità è fatta dai valori, i valori fanno l’identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni “proprie”. (...) Una comunità può e deve definire la sua identità solo per mezzo dei suoi valori storicamente consolidati; rispetto a questi, le altre comunità sono “altre”. Perché è proprio e solo nella “differenza”, nella comparazione differenziale, che si forma il carattere unitario di una comunità. Identità non è infatti solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo. Tutto è chiuso nella coppia dialettica “noi-altri”. Se il “noi” non viene marcato, ma all’opposto viene obliterato e censurato, finisce che tutto è “altro” e niente è “noi”». Del resto "Il Domenicale",settimanale culturale dell’area del PdL, ha definito il libro di Tremonti come «un manuale di guerra culturale per resistere al declino dell’Europa». Mentre, come ricorda il Secolo d’Italia, quotidiano passato dal Msi ad An e ora al PdL, del 24 giugno del 2008, anche il Financial Times se ne è occupato per sottolineare come «“generalmente i libri dei ministri dell’Economia non fanno vincere le elezioni, ma "La paura e la speranza" di Giulio Tremonti, un best seller prima del voto di aprile” è stata la base del passaggio del centrodestra a una ideologia più efficace nei confronti dell’elettorato e quindi vincente». «Il giornale economico spiega che il volume (…) “è stata la base di riferimento per il passaggio del centrodestra dal liberismo di mercato, a un messaggio protezionistico più confortante per i lavoratori a bassa qualifica e per i piccoli imprenditori che si considerano vittime della globalizzazione». FERMARE IL DECLINO CON I VALORI Ex socialista - vicino a Gianni DeMichelis, tra il ’79 e il ’90 è stato collaboratore dei ministri delle Finanze Reviglio e Formica -, prima di approdare a Forza Italia, come Renato Brunetta e Maurizio Sacconi con cui forma non a caso la triade d’attacco del governo delle destre proiettando su questa stagione della politica italiana l’eco della sfida del “riformismo” craxiano che già negli anni Ottanta intendeva “liberare” la società e il lavoro da vincoli e difese, Giulio Tremonti identifica, come loro, nel Sessantotto buona parte del problema, per quanto riguarda “la perdita dei valori” da lui giudicati irrinunciabili. «Il ’68 ha in specie portato con sé la morte dell’autorità distruggendo con furia iconoclasta i suoi simboli di decoro,di rango e di merito. E’ così che i “diritti” hanno preso il posto dei “doveri”. E’ così che le nostre società si sono trasformate in corpi invertebrati, in una poltiglia che – soprattutto in Italia – ha degradato nel particolarismo le strutture vitali della pubblica amministrazione,della scuola, dell’università, della giustizia». Sulla critica al ’68 Tremonti incrocia anche l’iniziativa di “riforma della scuola” intrapresa dal ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini che nel 2008 parlava di “Quarant’anni da smantellare”, per tornare alla situazione precedente quella fatidica data. Sulla stessa linea, il ministro dell’Economia, intervistato dalla Padania il 12 agosto del 2008, riflette su «un mondo alla rovescia, in cui le classi non vengono disegnate in base al numero degli alunni, ma in base a quello dei posti da insegnante che si ritiene necessario stabilire per avere “consenso sociale” (…) E’ un mondo nel quale la cultura velleitaria del ’68 è stata perfezionata con dosi massicce di “pensiero ministeriale centrale” (…) addizionata con logiche sindacali che sostituiscono l’asettica, secca ma responsabile e comprensibile classificazione numerica (i voti) con formule di giudizio che tendono ad essere ipocrite, psicopedagogiche, bizantine,tautologiche, caramellose, offensivo-giudiziarie o presunte tali». Più in generale, per uscire dalla situazione di declino in cui verserebbe il nostro paese, Tremonti identifica sette parole chiave dalle quali ripartire, un catalogo che non lascia dubbi quanto alle intenzioni: valori, identità, famiglia, autorità, ordine, responsabilità, federalismo. Del resto, basta citare “il contenuto” di due di queste parole per rendersi subito conto di quale sia l’orizzonte a cui si guarda. Così “federalismo” viene declinato nei termini della “difesa dell’identità”: «la difesa delle nostre identità tradizionali, storiche e di base: famiglie e “piccole patrie”, vecchi usi e costumi, vecchi valori, patrimoni d’arte e simboli della memoria. Al fondo c’è (…) qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un misto di paura e di orgoglio, una riserva di memoria, un retroterra arcaico e umorale; è ciò che dà il senso dei comuni rapporti sociali e dunque il senso dellasicurezza. E’ quel senso della vita che negare o comprimere o sopprimere non solo è difficile, è dannoso. Saremo infatti più forti, nel futuro, soltanto se saremo più radicati nel nostro territorio». Mentre, dopo aver stigmatizzato “i fannulloni” del pubblico impiego contro cui ha scatenato la sua crociata il ministro della Funzione pubblica Brunetta, “responsabilità” diventa nelle parole di Tremonti sinonimo di quella ricetta liberal-libertaria - nel senso anglossassone del termine come si è visto parlando del “conservatorismo compassionevole” a proposito degli Stati Uniti - che vuole imprimere una svolta “comunitaria” al sistema del welfare. «La soluzione - scrive infatti Tremonti - non è (…) più pubblico impiego nei servizi sociali e più tasse per pagarli, immaginando un’illuminata quanto insostenibile imposizione fiscale. La soluzione invece è fuori dallo Stato, nel “comunitario”». Perché non si tratta di scegliere tra le due formule classiche, quella “di sinistra” per cui «unavolta assolto il tuo dovere fiscale, hai solo diritti e soprattutto sei liberato dall’universo dei doveri sociali: dagli antichi doveri verso te stesso, verso la tua famiglia, verso la tua comunità», al resto pensa lo Stato, e quella opposta, «sintetizzata nel dictum thatcheriano, dialetticamente contrapposto allo statalismo della sinistra: “Non esiste la società esistono solo gli individui”». «Il modello sociale giusto assume invece una forte e nuova caratterizzazione personale e comunitaria; perché le persone non sono in grado di vivere, né lo vogliono, come atomi separati nel regno dell’anomia, e perciò tendono sempre a costituire e a vivere in comunità verso cui sentono doveri». CON IL POPOLO CONTRO I BANCHIERI APOLIDI Attingendo a un repertorio di idee e parole che sembrano ricordare quelle indicate dalla Nouvelle Droite per rispondere al declino e al tramonto della civiltà europea, Giulio Tremonti costruisce però una proposta che si vuole esplicitamente “sociale”. Così, ilpolitico e l’economista che solo pochi anni fa parlava de Lo Stato criminogeno, questo il titolo di un suo libro pubblicato nel 1998 (Laterza), si vuole oggi un fervente difensore dell’intervento dello Stato in economia. Almeno a parole. In quel suo libro Tremonti sosteneva che «l’estensione dello Stato causa la proliferazione delle leggi; la proliferazione delle leggi causa la moltiplicazione degli illeciti, reali o potenziali; la moltiplicazione degli illeciti causa infine, prima la diffusione e poi la banalizzazione dei crimini». Di conseguenza «lo Stato non è più la soluzione dei problemi, ma diventa il problema». Ora, in realtà già alla vigilia delle elezioni politiche italiane del 2008, spiegava rispondendo alle domande di Repubblica, 24 febbraio 2008, sul confronto con il centrosinistra e le proposte del suo leader: «Le annuncio il clamoroso, necessario ritorno del pubblico! Veltroni pensa di “chiamare il mercato” per risolvere i problemi sociali. Io penso che in tempi di ferro,questo lo debba e lo possa fare molto di più lo Stato. Veltroni (…) è arrivato a copiare il Berlusconi del 1994, solo che Berlusconi lo faceva nel 1994, oggi siamo in un mondo totalmente diverso». E il 17 marzo dello stesso anno spiegava allo stesso quotidiano come «la Casta mercatista (…) ha formulato un interdetto ideologico. Non è vero che nel ‘900 le ideologie sono finite, proprio alla fine del ‘900 è nata un’ideologia nuova: quella mercatista. (…) Per il mercatismo è il mercato che fa e disfa le regole, come una matrice assoluta e totalitaria. All’opposto il liberismo contiene oltre al mercato anche le regole che creano, correggono e difendono il mercato». E’ in questo nuovo mondo segnato prima dalla globalizzazione e dalle sue sfide e poi dalla crisi che Tremonti si vuole come una sorta di paladino della “gente comune”. Già nel 2005 ne i Rischi fatali (Mondadori), il libro che anticipava l’allarme sulla competizione globale e le sue possibili conseguenze sociali, scrivevainfatti che «“il fantasma della povertà” comincia a fare paura nelle periferie, nelle fabbriche, nelle campagne. I palazzi di città sono invece ben pronti a riceverlo. Con un variopinto comitato di accoglienza, cha va da Bruxelles alle piazze finanziarie, che conta su politici e burocrati benevoli, su catechisti mercatisti e su futuristi economici, su banchieri apolidi e industriali delocalizzati, su guardiani e patroni, su guaritori e sciacalli». Dopo la nascita del nuovo governo Berlusconi nel 2008 e l’irrompere della crisi finanziaria sulla scena internazionale, questo aspetto della personalità e della politica di Tremonti non ha fatto che crescere. Così sul Corriere della Sera del 16 maggio 2009 il ministro spiega come «con la discesa in campo dei governi e della politica il rischio dell’apocalisse finanziaria globale non c’è più. La crisi continua, ma come tutte le crisi avrà un termine e molti indicatori lo anticipano», mentre sulla Stampa del 24 giugno dello stesso anno avevachiarito come «il mondo va a sbattere se pensa di cavarsela con la testa e la cultura dei banchieri», negli affari bisogna riportare «criteri etici e morali superiori a quelli della moralità dei banchieri». Ben più del contenuto delle norme sostenute da Tremonti e dall’intero governo, conta in questo caso “il modo” in cui sono spiegate al paese e inserite in un contesto “ideologico”. Al punto che quando, dopo l’approvazione del “pacchetto anti-crisi” varato dall’esecutivo a fine novembre 2008, Tremonti incontra in maniche di camicia i giornalisti nella sala stampa di Palazzo Chigi, Repubblica vi legge un chiaro “segnale simbolico”: «Come un italiano medio nel suo ufficio open space o nel suo capannone nel profondo nord est o, ancora, seduto in poltrona nel suo tinello davanti alla televisione. Ormai Giulio Tremonti, ricco e sofisticato commercialista di Sondrio, non lascia più nulla al caso. Perché per rassicurare un popolo bisogna farne parte o, almeno, immedesimarcisi. Lui come glialtri, come la gente, vittima dei cattivi del mondo, gli speculatori, soprattutto di Wall Street, con i loro complici mercatisti che si annidano dovunque». E, ancora: «Lui sta dalla parte della gente, contro i petrolieri e i banchieri; e contro quelli che vivono di tariffe, autostradali e elettriche. Contro un pezzo dell’establishment mercatista che avrebbe strizzato l’occhio alla sinistra, e che è un nemico del popolo, come sanno tutti i populisti vecchi e nuovi». Stare dalla parte del popolo o, addirittura, “fare politiche di sinistra” sono del resto argomenti più volte evocati dai ministri del governo Berlusconi. E anche dallo stesso Cavaliere che durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi nel luglio del 2008 ha affermato: «Noi vogliamo una economia sociale di mercato. Una democrazia non può permettersi cittadini in condizioni di miseria. Con il libro sul welfare (il Libro Verde del ministro Sacconi di cui si parlerà tra breve, nda) approfondiamo i bisogni della famiglie piùdeboli. E’ una politica decisamente di sinistra. Questo governo che è di centro, liberale, con cattolici e riformisti, intende procedere con una politica che la sinistra promette solo a parole». Citata spesso anche da Tremonti come suo principale riferimento “culturale”, «può sembrare una contraddizione in termini - spiegava il ministro al Giornale nell’ottobre del 2008 - ma è scritta da decenni nelle tesi del Partito popolare europeo (...) e il problema adesso non è difendere il mercato dallo Stato, ma salvare il mercato con lo Stato» - l’“economia sociale di mercato” è una teoria economica sviluppata nel periodo della Repubblica di Weimar che propone una sorta di “terza via” tra liberalismo e collettivismo, in cui lo Stato svolga una funzione garantista nei confronti del libero mercato, intervenendo al tempo stesso per garantire un minimo di equità sociale. E’ stata la bandiera del sistema sociale bavarese e dell’Unione cristiano-sociale guidata per decenni da Franz Josef Strauss.Guido Caldiron
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