L’ambientalismo è stato per lungo tempo trattato con la regola dei compartimenti stagno. Come una questione che, accanto alle altre (il lavoro e il genere, per esempio), dovesse essere affrontata e risolta isolatamente, nel proprio ambito e per mezzo di una tecnica specifica. La sollecitazione che ci arriva da un volume collettivo appena pubblicato, A che serve la storia? (Donzelli, pp. 176, euro 22) è che invece la critica ecologica al modello di sviluppo implica una critica sistemica (esattamente come la critica marxista o di genere). Nei saggi che portano la firma di Piero Bevilacqua e Laura Marchetti - di entrambi pubblichiamo uno stralcio - la portata di quella critica deve estendersi al paradigma dominante del sapere, alla sua organizzazione per discipline e per istituzioni (la scuola), ma anche, nella fattispecie, a quel primato che la scienza (e l’economia) detiene nei confronti dei saperi umanistici. Ci si può spingere sino alla proposta diFranco Cassano, anche lui coautore del libro e intervistato da Liberazione, di un mutamento del «codice», di uno stile di vita incentrato non più sull’unica dimensione del presente, "qui e ora" - tipica delle società capitalistiche contemporanee - ma sulla capacità di riapproriarsi del futuro. La tesi di Piero Bevilacqua è che la grave alterazione degli equilibri naturali della Terra e il riscaldamento climatico siano una conseguenza «della frantumazione disciplinare delle scienze», «tutte impegnate a indagare un ambito sempre più ristretto e ravvicinato di realtà», nessuna «capace di uno sguardo globale» e di cogliere pertanto gli «effetti generali che il proprio separato operare - a servizio della macchina produttiva - ha sugli squilibri generali del mondo vivente». C’è un ricco filone di autori che sull’onda della lettura di Heidegger interpreta la storia umana e il rapporto dell’uomo col mondo come l’effetto di una impersonale volontà di dominio, di una «tecnica» o comunque di unmeccanismo che impone il proprio corso, indipendentemente dalla consapevolezza dei singoli individui. Da dove nasce la storia di dominio dell’uomo sulla natura, di appropriazione illimitata di risorse? Questa storia è il corollario di una concreta formazione sociale, cioè del capitalismo? Oppure è la manifestazione di una costante umana comune a tutte le epoche storiche, di una "volontà di dominio" a priori incarnata nella tecnica? Non è questione di poco conto focalizzare la causa del dissesto ecologico, se il problema dipenda dalla prerogativa del capitalismo a espandere illimitatamente i profitti o dalla vicenda di più lunga data di una insopprimibile ragione strumentale. Bisogna seguire Marx nel rintracciare nella logica del capitale la spinta incessante ad aumentare la produttività oppure la versione di Heidegger che indica la causa di tutto in una qualche generale volontà di potenza o volontà di dominio tecnologico? La questione è affrontata da Slavoj Zizek nel suo nuovo lavoro,Vivere alla fine dei tempi, in forma di critica rivolta ad Adorno e Horkheimer. Gli autori della Dialettica dell’Illuminismo avrebbero rintracciato «la fonte di alienazione e reificazione nella "ragione strumentale", la volontà di dominio/manipolazione tecnologica che funziona come una specie di a priori dell’intera storia umana, ma non più radicata in alcuna formazione storica concreta. La totalità generale non è più dunque quella del capitalismo, o della produzione della merce: il capitalismo stesso diventa una delle manifestazioni della ragione strumentale». «Qui dobbiamo correggere Heidegger», la pulsione alla crescita illimitata «viene non da qualche generale volontà di potenza o volontà di dominio tecnologico, ma dalla struttura inerente alla riproduzione capitalista che può sopravvivere solo attraverso la sua incessante espansione e per la quale questa riproduzione sempre in aumento, e non qualche stadio finale, è essa stessa il solo vero scopo dell’intero movimento». Ma non èl’unico interrogativo. Se la distruzione del pianeta è l’effetto di un meccanismo tecnologico, di una impersonale volontà di dominio, diventa arduo rintracciare un principio di responsabilità. La tecnologia ha amplificato la potenza dell’operare umano a un livello tale che gli stessi uomini sono inconsapevoli delle conseguenze delle proprie azioni, finendo col diventare strumenti al servizio della tecnica. Di che genere è il male in società complesse se tra le singole scelte degli individui (e delle scienze), da un lato, e i loro effetti globali, dall’altro, esiste una lunga catena di mediazioni che sfugge alla nostra stessa capacità di comprensione? Come si fa a introdurre, per esempio, il concetto di crimine ambientale, se abbiamo difficoltà a individuare la responsabilità dei singoli attori nella complicata trama di eventi su scala globale? Nel caso di un imprenditore scoperto a scaricare liquidi tossici in fiume, il nesso tra azione e responsabilità saebbe evidente. Ma seallarghiamo lo sguardo alla scena planetaria a chi si dovrebbe attribuire l’inquinamente dei mari? Hannah Arendt era ben consapevole dell’ineffabilità del male contemporaneo. Il processo ad Eichmann - il burocrate nazista che organizzava i convogli ferroviari verso i lager - fu una sorta di prova in diretta di come persino le azioni di un uomo mediocre e banale potessero essere al servizio del più orrendo genocidio della storia umana. -Arendt - scrive la filosofa Susan Neiman nel suo In cielo come in terra - mostra come oggi perfino crimini tanto enormi da far invocare una sanzione alla terra intera, vengono commessi da individui i cui moventi sono tutt’al più banali-. Tonino Bucci
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