Con la sua consueta perizia Massimo L. Salvadori, storico autorevole, professore emerito dell’Università di Torino - tra le sue opere più significative La Sinistra nella storia italiana e Democrazie senza democrazia, uscite entrambe per i tipi Laterza - ha realizzato e pubblicato in questi giorni una breve ma efficace riflessione sulla storia dell’Italia unita, in occasione appunto del 150° anniversario dell’Unità del nostro Paese. Un libro questo, L’Italia e i suoi tre Stati. Il cammino di una nazione (Editori Laterza, pp. 112, euro 9,00), che si legge tutto d’un fiato e che pur nella sua sinteticità non tralascia nessun aspetto di questo secolo e mezzo di storia. La chiave di lettura che Salvadori propone è questa: la storia dell’Italia unita ha conosciuto tre fondazioni. La prima diede vita allo Stato monarchico e liberale; la seconda allo Stato fascista e infine la terza allo Stato repubblicano, il quale ha a sua voltaconosciuto sostanzialmente due fasi: la prima terminata all’inizio degli anni ’90, con Tangentopoli e la scomparsa dei due principali partiti di governo, la Dc e il Psi, e lo scioglimento del Pci in concomitanza con la caduta dell’Urss e dei suoi paesi satelliti, mondo al quale il partito di Togliatti e Berlinguer, malgrado il progressivo e sempre più forte allontanamento, era ancora legato; e la seconda iniziata con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, non ancora al suo termine ma ormai in fase discendente. Rispetto all’unità d’Italia le considerazioni che lo storico torinese fa sono due: anche qui da un lato la capacità del Paese di restare unito malgrado le drammatiche vicissitudini che ha vissuto e i recenti e ancora in corso tentativi di dividerlo; dall’altro tuttavia l’incapacità dei vari governi di creare un’Italia compiutamente unita, determinando così, come la chiama lui, una «mancata nazionalizzazione delle masse», determinata dauna molteplicità di fattori che vanno al di là della ben nota questione meridionale. «Credo che per affrontare questo problema - dice Salvadori - si debba fare riferimento ad un dato di fondo. Vale a dire che nel nostro Paese il rapporto tra governanti e governati, tra classi dirigenti e classi subalterne è sempre stato segnato da una grande conflittualità che si è riproposta periodicamente e che costituisce una costante della nostra storia nazionale. Io ho ricordato e insistito sul fatto che da un punto di vista istituzionale lo Stato unitario, fortemente centralista, non è riuscito a creare le condizioni in cui le masse riconoscessero come loro le classi dirigenti: a partire dallo Stato liberale con la spaccatura che si è creata nel Mezzogiorno in seguito alla guerra del brigantaggio per finire con l’avversione degli anarchici e dei socialisti che non consideravano quello Stato il loro Stato, ma come quello della borghesia, in un quadro di sviluppo economico assai limitato, incapace di soddisfare le aspirazioni delle masse popolari. Si è creato così un divorzio durato a lungo. Va altresì ricordato che, quando si formò un movimento operaio organizzato dal partito socialista e dai sindacati, le correnti del socialismo rivoluzionario lasciarono in una condizione di debolezza quelle che facevano riferimento al socialismo riformista. E qui siamo alla radice di una frattura quanto mai significativa, che dopo il fascismo si è riproposta perché il movimento operaio è stato egemonizzato prima dal socialcomunismo e dopo il 1956 dal Partito comunista, che mantenne il controllo prevalente delle masse lavoratrici sia a livello politico sia anche a livello sindacale». Va ricordato che il Pci continuò ad agire all’interno della legalità costituzionale che anzi contribuì a costruire.. Certo, ma al tempo stesso portava avantiun’ideologia che si proponeva, sia pure in un tempo indeterminato, il superamento dell’ordinamento capitalistico, restando legato all’Urss e ai regimi comunisti dell’Est europeo. E questo segnò una lunga traccia che, sebbene indebolita specialmente dopo il 1968 quando ci fu l’invasione di Praga, continuò a dare espressione ad una forte divisione all’interno del corpo sociale e politico del Paese. Lei nel libro sottolinea molto come alle fine delle varie crisi che hanno caratterizzato la storia dell’Italia unita - quella dello Stato liberale, del fascismo e anche quella legata a Tangentopoli - la sinistra, che pure era stata protagonista di progetti e tentativi di rinnovamento, è uscita ogni volta sconfitta. Perché? Vorrei insistere su questo tasto che ho cercato di mettere in luce. E cioé che la fondazione dello Stato liberale, di quello fascista e dello Stato democratico repubblicano, ha sistematicamente visto le forze di sinistra dareun contributo fondamentale nell’abbattimento dei vecchi regimi, al quale seguirono poi la loro sconfitta e il sopravvento delle forze moderate conservatrici. La vicenda ha avuto inizio con il Partito democratico risorgimentale. Poi la cosa si è riproposta in maniera quanto mai drammatica dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando la sinistra anticapitalistica esercitò un ruolo di primo piano nell’abbattimento del vecchio Stato liberale e anche nella introduzione del primo regime relativamente democratico che con le elezioni del 1919 diede al Partito socialista, proiettato verso la rivoluzione, una grande forza. Però poi ecco che, ripetendo la vicenda conclusiva del Risorgimento, le forze della sinistra conoscono un riflusso, vengono battute dalla reazione fascista. Una situazione, che si è riproposta dopo il 1945. Noi sappiamo quanto grande sia stato il contributo che hanno dato i partigiani di indirizzo comunista nella Resistenza. Abbiamo visto lasinistra socialcomunista acquistare un ruolo di primissimo piano nella situazione politica italiana del dopoguerra e poi la svolta in senso moderato sanzionato dalla clamorosa vittoria della Dc nelle elezioni dell’aprile ’48. E ancora una volta, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, nella fase di Tangentopoli, abbiamo assistito a un riflusso moderato con l’avvento nel ’94 del partito di Berlusconi e di quelle forze che in seguito hanno impresso la loro impronta prevalente. Quindi si tratta di una costante. Come possiamo spiegarla? Per quanto riguarda tutto il periodo dello Stato liberale fino al crollo del comunismo, la spiegazione che si può dare è questa: che la sinistra ha avuto bensì forti radici nel suo opporsi al sistema economico e politico dominante, facendo leva sul divorzio accentuato tra le classi dirigenti e le classi subalterne e sul diffuso disagio sociale, cui intendeva dare uno sbocco anticapitalistico; ma che alla fineessa ha perso la partita nei confronti del capitalismo, anche in un paese come l’Italia dove questo presentava dei limiti molto forti. Professore, si parla spesso di due Italie intendendo con questo termine un Nord diviso dal Sud. Ma, venendo al periodo dal dopoguerra in poi, il Paese è stato diviso in due anche politicamente, con una parte progressista e un’altra, moderata se non apertamente reazionaria. E’ giusto insomma parlare di due Italie anche in questo senso? Partiamo dal dato di fatto che in Italia lo sviluppo dello Stato unitario è stato segnato dalla contrapposizione tra due Italie, che non si sono incontrate e si sono combattute in forme rinnovate e diverse. Dopo Tangentopoli si era ritenuto che in questo Paese, anche in conseguenza del venir meno della vecchia antitesi tra la sinistra anticapitalista e il variegato fronte che ad essa si opponeva, fosse possibile instaurare una stagione di riformismo, progressista, in grado di assicurare quella che èstata chiamata una normalità democratica. Tutto questo non è avvenuto. E noi abbiamo di nuovo due Italie che si contrappongono frontalmente. Bisogna dire però che la composita Italia che noi chiamiamo progressista ancora una volta non riesce a trovare un comune denominatore capace di dare al paese una sicura governabilità. Dobbiamo infatti tener conto del dato che caratteristica della situazione attuale è il permanere di grosse differenze all’interno della componente progressista, non si sa quanto superabili, le quali indubbiamente la indeboliscono, in conseguenza di un incrociarsi di distinguo e di veti reciproci. Lei sottolinea nel libro come l’Italia sia riuscita, malgrado soprattutto i tentativi della Lega e del suo federalismo in questa ultima fase, a tenersi unita. Che cosa ne pensa? Il federalismo ha antiche radici nella tradizione politica italiana. E anche ideologicamente molto nobili, a partire dal pensiero del grande Cattaneo e di Ferrari. Lo Statounitario, con l’introduzione delle regioni prevista dalla Costituzione, si è dato un progetto importante, che costituisce uno dei fattori centrali della riforma delle istituzioni. Quindi il federalismo è una prospettiva positiva, però il punto dolente è questo: quale tipo di federalismo? Noi sappiamo che quello avanzato dalla Lega, anche con i compromessi che essa oggi suggerisce, continua ad essere un piano separatistico. Questo tipo di federalismo è intrinsecamente pericoloso, perché in prospettiva il separatismo sarebbe un disastro storico e politico per questo paese, che deve trovare invece un punto di equilibrio tra un federalismo che dia alle varie regioni e comuni dei poteri sostanziali e il mantenimento dell’unità dello Stato. Il federalismo bocciato la settimana scorsa in commissione ha invece come unico obiettivo quello di attribuire alle regioni più ricche degli strumenti di finanziamento mettendo in discussione alla radice le politiche di riequilibrio sociale fra le varieparti del Paese. E quindi credo che sia stato positivo quanto è avvenuto. Il separatismo leghista deve essere respinto con tutte le energie. Mi auguro che questo avvenga e che si affermi un federalismo solidale. Due parole sulla sinistra e in particolare sul Pd. Io sento personalmente vivo sempre l’interrogativo che Bobbio, negli ultimi suoi anni, aveva rivolto in particolare a Massimo D’Alema quando questo invocava per il Paese «una rivoluzione liberale». Bobbio gli aveva replicato: «ma io mi auguro che la sinistra in Italia tenga alta anzitutto la bandiera della giustizia sociale». Noi ci troviamo di fronte ad un sistematico saccheggio delle risorse comuni da parte di piccole élite di grandi ricchi, il 10% della popolazione secondo i dati Istat, che anche in un periodo di grave crisi economica come quello attuale continua a rastrellare il 45% delle risorse nazionali. Per me sinistra vuol dire una forza politica che accanto alla democrazia politica, alle libertàcivili, e alla laicità, porta avanti la battaglia per una maggiore giustizia sociale: quella giustizia sociale che deve assegnare a ciascuna persona le risorse morali, spirituali, culturali e materiali senza le quali le persone sono individui emarginati, piegati e piagati dall’ingiustizia. Spero che, anche se purtroppo non ne vedo molti segni, in Italia si ricostruisca una sinistra che abbia nel suo dna la volontà di rialzare la bandiera della giustizia sociale. Questa è il mio auspicio. Vittorio Bonanni
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